Satana, finalmente. (#Dante, Inferno, canto XXXIV)
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Se il finalmente del titolo alludesse ad una nostra attesa di vederlo da vicino, ad una qualche aspettativa, insomma ad un interesse per lui, la delusione sarebbe pesante. E sacrosanta.
Il canto, in apertura, sembra promettere molto: comincia con una specie di fanfara reale, con cui Virgilio, parodiando un inno della liturgia del venerdì santo, annuncia: Vexilla regis prodeunt inferni, ma a dispetto del suo latino altisonante non ci sarà alcun adventus solenne del re dell’inferno, perché scopriremo che Satana è dall’inizio del tempi confitto al centro della terra e non si potrà mai più spostare di lì. Subito dopo, infatti, quando lo intravediamo nella nebbia, la sua forma non ha più nulla di regale: sembra un mulino a vento (vv. 4-7). Siamo nell’ultima zona di Cocito, la Giudecca, dove i traditori dei benefattori sono completamente sepolti «e trasparien come festuca in vetro» (v. 12): qui niente nomi, niente storie, neppure una fisionomia riconoscibile, come pagliuzze intrappolate nel ghiaccio. Una volta che ci troviamo davanti a lui e Virgilio ce lo presenta («Ecco Dite […] ed ecco il loco / ove convien che di fortezza t’armi», vv. 20-21), benché Dante si sforzi, con tanto di appello al lettore, di farci sentire quanta paura ha avuto (vv. 22-27), noi di emozioni non ne proviamo proprio.
Più volte, nel corso del viaggio infernale, abbiamo avuto modo di riflettere su quanto sia difficile rappresentare il male in se stesso perché, nella sua essenza (che è pura negazione) esso non è propriamente dicibile: la parola (ogni parola, anche la più cattiva), nel suo stesso esserci come forma, senso e suono, richiama l’essere e quindi, nel momento in cui si sforza di significare la sua negazione, per quanto fredda e dura si pensi, inevitabilmente gli conferisce una consistenza, una dignità e una parvenza di vita che il puro male realmente non possiede. L’intera cantica, tuttavia, altro non è stata che un continuo corpo a corpo con la multiforme varietà di espressioni umane del male, e il poeta non si è mai tirato indietro di fronte ad ogni sfida; ora probabilmente ci aspettiamo il cimento supremo: chissà che cosa ci farà vedere Dante, nel momento in cui finalmente potremo guardare in faccia l’ispiratore di tutto quel male! Se questa è l’attesa, non potremmo, come ho già detto, essere più delusi e “spiazzati” di così: Satana, visto da vicino, ci «appare come una macchina disumana, senza parola né vita […] un’invenzione grandiosa. Che resta tuttavia fredda e inerte nel verso, senza forza fantastica, senza vita» (Chiavacci Leonardi). Sì, nel testo c’è tutto quello che ci deve essere: una descrizione convenientemente dettagliata e ricca di elementi simbolici (vv. 28-67) che permette ad ogni illustratore della Commedia di dipingere il ritratto di Satana, «la creatura ch’ebbe il bel sembiante» (v. 18), ma a ben vedere l’unico tratto che veramente spicca, nell’immagine di quel mostruoso gigante prigioniero, è proprio in questa malinconica definizione, nel momento in cui percepiamo che è la sola denominazione rispettosa, e in qualche modo gentile, che si possa applicare a Satana (e pertanto quella che egli forse odia e aborre di più!). Se c’è l’ombra di un sentimento, attorno a lui, essa deriva solamente dal senso di una mancanza; se qualcosa ci colpisce nella sua fisionomia è un’assenza. L’unico valore, l’unica sostanza, l’unico decoro di quell’essere è in un’impronta vuota; nella inesistenza della bellezza che gli era stata conferita e che per sua volontà ha perduto.
Il vero colpo di genio di Dante, dietro il quale c’è però la sapienza teologica del poeta cristiano, sta nel non aver dato a Satana la parola. Questo è il primo grande insegnamento di questo canto. L’afasia di Satana, che a questo punto capiamo come sia in un certo senso anticipata nel tragico silenzio di Ugolino, va spiegata negli stessi termini che abbiamo già impiegato per quello: «Non parla. Mai. Non dice una sola parola [ai figli]. Non ha una sola parola da dire. Non ha una parola. Non ha parola, cioè non ha logos. Non ha il Logos. Non è Padre». Questa scelta potrebbe stupirci e sconcertarci, perché in realtà nella Bibbia Satana parla, e non sempre a vuoto. Parla con Eva e con la sua parola la seduce; parla con Dio e lo convince a metter Giobbe sotto il torchio; parla con Gesù nel deserto e lo mette alla prova in modo non banale … Parla bene il diavolo; anzi si può dire che gran parte del male che commette lo fa parlando. Gli basta suggerire, ispirare, persuadere: a fare, il più delle volte ci pensiamo noi uomini.
Qui però direi che passa una linea di faglia che divide il cristianesimo integrale e roccioso di Dante e noi moderni. Anche quelli di noi che vogliono essere cristiani, e si sforzano in tutti i modi di esserlo, ma sono comunque moderni, non riescono a capire che a Satana il diritto di parola non si può riconoscere. Si pensi, per un confronto illuminante, a come lo tratta un altro poeta che voleva essere poeta cristiano (e per il quale d’altronde io ho un’insana predilezione) ma che era soprattutto, suo malgrado, moderno. Nel quarto canto della Gerusalemme liberata, Tasso a Satana gli fa fare un bel discorso, davanti al concilio di tutto il suo popolo. E quando il diavolo parla, si scopre che, come tutti, anche lui ha le sue ragioni (benché si continui a sostenere che però ha torto). E chi “ha le sue ragioni”, è già sulla via di avere ragione. Come infatti ormai gli è stata data, su tutta la linea, nella cultura contemporanea dominante. Ormai parla solo lui, anche se molti non se ne accorgono perché è ventriloquo e i pupazzi che adopera sono tanti.
Ripeto: che sapienza cristiana (e che genio poetico) c’è nella scelta dantesca di rinunciare ad un gran finale con Lucifero nelle vesti di un personaggio tragico e presentarlo per quello che veramente è: privo di logos, dunque privo di intelletto, di «luce intellettual piena d’amore». Le sue “parole”, per quanto efficaci e scaltre, non sono echi della Parola.
Il secondo insegnamento sta nella seconda parte del canto (vv. 69-132) e in particolare nei versi (121-132) che ci raccontano il «grande mito cosmico con cui Dante ha dato forma al suo universo […] l’inferno come voragine aperta sotto Gerusalemme, dove fu eretta la croce di Cristo, il purgatorio come montagna in mezzo all’oceano ai suoi antipodi, sulla cui sommità si trova il paradiso terrestre» (Chiavacci Leonardi). Avremo modo di tornare su questo tema altre volte, quindi mi limito ad enunciarlo in maniera più che sintetica: 1) la terra in cui viviamo non è esattamente quella che Dio ha creato, ma è ciò che è diventata in seguito al peccato e alla caduta di Lucifero. Ora «Lucifero cadendo ha rovesciato l’ordine dell’universo, provocando lo spostamento della terra emersa nell’emisfero boreale, l’emisfero dell’esilio e della colpa» (Chiavacci Leonardi). 2) Dunque noi siamo, in un certo senso, “dalla parte sbagliata” del mondo; ciò che ci sembra naturale e normale non lo è affatto, se si pensa alla norma della natura creata. Per rimetterci in piedi dalla parte giusta, bisognerebbe fare la curiosa capriola che Dante fa quando arriva al centro della terra. 3) L’inferno e il purgatorio, cioè l’aldilà, nella visione dantesca, sono aldiquà, cioè sono nella e sulla terra.
Son tutte cose sconvolgenti, su cui, come ho detto, si dovrà ritornare. Per ora andiamo a riveder le stelle.
Posted by leonardolugaresi
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