ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 5 settembre 2020

“Novelli leviti”

L’abito fa il monaco. Eccome!


Un prete novello veste da… prete e un canonico si straccia le vesti. Cronache dalla Chiesa in uscita. Ce le racconta Giovanni Lugaresi.

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Le cronache hanno riferito di un incredibile episodio avvenuto in terra orobica.
Telegraficamente: sabato 29 agosto nella cattedrale di Bergamo il vescovo ha ordinato tre nuovi sacerdoti (ahi! Come sono lontani i tempi in cui in quella diocesi di sacerdoti novelli se ne contavano annualmente a decine…). Uno di questi, don Michael Zenoni, il giorno successivo ha celebrato Messa nella sua contrada di Novazzo, che da 181 anni non vedeva ordinato al sacerdozio nemmeno un giovane. Se non che il “novello levita” ha avuto l’idea di farsi fotografare con indosso la veste talare e la fascia.
E qui, ecco l’incredibile di cui si diceva. L’immagine postata su Facebook è arrivata all’attenzione di monsignor Alberto Carrara, canonico della cattedrale bergamasca, già delegato vescovile per la Pastorale della cultura e delle comunicazioni sociali, e fino a tre anni fa direttore del settimanale on-line della curia. Il quale, indignatissimo, si è stracciato le vesti (è il caso di dire) al punto da pubblicare sulla propria pagina Facebook una lunga reprimenda contro l’uso (ancora obbligatorio, si tenga a mente) della veste talare (l’intero testo si può leggere qui).
Mi son chiesto: sto sognando o quel che ho letto è tutto vero?
Sì, tutto vero; non sognavo.
Ma come? Per chi trasgredisce le norme canoniche vestendosi da fighetto o da metalmeccanico (con tutto il rispetto della categoria), nessuno alza la voce; viceversa, se uno indossa la “divisa d’ordinanza” non sia mai!
E al vecchio cattolico che io sono è venuto un ricordo, un caro ricordo, fra i tanti della vita.
Correva l’anno 1992 e insieme ad Alberto Guareschi venni invitato da don Piero Piazza a Bozzolo, alla Fondazione don Primo Mazzolari, per parlare dell’autore di Don Camillo: al mattino agli studenti, nel tardo pomeriggio agli adulti.
Don Piero vestiva la talare e durante il pranzo, presenti alcuni suoi confratelli in clergyman, peraltro seduti a tavola distanti da noi, sorridendo dissi: “Ma, don Piero, e lei, niente clergyman?”.
La replica fu: “Questa veste talare me l’ha abbottonata don Primo sull’altare e io non l’ho mai smessa!”.
Confesso che quella risposta mi commosse, considerando la concezione che don Mazzolari aveva del sacerdozio, che era anche quella del suo degno successore.
Ma ho anche un altro ricordo, questo risalente ai primi anni Duemila. Mi trovavo a Belluno (nella redazione del Gazzettino di quella città avevo lavorato per quattro anni: 1966-1970) ed entrai nella centralissima chiesa di San Rocco, dove c’erano lavori in corso.
Dopo aver sostato in preghiera, e aver osservato gli operai impegnati in alcuni lavori al soffitto, all’uscita mi imbattei in un sacerdote di mezza età che indossava la veste talare.
Sorridendo, dissi: “Permette reverendo? Guarda un po’, un prete che in chiesa è vestito… da prete!” (sì, perché sappiamo bene e vediamo che tantissimi vestono come pare loro anche in quella che è prima di tutto la casa di Dio). E lui: “Ma io vesto da prete anche fuori di chiesa!”.
So bene che, come i grilli parlanti odierni obiettano, l’abito non fa il monaco. Ma può aiutare a farlo, no?
E in proposito ecco un ulteriore emblematico episodio.
Un giorno di fine anni Novanta del secolo scorso, mi trovavo alla stazione ferroviaria di Bologna e mi capitò di sedere in sala d’aspetto accanto a un frate cappuccino, che indossava il saio. Anche a lui rivolsi la solita osservazione: “Che bello vedere un frate, vestito da… frate!”.
La risposta, immediata e gentile, fu: “Lei non sa quanta gente, vedendomi con questo saio, mi si avvicini e mi chieda se può rivolgermi domande, esprimere dubbi, proprio perché vede, dalla ‘divisa’ che porto, che cosa rappresento”.
Anni più tardi, trovandomi a cena da una famiglia amica, ebbi occasione di sedere accanto a un frate minore conventuale che indossava jeans e un maglione firmato. Non mi trattenni: “Ma come, non solo lei è in borghese, ma indossa un capo firmato. E il voto di povertà?”. Si giustificò dicendo che era un dono di una vecchia signora. Mi permisi di fare io, in quella occasione, il grillo parlante (sono romagnolo e non ho peli sulla lingua!): “Non ho avuto la vocazione al sacerdozio o alla vita religiosa, ma se mi fossi fatto prete o frate avrei indossato quotidianamente, e con orgoglio, la veste talare o il saio, e avrei cercato di onorarli!”. E oggi la penso ancora così.
Giovanni Lugaresi
Foto tomeqs | Shutterstock tratta da Aleteia
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Beniamino Socche. Vescovo nel triangolo della morte

Bisogna esserci nati per capire qualcosa della terra emiliano-romagnola. E forse non basta. Mangiapreti, santi, camerati e compagni, montanari e bagnini, cantanti e professori, in una terra di passaggio che ne ha viste di tutti i colori. “Sazia e disperata” disse il card. Biffi un po’ di tempo fa, pervasa, come tutto il mondo occidentale, dall’ideologia dell’uomo che pretende di farsi dio a se stesso, senza più alcun riferimento al Padreterno. Eppure, per questo gregge bisognoso, i veri Pastori non sono mancati. Colpisce in particolare la vicenda umana e religiosa di mons. Beniamino Socche (1890-1965), prima vescovo di Cesena dal 1939 al 1946, poi di Reggio Emilia dal 1946 fino alla morte.
Quando fu nominato pastore della diocesi reggiana infuriava un clima da far-west in quel lembo di terra, fra le provincie di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara, passato poi alla storia come “triangolo della morte”. Il 18 giugno 1946, appena un mese dopo l’insediamento di Mons. Socche, a San Martino di Correggio si consumò il delitto di don Umberto Pessina, ennesimo sacerdote che in quegl’anni fu fatto fuori da partigiani comunisti. Solo oggi, piano, piano, la tragica storia del dopoguerra emiliano-romagnolo comincia a mostrare il suo vero volto, purtroppo grondante sangue. Di martiri. Tra questi si può includere anche il martirio “bianco” di mons. Socche che, incurante del rischio, si batté con implacabile fermezza nella denuncia di un clima ammorbato dall’ideologia comunista.
Bisogna esser nati in quel “triangolo” di terra per capire fino in fondo cosa possa aver significato questa posizione di mons. Socche. Dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria decise di non partecipare neanche alle manifestazioni ufficiali promosse dalla autorità locali, perché non voleva dare occasione alcuna per giustificare quell’ideologia atea. Il Partito Comunista aveva messo in atto una violenta campagna di stampa e diffamazione contro di lui, campagna che era arrivata perfino ad accusare lo stesso vescovo di aver fatto ammazzare don Pessina per aver modo di incolparne il comunismo.
La sua forza spirituale e morale trae origine da un’intensa devozione alla Madonna: membro della Pontificia Accademia dell’Immacolata, era conosciuto per i suoi libri di mariologia, amava la Madre di Dio al punto che si batté per la definizione del dogma della mediazione universale di Maria. Per questo preparò anche un breve intervento al Concilio Vaticano II, purtroppo non gli fu data l’occasione di leggerlo, in un clima assembleare che sappiamo essere stato piuttosto contrario a questa istanza.

Il suo magistero oggi deve essere rivalutato anche per alcuni accenti di straordinaria attualità. Parlando della crisi della famiglia diceva: «Bisogna tornare indietro e fare quello che hanno sempre fatto per tanti secoli i nostri vecchi, dare ai figli l’affetto per la casa, per la famiglia, per la Chiesa, spronarli con l’esempio a tenersi bene attaccati al Signore. Ora tutto questo fate, solamente se voi vi unite a pregare, se diventate cioè sostenitori del Santo Rosario in famiglia». Di questi Pastori il gregge sente oggi più che mai bisogno.

Questo testo di Lorenzo Bertocchi è tratto dalla rivista Radici Cristiane. Visita il sito radicicristiane.it

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