Ha suscitato un certo stupore la decisione presa dal Vescovo di Roma di non effettuare più viaggi finché non sarà stato trovato un vaccino contro il Covid. In effetti si tratta di dichiarazioni in linea con l’approccio che le gerarchie cattoliche hanno avuto sin dall’inizio nei confronti dell’epidemia: prima di tutto viene la salute. Prima della Fede, della Speranza, della Carità. Le conferenze episcopali hanno dato l’ordine della ritirata: chiese chiuse, parrocchie chiuse, niente Messe, Battesimi, Confessioni, funerali, via i cappellani dagli ospedali. Ora anche il Capo stesso della Chiesa decide di non uscire più da Santa Marta, e non fintanto che l’epidemia sarà vinta con l’aiuto di Dio, ma fintantoché le aziende farmaceutiche non avranno sfornato un vaccino, un prodotto che assume- anche nella prospettiva vaticana, delle dimensioni quasi messianiche.
Dicevamo che la decisione del papa è in linea con le prese di posizione provenienti dagli organismi vaticani. L’interpretazione più esemplare di come la Chiesa legge e interpreta gli accadimenti dell’epidemia da Covid è venuta nel mese di luglio dalla Pontificia Accademia per la Vita, l’organismo vaticano retto da monsignor Paglia. L’Humana Communitas nell’era della Pandemia: riflessioni inattuali sulla rinascita della vita è l’immaginifico titolo del documento vaticano. Quali sono le tesi che gli autori ritengono “inattuali”? In primo luogo ci viene detto che il Covid-19 ha precipitato il mondo intero in uno stato di desolazione. “Lo stiamo vivendo già da tanto tempo; è un’esperienza che non si è conclusa e potrà durare ancora a lungo”. Ma quale interpretazione possiamo darne? “Certo, siamo chiamati ad affrontarlo con coraggio. La ricerca di un vaccino e di una spiegazione scientifica accurata su cosa ha scatenato questa catastrofe ne sono la prova. Ma siamo anche chiamati a una consapevolezza più profonda? Se così fosse, in che modo questa presa di distanza ci impedirà di cadere preda dell’inerzia della noncuranza, o peggio, della complicità con la rassegnazione? È possibile fare ‘un passo indietro’ ponderato, che non significhi inazione, un pensiero che possa trasformarsi in un ringraziamento per la vita data, come se fosse un passaggio verso una rinascita della vita?”.
Per gli autori della Pontificia Accademia Covid-19 è il nome di una crisi globale che mostra diverse sfaccettature e manifestazioni, ma è senza dubbio una realtà comune. “Siamo arrivati a renderci conto, come mai prima, che questa strana situazione, già prevista da tempo immemore, ma mai seriamente affrontata, ci ha uniti di più. Come tanti processi nel nostro mondo contemporaneo, il Covid-19 è la manifestazione più recente della globalizzazione. Da una prospettiva puramente empirica, la globalizzazione ha portato tanti benefici all’umanità: ha disseminato conoscenze scientifiche, tecnologie mediche e prassi sanitarie, tutte potenzialmente disponibili a beneficio di tutti”. Una affermazione piuttosto discutibile, comunque andiamo avanti. Per il Vaticano con il Covid-19 ci siamo trovati collegati in modo diverso, condividendo un’esperienza comune di contingenza, non risparmiando nessuno: “la pandemia ci ha resi tutti parimenti vulnerabili, tutti ugualmente esposti”.
È ciò che aveva affermato papa Francesco nel suo discorso a marzo a una Piazza san Pietro deserta: siamo tutti sulla stessa barca. Siamo un’unica umanità debole e sofferente. Il che per certi versi vero, anche se l’epidemia non si è presentata ovunque con le stesse conseguenze. La lettura è comunque quella di un mondo malato e in sofferenza. E qui ci si aspetterebbe che il documento vaticano ci parlasse di quella Salvezza che può venire da Cristo, che è Redentore del mondo e della storia, ma nel documento la parola Gesù Cristo non compare mai. Si parla di una “consapevolezza raggiunta a un caro prezzo”. Di “lezioni apprese”. Quali? “Nella sofferenza e nella morte di così tante persone, abbiamo imparato la lezione della fragilità”. “Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza. “Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo”.
Un bel linguaggio poetico, nulla da eccepire. Ma in sostanza? Cosa ha da dire la Chiesa a questa umanità ferita, magari anche ai parenti e alle persone care di chi non c’è più, di chi è morto solo in reparti isolati di ospedale, senza conforto religioso? Il giudizio c’è, ed è questo: “Doveva accadere, prima o poi: l’incantesimo era durato fin troppo. L’epidemia di Covid-19 ha molto a che vedere con la depredazione della terra e la spoliazione del suo valore intrinseco. Si tratta di un sintomo del malessere della nostra terra e della nostra incapacità di occuparci di essa; inoltre, è un segno del nostro malessere spirituale (Laudato Si, n.119). Saremo in grado di risanare la frattura con il nostro mondo naturale, che troppo spesso ha trasformato le nostre soggettività assertive in minaccia al creato, agli altri?”. Siamo malati perché Madre Terra è malata.
In questo documento, significativamente non si parla mai di Gesù Cristo, e nemmeno di Dio. Si parla di altre divinità, tra cui – anche se non nominata esplicitamente – la Dea Salute, una sorta di idolo cui sacrificare tutto. Sembra di assistere a un Paganesimo idolatrico di ritorno: prima Gaia, poi Pachamama, e ora la Dea Salus.
Nella religione romana antica Salus era la divinità della salute, la personificazione dello stare bene, inteso come salute e prosperità, sia a livello individuale, sia come Res publica. Era equiparabile alla divinità greca di Igea, pur con funzioni differenti. Benché fosse considerata una divinità minore, come la Salus Publica Populi Romani, ebbe un suo proprio tempio, eretto sul colle del Quirinale. La Salus era spesso rappresentata seduta con le gambe incrociate (posizione comune anche alla dea Securitas) e il gomito appoggiato sul bracciolo di un trono. Spesso, la mano destra teneva una patera (piatto fondo usato nelle cerimonie religiose) per alimentare un serpente, che era avvolto intorno ad un altare. Il serpente si alzava e bagnava la testa fino alla patera. Ogni tanto la sua mano era aperta e vuota, facendo un gesto. A volte il serpente dirigeva il suo sguardo insieme alla dea Salus. A volte non c’era l’altare, e il serpente era, quindi, avvolto attorno al braccio del suo trono. Il simbolismo del serpente è estremamente significativo: esso rappresentava infatti la Madre Terra. Ancora una volta ecco riaffacciarsi questa antica divinità, che dopo duemila anni di Cristianesimo, di religione di Luce, di Cielo, vuole tornare a imporsi. L’immagine della Dea Salus che alimenta il serpente è estremamente significativa. L’adorazione della Salute in fondo non fa che veicolarci ancora una volta a Madre Terra, la nuova vera divinità suprema.
Nel nuovo Pantheon aspettiamo anche un Liberatore che salverà l’umanità dalla sofferenza e dalla schiavitù, e consentirà di entrare nella vita nuova. Questo liberatore si chiama Vaccino. Fin dalle prime battute dell’epidemia se ne è parlato. Poco importa che non sia mai stato realizzato un vaccino contro un coronavirus; poco importa che non siano mai stati realizzati vaccini per molte importanti malattie infettive, dall’Hiv all’Epatite C. Per il Covid il vaccino verrà, e metterà fine alla lunga tribolazione. Potremo togliere le mascherine, potremo tornare allo stadio, al cinema, ad una vita accettabile, anche se nulla sarà come prima. Come abbiamo capito, Madre Terra è una divinità severa con leggi implacabili. Non sarà più permesso trasgredire. Nel nuovo mondo e nella nuova religione la sanzione avrà un ruolo di grande rilievo, e ci sarà un regime di polizia che veglierà sul rispetto delle norme. Le libertà del XX secolo diverranno uno sbiadito ricordo. Tra le imposizioni ci sarà anche la vaccinazione obbligatoria. Il vaccino è il Salvatore: come puoi permetterti di rifiutarlo? Non è solo per un benessere personale: è un obbligo verso la comunità.
Paolo Gulisano Settembre 5, 2020
Il coronavirus, la morte, la felicità. E l’invidia
Tra le molte analisi su quanto sta succedendo a causa del coronavirus ne ho trovata una che mi è sembrata singolare e stimolante. È di Paolo Azzone, psichiatra, psicoterapeuta e psicoanalista.
L’analisi si occupa del nostro rapporto con la malattia e la morte e termina con una interpretazione sul perché in questa crisi ci sia stata una sorta di persecuzione nei confronti di alcune categorie di persone.
Partiamo con il primo aspetto. “Per millenni – argomenta lo specialista – l’umanità è stata del tutto impotente di fronte alle malattie infettive. Peste, colera, febbre gialla, malaria e tubercolosi hanno mietuto nei secoli milioni di vittime. Dopo la Seconda guerra mondiale la salute pubblica ha conosciuto un’epoca d’oro senza precedenti. Con lo sviluppo degli antibiotici, la letalità della maggior parte delle malattie batteriche è stata drasticamente ridimensionata. I vaccini hanno neutralizzato quasi completamente le minacce delle malattie virali. I farmaci antivirali hanno dimostrato di poter tenere sotto controllo lo spettro dell’Aids. Per un attimo l’umanità ha intravisto la possibilità di poter completamente risolvere il problema delle malattie infettive come significativa causa di mortalità nelle popolazioni umane immunocompetenti. Il miglioramento della salute e dell’aspettativa di vita non è sembrato però sanare le angosce ipocondriache. Anzi, negli ultimi anni il terrore della malattia e della morte ha raggiunto una rilevanza sociale sconosciuta ai nostri progenitori. Il trattamento di malattie banali (come le malattie esantematiche dell’infanzia) o molto rare è divenuto oggetto di dibattiti feroci. Quattro casi di meningite solo pochi mesi fa hanno scatenato una vera isteria collettiva, con code agli uffici di vaccinazione”.
L’esperienza comune a tutti noi può confermare quanto illustra lo psichiatra. Forme di ansia e angoscia causate da un’apprensione costante ed esagerata per la propria salute e quella dei nostri cari sono sempre più diffuse ed evidenti. La tendenza ossessiva a sopravvalutare i minimi disturbi può rendere la vita molto difficile per il soggetto che ne è colpito e per le persone che gli stanno attorno.
Al fondo c’è un equivoco circa la morte. Scrive ancora lo specialista: “La nostra comunità ha inseguito con esasperata determinazione il sogno di una longevità garantita. Si è affermata la convinzione che la morte sia un evento che riguarda solo la terza età. Oggi i media presentano abitualmente ogni decesso come espressione di un’imprudenza, una colpa, un disservizio da attribuire ora ai medici, ora agli amministratori, ora ad alcuni gruppi sociali arretrati e oscurantisti. La nostra epoca ha creduto di mettere la morte alla porta. Ma è tornata. Da Wuhan la globalizzazione ci riporta indietro di un secolo. L’umanità sperimenta ancora una volta la propria impotenza di fronte a un agente patogeno”.
Dal senso di impotenza alla collera il passo è breve e quasi obbligato, come si vede sui social. E dalla collera si passa altrettanto facilmente alla ricerca del colpevole.
Si tratta, scrive lo psichiatra, di “meccanismi proiettivi molto noti a chi si occupa di gruppi, comunità e istituzioni. Leggendo I promessi sposi di Alessandro Manzoni abbiamo imparato che la caccia all’untore è una pratica gradita alle masse terrorizzate e ampiamente promossa dai governi autoritari. La gogna mediatica punta il dito in direzioni precise. Dimostra un peculiare intuito nel selezionare i nemici del popolo”.
Ebbene, nella crisi del coronavirus quali sono state le categorie dipinte come “nemiche” e da colpire con più decisione?
Lo psichiatra osserva che i social media, la stampa e la politica hanno mostrato allergia, se non vero e proprio odio, soprattutto verso i runner (che in solitudine e senza far male a nessuno desideravano mantenere la loro abitudine di correre serenamente all’aperto), verso i bambini (costretti a stare rinchiusi in casa per settimane con evidente sofferenza), verso le coppie (costrette a incontrarsi clandestinamente, magari nei pressi di un supermercato) e verso i fedeli cattolici.
Come si può notare, si tratta di categorie estremamente diverse tra loro, eppure qualcosa le accomuna: la ricerca della felicità. Il runner, il bambino, la coppia che si ama e il fedele cattolico, osserva lo psichiatra, rimandano tutti, sia pure in modi molto differenti, a un’esperienza di godimento, di pienezza, di soddisfazione. Sono persone che ci parlano di felicità. E per questo sono state colpite. Ma perché?
Risponde lo psichiatra: per invidia.
“Melanie Klein (Vienna, 1882 – Londra, 1960. Psicoanalista nota per i suoi lavori pionieristici nel campo della psicoanalisi infantile, ndr) e i suoi allievi ci hanno insegnato che l’invidia rappresenta una straordinaria forza motivazionale a livello individuale e sociale. Sigmund Freud ha scoperto che nulla genera una gelosia più intensa di un uomo e di una donna uniti dall’amore e capaci di generare una discendenza”.
Le cose starebbero dunque così: siccome la percezione generale, magari non espressa ma intimamente radicata nelle persone e nella cultura, è che non si possa essere veramente felici e che il senso di appagamento e di pienezza siano soltanto illusioni, ecco che chi osa, nonostante tutto, essere felice, e mostrarlo, va colpito.
È il trionfo, appunto, dell’invidia, scaturita da un profondo senso di disperazione e alimentata da una sostanziale solitudine.
Non ho competenze in campo psichiatrico, ma trovo stimolante questa prospettiva di indagine. A dispetto di tutto il parlare che si fa sulla qualità della vita, allignano in noi una disperazione, una solitudine e, di conseguenza, un odio per noi stessi che non esitano ad accanirsi, per invidia, contro le autentiche espressioni di felicità e le loro fonti.
Amara è la conclusione dello psichiatra. Il virus forse un giorno se ne andrà e diventerà solo un triste ricordo. Ma il “collasso sociale”, figlio della disperazione e della solitudine, resterà con noi.
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