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mercoledì 23 settembre 2020

“Non basta dire semplicemente che sei cattolico”!?

Cattolici e Trump: da democratici a repubblicani

Sei elettori cristiani su dieci oggi voterebbero per Trump. I sondaggi del Pew Research Center fanno poi emergere che l'attuale presidente è riuscito a spostare l'elettorato cattolico dal partito dei dem al Gop. Nonostante le proteste e il Covid i numeri rimangono simili al 2016, non solo "perché difende le nostre idee" ma perché "ha coraggio, fa quello che promette".





Il Washington Times lo definisce come “uno spostamento drammatico”, fatto sta che si tratta di un fenomeno che dice di Trump molto più di mille analisi sul fatto se sia la risposta al bisogno di quanti cercano una rappresentanza politica tradita per anni.

Il quotidiano americano riporta l’andamento del voto cattolico a partire dai dati del Pew research center e dalle analisi di CatholicVote (che monitora appunto il voto cattolico negli Stati Uniti). L’immagine che ne esce è quella di un elettorato religioso che emigra sempre di più dal partito democratico a quello repubblicano (tanto che oggi l’insieme dei cristiani a favore del presidente in carica è il 55 per cento contro il 43).

Specificamente il sondaggio del Pew Research Center rilevava che il 51 per cento degli elettori cattolici ha intenzione di votare per Trump, mentre il 49 sostiene Biden. Il dato è significativo se si pensa che nelle elezioni precedenti alla candidatura di Trump i cattolici democratici erano sempre stati la maggioranza (solo nel 2004 nelle elezioni successive all’11 settembre 2001 i cattolici che votarono repubblicano superarono i democratici).

Il presidente di CatholicVote, Brian Burce, ha chiarito che "tra i cattolici che praticano la fede in modo sostanziale, certamente c’è stato un cambiamento drastico negli ultimi decenni, lontano dal Partito Democratico e verso Partito Repubblicano”, un cambiamento però “particolarmente pronunciato sotto il presidente Trump". Infatti, già nel 2016, emerse che Trump è il presidente repubblicano che più era riuscito ad attirare il voto sia cattolico (appunto il 52 per cento contro il 45 dei cattolici lo votò) sia religioso verso il partito repubblicano (fu votato dal 48 per cento di tutti cristiani contro il 39 per cento che appoggiò la Clinton). E’ interessante comunque che i cattolici continueranno supportare in maggioranza il presidente protestante: “Non basta dire semplicemente che sei cattolico” per ottenere il voto dei cattolici, ha continuato Bruce. Perciò si può arrivare al paradosso per cui la maggioranza dei cattolici praticanti sosterranno ancora il presidente presbiterano e non un cattolico democratico.

La conferma del voto cattolico per Trump, secondo Bruce, non si spiega solo con le posizioni del presidente repubblicano in materia di aborto e libertà religiosa, ma anche con il fatto che tutto quanto ha promesso di fare lo ha fatto, a differenza di altri che pur sostenendo le stesse posizioni non sono andati fino in fondo: “L’idea dell'importanza delle radici, del paese, del patriottismo, della famiglia...", ma anche “la sua forza e il suo coraggio”, sono un fattore determinate, perché "molte amministrazioni repubblicane in passato hanno sposato a parole la causa...ma quando le cose si sono fatte difficili hanno abbandonato la nave." Ad esempio, oltre alla lotta sui fondi all'aborto e contro il politicamente corretto, è stato decisivo il fatto che quando gli Stati a guida dem hanno deciso di chiudere le chiese durante il Covid (ma non i centri commerciali) e diversi leader religiosi hanno scritto in protesta a Trump, la sua amministrazione ha combattuto contro il divieto.

Ma già a marzo emergeva che oltre i due terzi dei cattolici affermavano che il presidente “combatte per ciò in cui credo”. E, "più si va a Messa e ci si autodescrive come seguaci degli insegnamenti della Chiesa, più è probabile che si voterà per Trump", ha aggiunto Matthew Bunson, capo redattore della EWTN al Washington Times: "Se vai a Messa meno spesso e non sei d'accordo con gli insegnamenti fondamentali (della Chiesa, ndr) è più probabile che tu sostenga Biden". Il quale va appunto a messa regolarmente ma sostiene politiche in netto contrasto con gli insegnamenti della Chiesa sulla legge naturale.

Lo stesso sondaggio del Pew reasearch center rileva che se le elezioni presidenziali del 2020 si tenessero oggi, l'82 per cento degli elettori evangelici bianchi voterebbe per Trump mentre solo il 17 afferma che sosterrebbe Biden. Anche qui, il favore verso Trump è in crescita: il sondaggio del Pew Research Center condotto subito dopo le elezioni presidenziali del 2016 rilevava che il 77 per cento degli elettori evangelici bianchi aveva votato repubblicano, mentre il 16 scelse la Clinton. Infine, più della metà (56%) dei protestanti bianchi che non si identificano come evangelici afferma di approvare il lavoro svolto da Trump, così come il 54% dei cattolici bianchi. Emerge così che "circa sei elettori su dieci di questi gruppi (cristiani, ndr) affermano che voterebbero per lui se le elezioni si tenessero oggi".

E interessante anche che, nonostante le proteste dei Black Lives Matter, il voto dei protestanti neri non sia cambiato di molto: “D'altra parte, un'ampia maggioranza di protestanti neri (83 per cento) affermano di disapprovare Trump" con livelli minori rispetto a gennaio, quando prima delle proteste "il 10 per cento approvava Trump e l'87 per cento lo disapprovava".

Giustamente il Washington Times ha fatto notare che “Sono finiti i giorni in cui quasi l'80 per cento degli elettori cattolici si univa in supporto del democratico irlandese-cattolico John F. Kennedy alla Casa Bianca nel 1960. Gli elettori cattolici oggi sono divisi sui candidati 2020, anche se il signor Biden è un cattolico che frequenta la Messa da tutta la vita e il signor Trump è un presbiteriano”

Benedetta Frigerio

https://lanuovabq.it/it/cattolici-e-trump-da-democratici-a-repubblicani

La Cia vuole un nuovo Russiagate contro Trump


Ritorna l’immancabile isterismo anti-russo a poche settimane dalle elezioni presidenziali Usa. Non è bastata l’inchiesta sul Russiagate, conclusasi con un nulla di fatto: ora, secondo un documento top secret della Cia, pubblicato dal solito Washington Post, il presidente russo Vladimir Putin in persona ed alcuni dei suoi più stretti collaboratori starebbero “probabilmente dirigendo” un’operazione esterna volta ad influenzare l’esito delle elezioni americane operando contro il candidato democratico. A parlare con l’illustre quotidiano vicino ai dem le solite “fonti anonime”. Come riporta l’Adnkronos, secondo le fonti anonime, il 31 agosto scorso la Cia ha fatto circolare una valutazione riguardante gli sforzi messi in atto dalla Russia per interferire nelle elezioni di novembre. Tale documento era contenuto in un rapporto interno, coperto dal massimo riserbo, chiamato Cia Worldwide Intelligence Review.
La valutazione è stata fatta su input della National Security Agency e del Fbi e sulla base di decine e decine di informazioni ricavate da fonti di intelligence. Essa contiene dettagli dell’analisi condotta sulle attività del parlamentare ucraino Andriy Derkach per disseminare informazioni denigratorie su Biden all’interno degli Stati Uniti attraverso le lobby, il Congresso i media e personaggi vicini al presidente. “Riteniamo che il presidente Vladimir Putin e i più alti funzionari russi siano a conoscenza e stiano probabilmente guidando le operazioni russe volte a denigrare l’ex vicepresidente ed alimentare discordie in vista delle elezioni di novembre”, recita il documento in apertura. La valutazione non cita per nome Giuliani, che ha lavorato con Derkach per mesi, limitandosi a fare riferimento alle interazioni tra Derkach e una “figura di primo piano” legata alla campagna di Trump.

Le ingerenze russe? Una fake news

Innanzitutto è curioso che queste notizie provengano sempre da “fonti anonime” che non è possibile verificare. In secondo luogo, è davvero poco credibile che il presidente russo Vladimir Putin si metta in prima persona a dirigere un’operazione di questo tipo quando le presunte ingerenze del Cremlino nelle elezioni presidenziali del 2016 non sono mai stati dimostrate con prove tangibili. Uno studio pubblicato lo scorso dicembre ridimensiona fortemente la teoria dell’ingerenza russa via social nelle elezioni americane del 2016 e in generale nella politica Usa, facendo chiarezza sul ruolo e sulla reale influenza dell’Internet Research Agency. Lo studio, redatto da ricercatori americani e danesi, osserva che “non ci sono prove che l’interazione con gli account dell’Internet Research Agency abbia sostanzialmente influenzato gli atteggiamenti e i comportamenti politici” nel mese preso in esame. I troll russi, infatti, “potrebbero non essere riusciti a seminare discordia” poiché “interagivano principalmente con quelli che erano già altamente polarizzati”.
A differenza della narrazione mainstream sul tema, i ricercatori Christopher A. BailacBrian Guaya, Emily Maloneya,b,2, Aidan Combsa, Sunshine Hillygusa, Friedolin Merhouta,e, Deen Freelon e Alexander Volfovskya, sottolineano che “il pubblico americano non è facilmente manipolabile dalla propaganda”. In buona sostanza, i ricercatori non dicono che le campagne di disinformazione non esistano: tuttavia, la loro reale influenza sulle persone è minore rispetto a quanto si creda. In base alle ricerche effettuate, gli studiosi spiegano di non essere “stati in grado di determinare sistematicamente se i troll dell’Ira” abbiano “influenzato gli atteggiamenti o il comportamento del pubblico durante le elezioni presidenziali del 2016”, che è “ampiamente considerato come un momento critico per campagne di disinformazione”. Tuttavia, come spiegano nello studio, “i messaggi” di propaganda politica “tendono ad avere effetti minimi” perché “gli individui che hanno maggiori probabilità di essere esposti a messaggi persuasivi” da questo punto di vista “sono anche quelli che sono più trincerati nelle loro opinioni”. In buona sostanza, i sedicenti troll russi non riescono a cambiare le opinioni politiche perché hanno a che fare con persone già fortemente “polarizzate”. Ricordiamo inoltre che il procuratore Generale William Barr ha confermato che le indagini condotte dal procuratore speciale per le indagini sul Russiagate Robert Mueller, non hanno rilevato alcuna collusione fra il Presidente Donald Trump e la Russia nelle elezione presidenziali del 2016.

Il rapporto di Mueller

Peraltro, come sottolinea Aaron Maté su The Nation, nel rapporto redatto dall’ex procuratore speciale Mueller, il governo russo avrebbe “interferito nelle elezioni presidenziali del 2016 in modo radicale e sistematico”. Alcuni paragrafi dopo, Mueller spiega che l’interferenza russa si è verificata “principalmente attraverso due operazioni”. La prima di queste le operazioni consisteva in “una campagna sui social media che favoriva il candidato alla presidenza Donald J. Trump e denigrava il candidato alla presidenza Hillary Clinton”, condotto da una fabbrica di troll russi conosciuta come Internet Research Agency (Ira).
Eppure la squadra di Mueller è stata costretta ad ammettere in tribunale che questa era una falsa insinuazione. Un giudice federale ha rimproverato l’ex procuratore e il Dipartimento di Giustizia per aver “suggerito erroneamente un collegamento” tra l’Ira e il Cremlino. Il giudice distrettuale americano Dabney Friedrich ha osservato che l’accusa di Mueller del febbraio 2018  “non collega l’Ira al governo russo” e sostiene che si tratta di un’iniziativa privata “condotta da privati”. Non solo, dunque, non c’è stata alcuna “collusione” fra Donald Trump e la Russia: ma un giudice americano smentisce anche vi sia un collegamento fra la citatissima Internet Research Agency (Ira) e il governo di Vladimir Putin. Non è che il documento “top secret” pubblicato dal Washington Post tenti di ristabilire, come nel 2016, l’isterismo anti-russo per tentare favorire i democratici? Insomma il sospetto che il tutto sia stato confezionato ad arte rimane. Proprio come il Russiagate…
Roberto Vivaldelli
23 SETTEMBRE 2020

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