Parte Terza. Riflettere sul ruolo della Chiesa cattolica nell’ambito del fenomeno dell’immigrazione: un "problema epocale". La messa è finita. Pachamama l'idolo "Terzomondista". San Petronio alla guerra dei "Tortellini" Cap.7 e 8
di Roberto Pecchioli
Cap. 7
LA MESSA E’ FINITA?
In una parrocchia del quartiere genovese della Foce chi entra nel tempio trova al posto degli annunci sacri un paginone del quotidiano Avvenire pieno di fotografie di bambini di tutte le razze. Sono, dice la didascalia del giornale dei vescovi, gli italiani che non hanno ancora la cittadinanza. Propaganda politica sfacciata per lo ius soli. Su alcuni fogli di lettura distribuiti in diverse chiese campeggia la figura di Martin Lutero, l’ex eretico.
Ci auguriamo che le convinzioni in materia di cittadinanza non siano ancora oggetto di una nuova dogmatica, anche se qualche sacerdote incauto ha già sostenuto che è “contro il Vangelo” chi non è schierato per l’accoglienza indiscriminata degli stranieri. Nei Cori della Rocca, Thomas Stearns Eliot, il maggior poeta del Novecento, si chiede: è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, o è la Chiesa ad aver abbandonato l’umanità? La risposta di Don Luigi Giussani è tagliente. “La Chiesa ha cominciato ad abbandonare l’umanità perché ha dimenticato chi era Cristo, ha avuto vergogna di Cristo, di dire chi è Cristo.“ Eh sì, chi si vergogna, chi si nasconde, a cominciare dal fastidio di presbiteri e monache a indossare l’abito della loro condizione, dà il segno certo della sconfitta, l’ aver assorbito, fatto proprie la lingua e le parole altrui.
Lo stesso Eliot fa dire a un uomo, nei Cori, che all’uomo moderno servono meno chiese e più osterie. Missione compiuta, pressoché senza resistenza. The waste land, la terra guasta, è il titolo del capolavoro di Eliot, in cui si condensa tutto il dolore e la mestizia per un tempo irriconoscibile. Anche i papi non sono più quelli di una volta, che cercavano di portare anime a Dio, non chiamavano proselitismo l’apostolato e non si vergognavano del nome di Dio, di Gesù e dello Spirito santo. “Dove il mio Verbo non viene pronunciato, / nella terra delle lobelie e delle flanelle da tennis / il coniglio s’intanerà e il pruno tornerà a far visita, / l’ortica fiorirà nell’aiuola di ghiaia, / e il vento dirà: Qui vi furono dei dignitosi senzadio: / loro unico monumento la strada d’asfalto / e un migliaio di palline da golf smarrite” Ancora Eliot.
Infine la dolorosa scoperta: “La nostra epoca è un’epoca di virtù moderata / e di vizio moderato / in cui gli uomini non deporranno la Croce / perché mai se la caricheranno. / Eppure nulla è impossibile, nulla / agli uomini di fede e di convinzione”. Appunto, a loro, solo a loro. Vediamo un rapido transito al protestantesimo. Ci si sente come Lutero nel suo viaggio a Roma in cui s’indignò per la corruzione e la mancanza di spiritualità. Si è portati a concludere che è assai meglio, per la saldezza della fede e la salvezza dell’anima, stare lontani da questa chiesa stanca, impiegatizia. Sola gratia, sola fide, sola scriptura, così cerchiamo di reggere nella sconfortante ultima ridotta dopo due millenni di grandezza e di miseria, mai però di indifferenza.
Papa Francesco ama le interviste, specie se l’interlocutore è Eugenio Scalfari, suo collega, il Papa laico. Predilige gli organi di stampa avversi alla Chiesa, Repubblica e La Stampa. Riesce sempre a stupire, ma ciò che più sconcerta è che riesce a evitare sempre di pronunciare la parola Dio. Il pontefice migrante, venuto “dalla fine del mondo”, è una sorta di Papa a-teo. Non ateo, per carità. Non ci permettiamo di giudicare i sentimenti interiori di Jorge Mario Bergoglio, ma a-teo, lontano da Dio, un Dio sbiadito, fuori scena, Godot che non arriva mai. Peggio di Godot, che era atteso, evocato, sperato ogni sera nell’appuntamento di Vladimir e Estragon nella piéce teatrale di Samuel Beckett. Si chiede Gesù nel Vangelo di Luca: quando tornerà il Figlio dell’uomo, troverà ancora la fede sulla terra? (Lc. 18-8). Soprattutto, chissà se troverà qualcuno a proclamarla, se il Vicario abbandona la partita per discutere di immigrazione con interlocutori che non hanno neppure la fosca grandezza dell’ateo, ma l’indifferenza irridente dell’Homo Deus.
Il tema preferito dell’inquilino di Santa Marta – il Papa non abita in Vaticano- sono le migrazioni. Propagandista dell’invasione, da ultimo ha compiuto un grave salto di qualità nello schierarsi con forza a favore della sostituzione etnica. Insieme con la demonizzazione del sovrani, ecco il Bergoglio-pensiero distillato a La Stampa. “Primo: ricevere, che è anche un compito cristiano, evangelico. Le porte vanno aperte, non chiuse. Secondo: accompagnare. Terzo: promuovere. Quarto integrare. “Se si esauriscono le possibilità di accoglienza, nessun problema, la panacea è il solito dialogo (su che cosa?). Qui l’ex peronista argentino sgancia la bomba: “ci sono Stati che hanno bisogno di gente, penso all’agricoltura. (…) Mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero in grado di ravvivare l’economia della zona”.
Mancano i birilli bianchi, sotto con quelli colorati, gli uomini sono intercambiabili, i popoli ancora di più. Singolare identità di vedute con le oligarchie di potere e la sinistra internazionale. Nessun accenno alla possibilità che la Chiesa torni a difendere la vita, nessun interesse per politiche a sostegno della natalità in Occidente, minata dall’aborto, dall’individualismo e dal relativismo etico. Al contrario, rammentiamo assai bene l’attacco sferrato tempo fa a chi ha molti figli, sino allo sgradevole paragone con i conigli. Forse gli uomini di Chiesa dovrebbero rivolgersi in quei termini al Terzo Mondo, non agli sterili europei. Se volessimo giudicare Bergoglio dall’intervista alla Stampa, dovremmo considerarlo esclusivamente un avversario politico allineato con i poteri oligarchici mondiali.
Il papa veste altresì l’abito verde ecologista con un’intemerata a sostegno al partito del catastrofismo ambientale per cause antropiche. “Alcuni mesi fa sette pescatori mi hanno detto: negli ultimi mesi abbiamo raccolto sei tonnellate di plastica. L’altro giorno ho letto di un ghiacciaio enorme in Islanda che si è sciolto quasi del tutto: gli hanno costruito un monumento funebre. (…) Ma il dato che mi ha sconvolto di più è ancora un altro. Il 29 luglio abbiamo esaurito tutte le risorse rigenerabili del 2019. Dal 30 luglio abbiamo iniziato a consumare più risorse di quelle che il pianeta riesce a rigenerare in un anno. “Bergoglio si dilunga sulla biodiversità, sui fertilizzanti, sulle miniere a cielo aperto, sulla raccolta differenziata. Ha ragione da vendere, nel merito, e fa piacere che l’allarme giunga anche dalla cattedra di Pietro. Ci piacerebbe di più se indicasse con chiarezza i responsabili nelle ideologie materialiste, nei poteri forti del denaro e della tecnologia. Tuttavia, la sacrosanta battaglia ecologica non è quello che ci aspettiamo dalla Chiesa di Gesù, fino a diventare oggetto di un sinodo in Amazzonia.
Lasciamo alla sensibilità di ognuno il giudizio sul Papa “politico”, nelle sue varianti ecologiche, immigrazioniste, anti sovraniste e anti populiste. Come tutti, ha diritto alle sue opinioni. Proprio in quanto opinioni, possiamo approvarle o contrastarle; ciò che sconcerta è che vengano espresse dalla cattedra di Pietro, che, fino a prova contraria, non è una ONG, Organizzazione Non Governativa, un partito politico transnazionale o un’agenzia ideologica. Sgomenta un pontefice che, intervistato da un giornale avverso alla Chiesa, parla di tutto fuorché di Dio e del suo figlio, il cui Vangelo ha il compito di diffondere nel mondo. E’ un silenzio che turba, in mezzo a una crisi del cristianesimo dalle mille sfaccettature, ma sempre più crisi di fede.
Il pesce puzza dalla testa, se Pietro tace su Dio, se neppure lui “ha parole di vita eterna”, (Giovanni, 6,68) da chi andremo? Paolo di Tarso, nella lettera ai Corinzi, proclamava che se Gesù non fosse risorto, i cristiani sarebbero i più miserabili tra gli uomini. Credono ancora in quell’evento decisivo, o esiste solo la città dell’uomo, meglio se migrante?
Cap. 8
PACHAMAMA, L’IDOLO TERZOMONDISTA
Chi scrive sa pochissimo di teologia, ma, da credente educato nel cattolicesimo, accettò con pazienza il disarmante “buona sera” con cui Jorge Mario Bergoglio salutò il popolo cristiano il giorno della sua elezione a romano pontefice. E’ poi passato alla perplessità, allo sconcerto, infine al disgusto e – con una parola desueta – allo scandalo per quanto avviene nella Chiesa cattolica, una volta madre e maestra.
Il confine tra innovazione e rivoluzione è stato oltrepassato. Il sinodo dell’Amazzonia ha trascinato con sé quanto restava del depositum fidei. Non parliamo delle polemiche relative al celibato, all’ordinazione femminile o al diaconato per viri probati, padri di famiglia di notoria moralità. Sono questioni importanti, ma non riguardano il nucleo della fede. La frontiera che temiamo sia stata varcata è quella del panteismo e dell’idolatria. In Amazzonia, simbolo dello sfruttamento del Creato per motivi economici, è nato un culto nuovo, quello verso la Madre Terra. “La sapienza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile, i loro culti meritano di essere conosciuti nella loro relazione con il bosco e la madre terra”, recitano i documenti approvati.
Per il semplice fedele, per il quale madre è la Madonna, “vergine madre figlia del tuo figlio” (Dante, Commedia- Paradiso, canto XXXIII) e il Padre ha il nome antico e venerabile di Dio, è uno scioccante panteismo. Tornati a Roma, i turisti amazzonici sono riusciti ad andare oltre, portando a San Pietro, tra piume e danze tribali, la statuetta di una divinità animistica andina, Pachamama, la madre terra, figlia di Inti, il Dio Sole, dea della fertilità e dell’agricoltura. Un idolo è stato introdotto nel tempio più importante della cristianità ed ha ricevuto l’omaggio del papa. Sgomentano le parole del teologo brasiliano Paulo Suess, secondo cui “anche se fosse stato un rito pagano, ciò che è accaduto è stato un servizio di adorazione”. Hanno adorato un feticcio cui si attribuiscono capacità soprannaturali – dare fertilità, propiziare buoni raccolti- anziché Dio. Misteri della Chiesa migrante.
Sono cristiano vecchio, esclamava orgoglioso Sancho Panza, lo scudiero di Don Chisciotte; cerchiamo di esserlo anche noi. Restiamo ai Dieci Comandamenti, le tavole della legge dettate da Dio sul monte Sinai. Il primo è assolutamente chiaro, drastico: non avrai altro Dio all’infuori di me. Nel libro biblico dell’Esodo (20-2,17) Dio impone di non “fare scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire”. Il popolo ebraico chiedeva ad Aronne di costruire un vitello d’oro davanti al quale inginocchiarsi e offrire sacrifici. L’idolatria è una malattia spirituale, in termini cristiani un peccato contro Dio, un atto di sfiducia nei confronti del creatore. Il primo comandamento è rovesciato. Non avrai altro idolo all’infuori di me, esigerà Pachamama inorgoglita dell’omaggio papale.
Speriamo nella misericordia divina, affinché perdoni gli autori di atti che lasciano senza fiato. Strana misericordia, quella di un Dio che non giudica più il bene e il male da egli stesso distinti nei comandamenti e ispirati nel cuore dell’uomo. Capita di sentire critiche ai comandamenti, anche da parte ecclesiale, accusati di stabilire una sequenza di divieti. Intollerabile, per l’uomo moderno, non essere Dio e giudice di se stesso, ma le Tavole insegnano che nell’uomo coesistono il bene e il male. Dio stesso lo ha detto, con una premessa solenne: io sono il Signore, non avrai altro Dio all’infuori di me. Ha separato il bene dal male, non ha posto sul trono nessuna madre terra o Gaia e nemmeno i migranti. Non c’è nessuna religione universale, né ammette sincretismi, New Age, tanto meno il naturalismo, il panteismo che fa della natura – ex creato- la madre da idolatrare.
Pachamama è un idolo, come quello del marinaio Queequeg nel romanzo Moby Dick, che non si separava mai dal suo piccolo Yojo, adorato come una divinità. E’ questo il presente della Chiesa impegnata a chiedere scusa a tutti. Quale conclusione può trarre l’uomo della strada, se una grande agenzia spirituale con duemila anni di storia implora perdono per tutto? E’ ovvio che la Chiesa abbia commesso errori, è formata da uomini, ma se si scusa battendosi il petto, chiunque ha diritto di pensare che ha sempre torto. Perché dunque prestarle orecchio? Ora afferma una sorta di equivalenza delle fedi. Nella dichiarazione firmata ad Abu Dhabi, Bergoglio ha sottoscritto che tutte le religioni sono “volontà di Dio”. In termini umani, è evidente che le diverse civiltà hanno prodotto una loro idea di Dio, uno specifico percorso verso la trascendenza. Il cristiano sa però, poiché è (era?) parola di Dio, che solo Gesù è via, verità e vita.
Non sappiamo se le parole di Francesco siano eretiche, ma spaventa il relativismo sulla bocca del successore di Pietro, come l’ordine di insegnarle nelle università pontificie, creando una commissione per diffondere un’equivoca dottrina. Ma si sa, adesso la profezia vale più della dottrina. Peccato che non si vedano all’orizzonte profeti, ma attivi decostruttori dell’impianto che ha attraversato i millenni e vertebrato la nostra civiltà. Le fedi sarebbero equivalenti: basta il senso di Dio, il sentore vago di un Oltre per essere nel giusto. Nel giusto rispetto a che cosa?
La verità cristiana è semplice: l’uomo è creatura fatta a immagine e somiglianza di un’entità creatrice, Dio, che ha inviato il suo figlio per “la nuova ed eterna alleanza” con l’umanità. Osteggiato dal potere, Gesù è stato crocifisso ma ha vinto la morte risorgendo, ed il suo regno non è di questa terra. Ogni essere umano è suo figlio e può partecipare all’eternità, se si attiene al Bene che il Creatore gli ha ispirato o direttamente insegnato, a partire dal primo comandamento. Dio non è un feticcio, pretende l’esclusiva. Niente Yojo del buon Queequeg, nessuna Pachamama, tanto meno a San Pietro. Le statuette sono poi state portate in una chiesa romana, dove si sono svolti strani riti magico idolatrici denominati “momenti di spiritualità amazzonica”. Gettate nel Tevere da alcuni cattolici, sono ricomparse (miracoli della foresta pluviale) non senza che il vescovo di Roma si scusasse con chi si fosse sentito offeso dall’asportazione degli idoli. Nessuna scusa nei confronti dei fedeli umiliati.
E’ in via di elaborazione ufficiale un rito amazzonico che dà ragione a un intellettuale laico come Ernesto Galli Della Loggia: “dilaga una sinistra volontà della Chiesa di confondersi con il mondo. L’ideologia etica dei diritti umani ha prodotto un’indistinta prospettiva mondialistico-buonista. Il cattolicesimo romano con la sua consustanziale ambizione universale si è così trovato di fronte alla sfida interamente inedita di qualcosa che di fatto ambiva a stargli alla pari, che gli stava alla pari. Si è trovato a fare i conti con una sorta di morale anch’essa universale, d’ispirazione naturalistica e di tono fortemente laico, il cui effetto era, ed è, di porre in subordine ogni specifico discorso religioso”.
L’inseguimento affannoso si è concluso: la chiesa raggiunge il mondo, ma diventa inutile, un’organizzazione caritatevole tra le altre, dedita alla lavanda di piedi, purché stranieri, il cui quid pluris, il trascendente, è dimenticato. Dio è rimosso, il fastidioso elefante in cristalleria. C’è, ma negano la sua presenza, in attesa di estrarre il cartellino rosso ed espellerlo dal campo per gioco pericoloso. Troppo esigente, la pretesa di essere unico, addirittura redentore. La vita eterna, l’immortalità dell’anima, i novissimi della tradizione, sono cancellati. Meglio le piume di qualche tribù, il feticcio della madre terra, l’abbraccio agli estranei: più che profezia, è il travestimento estremo di chi non crede più.
L’anima non è che “il fantasma in casa” dello scienziato ateo Steven Pinker, pura illusione cognitiva. L’ approdo al tribalismo spiritista terzomondista è un passo decisivo verso il basso. La chiesa sembra ormai vedere se stessa come un’organizzazione tra le altre, rinunciando al ruolo magisteriale che le conferì Gesù. Egli stesso esce malconcio dalla neo Chiesa idolatrica: la sua vita è relativizzata, i racconti evangelici non sono sicuri, mancano le prove, il demonio con cui lottò nel deserto è una metafora del male. Chissà se il terzo giorno è risorto, “secondo le Scritture”, tanto poco scientificamente attendibili. Confusi, in crisi di fede, si rifugiano negli idoli. Resta, fulminante, l’intuizione di Gilbert Chesterton. “Da quando gli uomini non credono più in Dio, non è che non credano in nulla: credono a tutto.” Disse anche “entrando in chiesa, ci si toglie il cappello, non il cervello.” Idoli ce ne sono in quantità: il denaro, il potere, il sesso, l’eterna giovinezza, le ideologie, la scienza, l’umanità.
Un idolo assai caro alla neo Chiesa è il migrante mitizzato, dannato della terra da riscattare. Nessun dubbio sul rispetto dovuto a ciascun uomo, ma una follia settaria ha colto sacerdoti e prelati che, in nome dell’idolo-migrante, negano la qualifica di cristiano a chi difende la sua gente e non vuole, come dire, “acculturarsi”. Chiamano assassino chi disapprova l’immigrazione di massa. Lo straniero, ridefinito “migrante” in ossequio al nomadismo liquido imperante, è un uomo da rispettare, non un idolo da adorare o a cui baciare i piedi.
Pachamama è un rispettabile simbolo identitario di alcuni popoli, non un totem da recare in processione a San Pietro e porre a lato del Santissimo Sacramento. Tanto meno si possono organizzare veglie in suo onore, come è capitato in una parrocchia veronese, dove è stata letta la seguente preghiera: “Pachamama di questi luoghi (???) bevi e mangia a volontà quest’offerta, affinché sia fruttuosa questa terra.” Le è stato chiesto di far sì che i buoi camminino bene e il gelo non distrugga la semente, fino all’incredibile supplica finale: sii propizia, sii propizia. Hanno cioè invocato una divinità che non è Dio. Probabilmente non lo sanno, nel fervore del neofita: Dio toglie il senno a chi vuol perdere.
Viene un groppo in gola: eresia, apostasia, idolatria, o una confusione tanto grande da accecare, un caos in cui ci si aggrappa a qualunque appiglio perché Dio è uscito dal radar. Non è morto: peggio, è sparito, è l’ipotesi non più considerata, come per il biologo evoluzionista francese Jean Baptiste Lamarck. Idolo, peraltro, è ogni oggetto, o immagine che sia adorata e venerata in quanto ritenuta una divinità o un suo simbolo. Per Bacone gli idola erano i pregiudizi, le false credenze, i prodotti dell’ambiente. Auspicava una società ideale basata sulla scienza. Il suo idolo personale era la perfezione della città dell’uomo. Nessuna differenza con il cristianesimo secolarizzato.
Con gli idoli intronizzati e deposti sull’altare di Pietro, vince il relativismo. Pachamama è la madre terra di alcune popolazioni amerinde, altrove, con altrettanta legittimità, si adoreranno simulacri diversi. Simulacri non di Dio, ma di un generico spiritualismo, del naturalismo, dell’animismo, dell’energia universale. Occorre chiedere lumi a papa Scalfari, l’esegeta massimo del pensiero di Jorge Mario Bergoglio. Temiamo che il vegliardo ateo abbia capito meglio di tutti il cammino della navicella di Pietro. Nell’ultimo articolo in cui si è occupato di chiesa, con il consueto tono ispirato del Maestro, ha fatto balenare l’ipotesi che il tifoso del San Lorenzo (la squadra di calcio argentina, non il santo delle stelle cadenti) non creda alla divinità di Gesù. La smentita, debole, per dovere d’ufficio, della comunicazione vaticana non ha convinto. Se avesse ragione Barbapapà, avremmo un pontefice non cristiano. Si spiegherebbero lo sfregio idolatrico, l’innamoramento amazzonico, la pastorale centrata sui migranti, il fastidio per la dottrina, le statuette e le invocazioni a pseudo divinità esotiche come Pachamama, figlia di Inti, il dio Sole.
Se Gesù non è Dio, il Vaticano dovrebbe, per coerenza, chiudere i battenti. La verità ultima o esiste e la Chiesa ne è depositaria, o ciascuno se ne può costruire una, rinchiudendola in un idolo personale. Intanto, milioni di persone non capiscono il linguaggio dei preti, il clericalese infarcito di sociologismo d’accatto, lontano dalla chiarezza prescritta da Gesù, che fosse Dio, un profeta, un grande uomo o una figura inventata, mai vissuta. Le vostre parole siano sì sì, no no, il di più viene dal maligno (Matteo 5,21-37). Il crocifisso diventa un idoletto da taschino come Pachamama, il Santo postmoderno è il Migrante. Quando il popolo non capisce, fugge. Le chiese si svuotano tra chitarre, omelie politiche, sermoni incomprensibili, multiculturalismo e invocazioni a divinità alternative.
Se la modernità è la storia del progressivo smarrimento dei valori cristiani in favore dell’umanesimo, la post modernità a-cristiana rappresenta la completa dissoluzione e il fallimento dello stesso umanesimo. Il deserto spirituale, tuttavia, non è l’esito, ma una tappa della storia. Abbiamo bisogno non di idoli o di equivoche terre madri eco compatibili, ma di un nuovo Medioevo, un’epoca di rifioritura spirituale e culturale. Bisogna tornare al reale, all’origine, all’umile ricerca della verità e del divino. E’ il pensiero di Gustave Thibon, il filosofo contadino, che la terra la calpestava senza invocare la figlia del sole, e dell’esistenzialista ortodosso Nikolaj Berdjaev.
C’è una lezione nel culto di Pachamama da parte di una chiesa estenuata. Cercano, senza trovarla, la fede che hanno perduto. Rovesciato Tertulliano, credo quia absurdum, credo proprio per il paradosso della fede, troppi cristiani non credono più per l’identico motivo, muti davanti alla scienza, alla tecnica, alla materia. E‘ smarrita la lezione di un grande cristiano, Lev Tolstoj: “un uomo senza fede è uno storpio spirituale e morale. Può vivere solo grazie agli adattamenti artificiali: i divertimenti, l’arte, la libidine, l’ambizione, la cupidigia, la curiosità, la scienza.” Idoli.
Cap. 9
SAN PETRONIO ALLA GUERRA DEI TORTELLINI.
Occorre riconoscere che, a viverlo con il supremo distacco degli stoici, il nostro è un tempo divertente. Un episodio che muove all’ilarità è la guerra dei tortellini bolognesi. Per la festa di San Petronio, patrono di Bologna, la chiesa locale usa distribuire il più famoso dei piatti emiliani, i tortellini. Quest’anno, tuttavia, c’è una variante, diciamo così, gastronomico-culturale. La Curia, diretta da mons. Zuppi, successore di cardinali del livello di Giacomo Biffi e Carlo Caffarra, ha deciso di modificare la ricetta. Niente più carne di maiale nel ripieno della gustosa specialità, ma di pollo. No, nessuno sfregio nei confronti dell’Accademia del Tortellino, giustamente indignata, ma il desiderio di essere inclusivi, non offensivi nei confronti di chi non consuma carne suina. E’ finalmente nato, ad iniziativa dei benemeriti preti di San Petronio, il tortellino politicamente corretto.
Poiché non risultano proteste di vegetariani e crudisti, né obiezioni da parte della comunità ebraica felsinea, né indignazione induista e giainista, è evidente che i delicati, pii sacerdoti hanno agito così per timorosa considerazione nei confronti del divieto di carne suina da parte mussulmana, a scanso di discussioni poco teologiche e molto politiche. La sottomissione avanza e la sua ultima bandiera è il vecchio, caro, appetitoso tortellino, che, senza l’apporto del maiale, è tutta un’altra cosa. Benediciamo l’indubbio vantaggio dietetico della nuova ricetta, ma ci piacerebbe ascoltare i commenti, le risate, sotto gli islamici baffi, dei devoti di Maometto residenti tra le torri Garisenda e degli Asinelli. San Petronio diventa accogliente, multiculturale e, diciamolo, pusillanime. Strano che i cauti monsignori bolognesi non siano stati sfiorati dal ridicolo della loro iniziativa, troppo seri, impegnati nel sociale, inclusivi e politicamente corretti per sorridere di se stessi.
Viene in mente il poema di Alessandro Tassoni, modenese, fiero avversario di Bologna, La secchia rapita. I suoi concittadini rubarono una secchia di legno ai bolognesi e questo scatenò, nel divertente poema, una guerra tragicomica. Lo sfregio al tortellino per riguardo non richiesto ai fedeli di Allah fa sorridere, ma di amarezza. La secchia rapita è la nostra civiltà, la nostra cultura, anche quella popolare, materiale, di cui i tortellini sono un piccolo elemento. Dobbiamo disfarci anche di ciò che mangiamo per riguardo ad alcuni stranieri: i monsignori guidano la ritirata.
Monsignor Stefano Russo, segretario della Conferenza Episcopale, uomo di potere che sa misurare le parole, afferma che il Crocifisso non è un simbolo divisivo, il che farebbe inorridire Colui che salì sulla croce, bensì un elemento di appartenenza ad una civiltà. Sacrosanto, ma allora perché non combattono per essa, e al contrario fuggono, si nascondono, balbettano e non hanno neppure il coraggio dei tortellini? Incredibile è una frase successiva: la civiltà nostra è intrisa di cristianesimo “anche per ciò che ne è scaturito in termini di accoglienza e integrazione”. Insomma, siamo cristiani in quanto rinunciamo a noi stessi. Il dente batte dove la lingua duole, la chiesa si è ormai appiattita su una visione immigrazionista, mondialista, ostile alla civiltà di cui è stata levatrice. Dobbiamo diventare meticci- Bergoglio dixit- e siamo cristiani non perché crediamo in un evento salvifico simboleggiato dalla Croce, ma in quanto accoglienti, integratori ed inclusivi.
Di Domineddio non si parla, meno ancora dei contenuti della fede. La crisi del cattolicesimo non è politica, storica e neppure etica. E’ un’enorme crisi di fede nel contenuto veritativo del messaggio cristiano. A imitazione del protestantesimo contemporaneo, è una religione relativizzata, da cui espelle gradualmente il mistero, il soprannaturale; presto lo stesso Dio verrà dichiarato tutt’al più probabile. Il Vangelo è un simpatico racconto di quattro buontemponi che fraintesero l’accaduto- mancavano le telecamere, lo ha detto il capo dei gesuiti- e la vita eterna mah, speriamo, ma mancano le prove. Va in scena la lavanda dei piedi agli immigrati, falsificazione dell’episodio evangelico, in cui Gesù esprimeva riconoscenza ai discepoli, non sottomissione ai passanti. Cristo stesso è visto come un migrante, nazzareno di sangue, ma cittadino di Betlemme per ius soli.
Non è questione di tortellini, carne di maiale e immigrazionismo in tutte le salse. Corre al passo del gambero una Chiesa senza Dio.
CONCLUSIONE
Amerai il prossimo tuo come te stesso era un comandamento antico, scritto nella legge di Mosè e Gesù stesso lo cita come tale (Lc 10, 27). Gesù lo chiama il suo comandamento e il comandamento nuovo, scrivono i frati cappuccini di Assisi in <assisiofm.it>: “[Con Gesù] sono cambiati l’oggetto, il soggetto e il motivo dell’amore del prossimo. È cambiato anzitutto l’oggetto, cioè chi è il prossimo da amare. Esso non è più solo il connazionale, o al massimo l’ospite che abita con il popolo, ma ogni uomo, anche lo straniero, anche il nemico. “
La proposta cristiana è difficile; tuttavia, è un obiettivo entusiasmante, un programma di vita di immenso valore morale. Neanche Gesù, però, ci chiede di amare il prossimo più di noi stessi. Spaventa la pretesa della nuova Chiesa migrante dalla fede sfuggente di imporre ai fedeli un atteggiamento innaturale. Il dovere cristiano è il rispetto della dignità di ogni uomo, senza riguardo alla sua condizione etnica e sociale, non la preferenza per l’Altro. Lo straniero non va discriminato, ma la natura dell’uomo – l’essere creato a immagine e somiglianza di Dio- prevede l’amore di sé, dei propri figli e della comunità cui si appartiene. Non richiede di spogliarci dell’identità e di amare gli altri più di noi stessi. Tanto meno di rinunciare per loro a ciò che siamo.
Ci è capitato di assistere a un evento di Papa Francesco nella città di Genova. Al termine dei riti, durante i quali era stata attribuito un ruolo primario alle comunità straniere presenti nella città, gli organizzatori hanno pensato di rendere omaggio a Genova con il canto dell’emigrante ligure, il commovente Ma se ghe penso scritto da Mario Cappello, omaggio alle origini materne di Bergoglio, ma soprattutto strizzata d’occhio politicamente corretta all’ immigrazione. Siamo rimasti assai infastiditi dall’uso sfacciato della canzone. Lungi dall’essere un peana multietnico o un inno alla cittadinanza universale, Ma se ghe penso è un grande atto d’amore all’identità, alle radici, alla Patria natia, alla lingua materna, a ciò che si è, al culto dei propri morti.
Chissà se Bergoglio ricorda il dialetto ligure di sua madre e se capiva il testo la folla che lo intonava a squarciagola, ma l’emigrante ligure scioglieva un inno alla sua terra, all’appartenenza, non al nomadismo: ma se ci penso io vedo il mare, vedo la Lanterna, vedo i miei monti e la piazza dell’Annunziata. Voleva tornare a casa, risentire la sua lingua, e ribatteva al figlio che sconsigliava il ritorno ad Itaca: tu dici senor caramba, sei nato spagnolo (gli emigranti liguri hanno popolato soprattutto Cile ed Argentina) ma io sono genovese e non mollo. Addirittura, chiede di essere seppellito accanto ai suoi vecchi, il ritorno per “posare le ossa dove ci sono i miei nonni.” Non è certo propaganda all’immigrazione selvaggia, alla perdita di identità, allo sradicamento coatto di cui la Chiesa è oggi punta di lancia in nome del dogma dell’accoglienza indiscriminata che uccide il popolo di arrivo, svuota e depriva di energie quello di partenza. Chi è sradicato, sradica a sua volta.
Il primo diritto di uomini e popoli è quello di non emigrare, restare a casa, riconoscersi in una lingua, un luogo, una comunità, una fede comune, ereditare e poi trasmettere il lascito. Che lo ignorino il materialismo liberale e quello progressista non stupisce, ma Babilonia, civitas infernalis, non sarà mai la città dell’uomo. Tanto meno la città di Dio.
CATTOLICESIMO E IMMIGRAZIONE.
CHIESA MIGRANTE, FEDE SFUGGENTE
di Roberto Pecchioli
P A R T E T E R Z A
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