ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 4 settembre 2020

Il totem conciliare

Vaticano II / Monsignor Viganò risponde a padre De Souza (e a padre Weinandy)


Alcuni giorni fa, poco dopo un altro articolo di analogo tenore pubblicato da padre Thomas Weinandy (qui), padre Raymond J. De Souza ha scritto un commento dal titolo Il rifiuto dell’arcivescovo Viganò del Concilio Vaticano II promuove lo scisma? (qui). Il pensiero dell’estensore è subito espresso: «Nella sua ultima “testimonianza”, l’ex nunzio ha una posizione contraria alla fede cattolica sull’autorità dei concili ecumenici».

Posso comprendere che per molti versi i miei interventi possano provocare non poco fastidio ai sostenitori del Vaticano II, e che mettere in discussione il loro idolo rappresenti un motivo sufficiente per meritare le più severe sanzioni canoniche, dopo aver gridato allo scisma. Il fastidio di costoro si unisce a un certo dispetto nel vedere che – nonostante la mia scelta di non apparire in pubblico – i miei interventi suscitano interesse e alimentano un salutare dibattito sul Concilio e più in generale sulla crisi della Gerarchia ecclesiastica. Non rivendico a me il merito di aver iniziato questa disputa: prima di me altri eminenti Prelati e intellettuali di alto profilo hanno evidenziato criticità che necessitano una soluzione; altri hanno mostrato il rapporto di causalità tra il Vaticano II e l’apostasia presente. Dinanzi a queste numerose e argomentate denunzie nessuno ha mai proposto risposte valide o soluzioni condivisibili: al contrario, a difesa del totem conciliare si è fatto ricorso alla delegittimazione dell’interlocutore, alla sua ostracizzazione, all’accusa generica di voler attentare all’unità della Chiesa. E quest’ultima accusa è tanto più grottesca, quanto più evidente è lo strabismo canonico degli accusatori, i quali sfoderano il malleus haereticorum con chi difende l’ortodossia cattolica, mentre si profondono in riverenze con ecclesiastici, religio-s.j. e teologi che quotidianamente attentano all’integrità del depositum fidei. Le dolorose vicende di tanti Presuli, tra cui spicca senza dubbio mons. Marcel Lefebvre, confermano che anche in assenza di specifiche accuse c’è chi riesce ad usare la norma canonica come strumento di persecuzione dei buoni, e allo stesso tempo si guarda bene dall’utilizzarla con i veri scismatici ed eretici.
Come non ricordare a tal proposito, quei teologi che erano stati sospesi dall’insegnamento, allontanati dai Seminari, o colpiti da censure dal Sant’Uffizio, e che proprio per queste loro “benemerenze” meritarono di essere chiamati al Concilio come consultori e periti? Vanno annoverati anche quei ribelli della teologia della liberazione ammoniti sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II e riabilitati da Bergoglio; per non menzionare poi i protagonisti del Sinodo Amazzonico e i vescovi del Synodal Path promotori di una chiesa nazionale tedesca eretica e scismatica; senza omettere i vescovi della setta patriottica cinese, pienamente riconosciuti e promossi dall’accordo tra il Vaticano e la dittatura comunista di Pechino.
Padre de Souza e padre Weinandy, senza entrare nel merito degli argomenti da me presentati e che entrambi sdegnosamente qualificano come intrinsecamente scismatici, dovrebbero avere la correttezza di leggere i miei interventi prima di censurare il mio pensiero. In essi troverebbero menzionato il doloroso travaglio che mi ha condotto a comprendere solo in questi ultimi anni di essere stato tratto in inganno da quanti, costituiti in autorità, mai avrei pensato potessero tradire chi riponeva in essi la propria fiducia. Non penso di essere l’unico ad aver compreso questo inganno e ad averlo denunziato: laici, chierici e prelati si sono trovati nella dolorosa situazione di dover riconoscere una frode ordita con astuzia, una frode consistita a mio parere nell’aver fatto ricorso ad un Concilio per dare autorità apparente alle istanze dei Novatori e ottenere obbedienza dal clero e dal popolo di Dio. E questa obbedienza è stata pretesa dai Pastori, senza alcuna deroga, per demolire dall’interno la Chiesa di Cristo.
Ho scritto e dichiarato più volte che è stato proprio in virtù di questa falsificazione che i fedeli, rispettosi dell’autorità della Gerarchia, non hanno osato disobbedire in massa all’imposizione di dottrine eterodosse e di riti protestantizzati. Tra l’altro, questa rivoluzione non si è compiuta tutta in una volta, ma secondo un processo per tappe, in cui le novità introdotte ad experimentum venivano poi rese norma universale, con giri di vite sempre più stretti. E ho parimenti più volte ribadito che se gli errori e i punti equivoci del Vaticano II fossero stati formulati da un gruppo di Vescovi tedeschi o olandesi, senza ammantarli dell’autorevolezza di un Concilio ecumenico, avrebbero probabilmente meritato la condanna del Sant’Uffizio, e i loro scritti sarebbero finiti all’Indice: forse proprio per questo chi stravolse gli schemi preparatori del Concilio si premurò, durante il regno di Paolo VI, di indebolire la Suprema Congregazione e abolire l’Index libroum prohibitorum, nel quale in altri tempi avrebbero trovato i propri scritti.
De Souza e Weinandy ritengono evidentemente che non sia possibile cambiare opinione, e che sia preferibile rimanere nell’errore piuttosto che tornare sui propri passi. Eppure questo atteggiamento è ben strano: schiere di Cardinali e Vescovi, di sacerdoti e chierici, di monaci e suore, di teologi e moralisti, di laici e intellettuali cattolici si sono sentiti imporre, in nome dell’obbedienza alla Gerarchia, di rinunciare alla Messa tridentina per vedersela sostituire con un rito scopiazzato dal Book of Common Prayer di Cranmer; di gettare alle ortiche tesori di dottrina, di morale, di spiritualità, e un inestimabile patrimonio artistico e culturale, oscurando duemila anni di Magistero in nome di un Concilio, che per di più si è voluto pastorale e non dogmatico. Si sono sentiti dire che la chiesa conciliare si era finalmente aperta al mondo, spogliata dell’odioso trionfalismo postridentino, delle incrostazioni dogmatiste medievali, degli orpelli liturgici, della morale sessuofobica di Sant’Alfonso, del nozionismo del Catechismo di San Pio X, del clericalismo della Curia pacelliana. Ci è stato chiesto di rinunciare a tutto, in nome del Vaticano II: dopo oltre mezzo secolo vediamo che non si è salvato nulla di quel poco che apparentemente sembrava ancora rimasto in vigore!
Eppure, se ripudiare la Chiesa cattolica pre-conciliare abbracciando il rinnovamento conciliare è stato salutato come un gesto di grande maturità, un segno profetico, un modo per stare al passo coi tempi e in definitiva una cosa inevitabile e incontestabile, oggi ripudiare un esperimento fallimentare che ha condotto la Chiesa al collasso è considerato segno di incoerenza o di insubordinazione, secondo l’adagio dei Novatori “Indietro non si torna”. Allora la rivoluzione era salutare e doverosa, oggi la restaurazione è dannosa e foriera di divisioni. Prima si poteva e doveva rinnegare il passato glorioso della Chiesa in nome dell’Aggiornamento, oggi mettere in discussione qualche decennio di deviazioni è considerato scismatico. E quel che è ancora più grottesco è che i difensori del Concilio siano così flessibili con chi nega il Magistero preconciliare, e stigmatizzino con la gesuitica ed infamante qualifica di rigidi coloro che, per coerenza con quello stesso Magistero, non possono accettare l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (sfociati ad Assisi e ad Abu Dhabi), la nuova ecclesiologia e la riforma liturgica, scaturiti dal Vaticano II.
Tutto questo, ovviamente, non ha alcun fondamento filosofico né tantomeno teologico: il superdogma del Vaticano II prevale su tutto, tutto annulla, tutto cancella, ma non ammette di subire la medesima sorte. Ed è proprio questo che conferma che il Vaticano II, pur essendo un Concilio Ecumenico legittimo – come da me già affermato altrove – non è come gli altri, perché se così fosse i Concili e il Magistero che lo hanno preceduto avrebbero dovuto esser ritenuti altrettanto vincolanti (non solo a parole), impedendo la formulazione degli errori contenuti o implicati nei testi del Vaticano II. Civitas in se divisa…
De Souza e Weinandy non vogliono ammettere che lo stratagemma adottato dai Novatori è stato astutissimo: far approvare la rivoluzione, in un’apparente rispetto delle norme, a quanti pensavano che si trattasse di un Concilio Cattolico come il Vaticano I; affermare che si trattava solo di un Concilio pastorale e non dogmatico; lasciar credere ai Padri Conciliari che in qualche modo si sarebbero sistemati i punti critici, si sarebbero chiariti gli equivoci, si sarebbe riconsiderata qualche riforma in senso più moderato… E mentre i nemici avevano organizzato tutto, nei minimi dettagli, almeno vent’anni prima della convocazione del Concilio, vi era chi ingenuamente credeva che Dio avrebbe impedito il golpe dei Modernisti, quasi lo Spirito Santo potesse agire contro la volontà eversiva dei Novatori. Un’ingenuità in cui io stesso sono caduto assieme alla maggior parte dei miei confratelli e dei Prelati, formati e cresciuti con la convinzione che ai Pastori – e al Sommo Pontefice prima e sopra di tutti – fosse dovuta un’obbedienza incondizionata. Così i buoni, a causa di un loro concetto distorto di obbedienza assoluta, obbedendo ai Pastori in modo incondizionato, sono stati indotti a disobbedire a Cristo, proprio da chi aveva ben chiaro quali scopi si prefiggesse. Anche in questo caso è evidente che l’assenso al magistero conciliare non ha impedito, anzi ha richiesto come logica e inevitabile conseguenza, il dissenso con il Magistero perenne della Chiesa.
Dopo più di cinquant’anni non si vuole ancora prendere atto di un fatto incontestabile, e cioè che si è voluto usare un metodo sovversivo fino ad allora adottato in ambito politico e civile, applicandolo sine glossa alla sfera religiosa ed ecclesiale. Questo metodo, tipico di chi ha una visione a dir poco materialista del mondo, ha trovato impreparati i Padri Conciliari, che credevano veramente nell’azione del Paraclito, mentre i nemici sapevano come falsare i voti nelle Commissioni, fiaccare l’opposizione, ottenere deroghe alle procedure stabilite, presentare una norma come apparentemente innocua per poi trarne un effetto dirompente e di segno opposto. E il fatto che quel Concilio si svolgesse nella Basilica Vaticana, con i Padri in mitria e piviale o in abito corale, e Giovanni XXIII in tiara e manto, era perfettamente coerente con l’orchestrazione di una scenografia appositamente pensata per ingannare i partecipanti ed anzi rassicurarli che, in fondo, lo Spirito Santo avrebbe rimediato anche ai pasticci del subsistit in o agli spropositi sulla libertà religiosa.
A questo riguardo mi permetto di citare un articolo apparso in questi giorni su Settimo Cielo, dal titolo: Storicizzare il Concilio Vaticano II. Ecco come il mondo di quegli anni influì sulla Chiesa (qui). Sandro Magister ci dà notizia di uno studio del prof. Roberto Pertici sul Concilio, che raccomando di leggere per intero ma che si può sintetizzare in queste due citazioni: «Non deve essere solo teologica la disputa che sta infiammando la Chiesa, su come giudicare il Vaticano II. Perché anzitutto va analizzato il contesto storico di quell’evento, tanto più per un Concilio che programmaticamente dichiarò di volersi “aprire al mondo”». «So bene che la Chiesa – come Paolo VI ribadiva in “Ecclesiam suam” – è nel mondo, ma non è del mondo: ha valori, comportamenti, procedure che le sono specifici e che non possono essere giudicati e inquadrati con criteri totalmente storico-politici, mondani. D’altra parte, – si deve però aggiungere – non è neanche un corpo separato. Negli anni Sessanta – e i documenti conciliari sono pieni di richiami in tal senso – il mondo si avviava verso quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”, era già fortemente condizionato dai nuovi mezzi di informazione di massa, vi si diffondevano rapidissimamente idee e atteggiamenti inediti, emergevano forme di mimetismo generazionale. È impensabile che una vicenda dell’ampiezza e della rilevanza del Concilio si svolgesse nel chiuso della basilica di San Pietro senza confrontarsi con quanto stava succedendo».
A mio parere questa è una interessante chiave di lettura del Vaticano II, che conferma l’influenza del pensiero “democratico” al Concilio. Il grande alibi del Concilio fu il presentare come decisione collegiale e quasi plebiscitaria l’introduzione di cambiamenti altrimenti inaccettabili. Non fu infatti il contenuto specifico degli Atti né la loro portata futura alla luce dello spirito del Concilio a sdoganare dottrine eterodosse già serpeggianti negli ambienti ecclesiali del nord Europa, ma il carisma della democrazia, fatto proprio quasi inconsciamente dall’intero Episcopato mondiale, in nome di una sudditanza ideologica che da tempo vedeva molti esponenti della Gerarchia quasi subalterni alla mentalità del secolo. L’idolo del parlamentarismo sorto dalla Rivoluzione Francese – dimostratosi così efficace nel sovvertire l’intero ordine sociale – doveva rappresentare per alcuni Prelati l’inevitabile tappa della modernizzazione della Chiesa, da accettare in cambio di una sorta di tolleranza da parte del mondo contemporaneo per quel che ancora di vecchio e démodé essa si ostinava a proporre. E fu un gravissimo errore! Questo senso di inferiorità della Gerarchia, questa sensazione di arretratezza e di inadeguatezza alle istanze del progresso e delle ideologie tradiscono una visione soprannaturale molto lacunosa, ed un ancor più carente esercizio delle virtù teologali: è la Chiesa che deve attrarre a sé il mondo convertendolo, non viceversa! Il mondo deve convertirsi a Cristo e al Vangelo, senza che Nostro Signore debba esser presentato come un rivoluzionario à la Che Guevara e la Chiesa come una organizzazione filantropica attenta più all’ecologia che alla salvezza eterna delle anime.
De Souza afferma, contro quanto ho scritto, che avrei definito il Vaticano II un «concilio del diavolo». Mi piacerebbe sapere dove egli ha trovato riportate queste mie parole. Presumo che questa espressione sia dovuta a una sua erronea e presuntuosa traduzione del termine “conciliabolo”, secondo la sua etimologia latina, che non corrisponde al significato corrente nella lingua italiana.
Da questa sua erronea traduzione egli inferisce che io abbia «una posizione contraria alla fede cattolica sull’autorità dei concili ecumenici». Se si fosse preso la pena di leggere le mie dichiarazioni in proposito, avrebbe compreso che proprio perché ho la massima venerazione per l’autorità dei Concili Ecumenici e per tutto il Magistero in generale, che non riesco a conciliare gli insegnamenti chiarissimi ed ortodossi di tutti i Concili fino al Vaticano I con quelli equivoci e a volte persino eterodossi del Vaticano II. Ma non mi pare di essere il solo. E lo stesso padre Weinandy non riesce a conciliare il ruolo del Vicario di Cristo con Jorge Mario Bergoglio, che del Papato è al contempo detentore e demolitore. Ma per De Souza e Weinandy, contro ogni logica, si può criticare il Vicario di Cristo ma non il Concilio, anzi: quel Concilio, e solo quello. Non ho infatti mai incontrato tanta sollecitudine nel ribadire i Canoni del Vaticano I quando alcuni teologi parlano di “ridimensionamento del Papato” o di “sentiero sinodale”; né ho mai trovato tanti difensori dell’autorità del Tridentino quando è negata l’essenza stessa del Sacerdozio cattolico.

De Souza pensa che, con la mia lettera a padre Weinandy, io abbia cercato in lui un alleato: anche se così fosse, non penso vi sarebbe nulla di male, a patto che questa alleanza abbia come scopo la difesa della Verità nel vincolo della Carità. Ma in realtà il mio intento è stato quello che ho dichiarato sin dal principio, ossia di rendere possibile un confronto dal quale si giunga ad una maggiore comprensione della crisi presente e delle sue cause, in modo che l’Autorità della Chiesa possa a suo tempo pronunciarsi. Non mi sono mai permesso di imporre una soluzione definitiva, né di risolvere questioni che esulano dal mio ruolo di Arcivescovo e che sono invece di diretta competenza della Sede Apostolica. Non è quindi vero ciò che afferma padre De Souza, e tantomeno ciò che incomprensibilmente mi attribuisce padre Weinandy, ossia che io mi trovi nel «peccato imperdonabile contro lo Spirito Santo». Potrei forse credere alla loro buonafede se entrambi applicassero la stessa severità di giudizio ai comuni avversari e a se stessi, cosa che purtroppo non mi pare avvenga.
Chiede padre De Souza: «Scisma. Eresia. Opera del diavolo. Peccato imperdonabile. Come mai queste parole vengono ora applicate all’arcivescovo Viganò da voci rispettate e attente?» Penso che la risposta sia ormai ovvia: si è rotto un tabù, ed è iniziata su vasta scala una discussione sul Vaticano II che era rimasta sinora confinata ad ambiti molto ristretti del corpo ecclesiale. E quello che disturba di più i fautori del Concilio è la constatazione che questa disputa non verte sul se il Concilio sia criticabile, ma su cosa fare per rimediare agli errori e ai passi equivoci che in esso si riscontrano. E questo è un dato di fatto acquisito, su cui ormai nessuna opera di delegittimazione può esser intrapresa: lo scrive anche Magister su Settimo Cielo, riferendosi alla «disputa che sta infiammando la Chiesa, su come giudicare il Vaticano II» e alle «controversie che periodicamente si riaprono sui media variamente “cattolici” intorno al significato del Vaticano II e sul nesso che esisterebbe fra quel Concilio e l’attuale situazione della Chiesa». Far credere che il Concilio sia esente da critiche è una falsificazione della realtà, a prescindere dalle intenzioni di chi ne critica l’equivocità o l’eterodossia.
Padre DeSouza sostiene inoltre che il prof. John Paul Meenan, su LifeSiteNews (qui) avrebbe dimostrato «le debolezze dell’argomentazione dell’arcivescovo Viganò e dei suoi errori teologici». Lascio al prof. Meenan l’onere di confutare i miei interventi sulla base di ciò che affermo, e non di quanto non dico ma che volutamente si vuole travisare. Anche qui, quanta indulgenza sugli Atti del Concilio, e quanta implacabile severità su chi ne evidenzia le lacune, al punto da insinuare il sospetto di donatismo.
Quanto alla famosa ermeneutica della continuità, mi pare sia evidente che essa è e rimane un tentativo – forse ispirato da una visione un po’ kantiana delle vicende della Chiesa – per conciliare un preconcilio e un postconcilio come mai era stato necessario fare in precedenza. L’ermeneutica della continuità ovviamente è valida e da seguire all’interno del discorso cattolico: in linguaggio teologico si chiama analogia fidei ed è uno dei capisaldi cui deve attenersi lo studioso di scienze sacreMa applicare questo criterio ad un hapax che proprio sulla sua equivocità è riuscito a dire o a sottintendere ciò che invece avrebbe dovuto apertamente condannare, non ha senso, perché presuppone come postulato che vi sia una reale coerenza tra il Magistero della Chiesa e il “magistero” ad esso contrario che oggi è insegnato dalle Accademie e dalle Università pontificie, dalle cattedre vescovili e dei seminari e predicato dai pulpiti. Ma mentre è ontologicamente necessario che tutta la Verità sia coerente con se stessa, non è allo stesso tempo possibile venir meno al principio di non contraddizione, secondo il quale due proposizioni che si escludono a vicenda non possono essere entrambe vere. Così non vi può essere alcuna “ermeneutica della continuità” nel sostenere la necessità della Chiesa Cattolica per la salvezza eterna e allo stesso tempo quanto afferma la dichiarazione di Abu Dhabi, che si pone in continuità con l’insegnamento conciliare. Non è quindi vero che rifiuto l’ermeneutica in sé, ma solo quando essa non può essere applicata ad un contesto palesemente eterogeneo. Ma se questa mia osservazione dovesse rivelarsi infondata, e se ne vorranno dimostrare le lacune, sarò ben lieto di ripudiarle io stesso.
A chiusura del suo articolo, padre De Souza chiede provocatoriamente: «Sacerdote, curialista, diplomatico, nunzio, amministratore, riformatore, informatore. Possibile che, alla fine, a quella lista si debba aggiungere anche eretico e scismatico?» Non intendo rispondere alle espressioni insultanti e gravemente offensive di padre Raymond KM, non certo consone ad un Cavaliere… Mi limito a chiedergli: a quanti Cardinali e Vescovi progressisti risulterebbe superfluo porre la medesima domanda, sapendo già che la risposta è tristemente positiva? Forse, prima di supporre scismi ed eresie dove non ce ne sono, sarebbe opportuno e più utile combattere l’errore e la divisione dove si annidano e dilagano da decenni.
Sancte Pie X, ora pro nobis!
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo
3 settembre 2020
San Pio X, Papa e Confessore

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