KUENG E IL DUBBIO SULLA MORTE
Ma siamo proprio sicuri che dopo la morte del corpo c’è una vita eterna? Sicuri, sicuri? Ed è proprio vero che Gesù Cristo è uscito dal sepolcro il terzo giorno, primizia della vittoria finale sul peccato e sulla morte? Da quando questi dubbi sono entrati, come la punta d’una freccia avvelenata, nella coscienza dei cristiani, il cristianesimo ha incominciato a morire, a scadere al livello di un fatto storico come tanti, che ha avuto il suo inizio, la sua espansione, la sua parabola ascendente e che presto o tardi finirà, come tutti gli altri fatti storici, perché nulla è perenne nella storia, tranne l’oscura certezza che la morte ha l’ultima parola, e quasi tutte le filosofie e le religioni altro non sono che dei tentativi, più o meno lucidi, più o meno disperati, per rompere il cerchio angoscioso di questa certezza e conquistare la speranza rasserenante della vita eterna.
Il modernismo, che nasce appunto come tentativo di storicizzare radicalmente il cristianesimo, si è confrontato direttamente con la questione della morte: andandole incontro con piglio risoluto, ha creduto di esorcizzarne la paura; ma la paura è rimasta, anzi, è entrata nella casa da cui era stata espulsa per un paio di millenni, e ha ripreso a lavorare come un tarlo, erodendo in brevissimo tempo le strutture che parevano più solide, e ora tutto l’edificio è talmente consunto che potrebbe crollare da un momento all’altro. La paura della morte propagata dall’emergenza sanitaria e dalle notizie terrorizzanti sugli effetti del Covid-19, che hanno paralizzato sin dall’inizio la vita ecclesiale, sono la riprova di quanto a fondo il modernismo fosse entrato nei tessuti del cattolicesimo, di quanto si fosse sostituito, un tassello dopo l’altro, una molecola dopo l’altra, alla vera e robusta fede che sussisteva da quasi duemila anni e che ancora alla vigilia del Concilio Vaticano II pareva poggiare solidamente sulle sue basi (anche se si trattava più di un’impressione esteriore che di una realtà effettiva). Chiudendo le chiese, sospendendo la santa Messa sostituendo l’acqua benedetta con il disinfettante per le mani; maneggiando il Corpo di Cristo come un pezzo di pane che invece di dare la Vita potrebbe trasmettere l’infezione; lasciando morire i malati in solitudine, senza la confessione e l’estrema unzione, senza un funerale decente, il clero ha firmato il certificato di morte della falsa chiesa massonica e modernista. Possiamo solo sperare che la vera chiesa di Gesù Cristo, attraverso questa prova durissima, trovi la forza di riemergere e di scacciare lontano quella falsa, la contro-chiesa di Satana, emancipandosi da decenni di sudditanza psicologica, culturale, intellettuale, spirituale e vincendo il complesso d’inferiorità che le era stato cucito addosso dai sedicenti cattolici “adulti” e “moderni”. Perché questo avvenga, tuttavia, è necessario fare i conti con la malattia esiziale di cui la paura del Covid è solo l’ultima e parossistica manifestazione: il dubbio lacerante sulla morte e sul nulla che forse ci attende, al posto della vita eterna in cui credevano i nostri semplici e un po’ ingenui genitori e nonni.
Il dubbio sulla morte è la ferita esiziale dei cristiani?
Uno dei documenti nei quali la perfidia modernista ha insinuato con più abilità e con maggiore faccia tosta il pungiglione del dubbio sulla morte è, a nostro avviso, il libro del teologo Hans Küng intitolato, significativamente, Vita eterna?, con il punto di domanda apparso all’inizio degli anni ’80 in quella Chiesa tedesca (anche se Küng, classe 1926, è svizzero, del Canton Lucerna) che già allora appariva come la più decisa nel portare avanti, in senso laicista e immanentista, le istanze estreme del tanto celebrato “spirito” del Concilio. Con l’artificio retorico del punto di domanda, l’autore è riuscito a insinuare il cuneo del dubbio in tutta una serie di punti nevralgici della fede: ricordiamo, fra i suoi titoli, Infallibile? Una domanda (1970); Preti perché? Un aiuto (1971); Fallibile? Un bilancio (1973); Dio esiste? Risposta al problema di Dio nell’età moderna (1978): e si noti che Dio, per lui, è un problema, un problema che va affrontato con gli strumento della cultura moderna e non come quei povero bifolchi dei nostri avi. Ed ecco alcune perle da Vita eterna? (titolo originale: Ewiges Leben?, 1982; traduzione di G. Moretto, Milano, Mondadori, 1983):
(Sull’idea della morte nel Nuovo Testamento, cit., p. 100):
Chi, come il cristiano, è abituato a cogliere senza esitazione l’Antico Testamento in una presunta continuità storico-salvifica con il Nuovo, si renda conto che cosa significhi: TUTTI I PATRIARCHI DI ISRAELE, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e i Giudici, i re e i profeti, Isaia, Geremia ed Ezechiele, attendevano, per sé come per tutti gli altri uomini, una tale fine nell’oscurità: eppure essi sono vissuti e hanno agito in virtù di una fede incrollabile in Dio. Tutti questi ebrei – per più di un millennio – NON HANNO CREDUTO IN UNA RESURREZIONE DEI MORTI, in una resurrezione nel senso positivo del termine, in un cielo “cristiano”. Con enorme coerenza essi si sono concentrati sull’aldiqua, sena preoccuparsi molto di questo aldilà: in ogni caso, fosco, oscuro, senza speranze.
Hans Küng
Questo è un buon esempio della perfidia tipica di questo autore: perfido è chi vuole introdurre un concetto non esplicito, ponendo artatamente l’interlocutore di fronte all’impossibilità di evitarne le conclusioni, ma, da parte sua, senza sporcarsi le mani col dirlo chiaro e tondo. A quanto pare, per Küng o si crede nella totale discontinuità fra Antico e Nuovo Testamento, oppure bisogna ammettere che i cristiani si sono inventati una credenza nell’aldilà che prima non esisteva affatto; e pazienza se un certo Gesù Cristo, sulla croce, ha detto al buon ladrone: Oggi stesso tu sarai con me in paradiso. Corollario: bisogna concentrarsi sulla vita terrena, sulla giustizia sociale, e mettiamoci pure il clima e l’ambiente, come oggi insegna un degno erede di questa tradizione pseudo teologica, che per caso risiede nella Casa Santa Marta e usurpa le funzioni del pontefice romano; chi pensa che il Regno di Dio non sia di quaggiù, evidentemente vuol rifilare agli uomini il ben noto (ai marxisti) oppio dei popoli.
E a proposito del signore di Casa Santa Marta, per il quale la Via Crucis è la storia del fallimento di Dio, ecco dove egli può aver tratto la sua bellissima e consolante affermazione (pp. 111-112):
Come già i profeti, Gesù non ebbe un successo pieno, alla fine fu, anzi, respinto. Come i profeti, egli dovette soffrire. Ma la sua sofferenza a, più di quella di ogni altro profeta, alla sofferenza di quel misterioso Servo di Dio del Deuteroisaia, che porta i peccati di molti e intercede per i colpevoli. Così, per lo meno, lo si è compreso in seguito. L’immagine, offerta allora dalla morte di Gesù, era l’immagine di un FALLIMENTO, non accidentale, ma INEVITABILE. Non si può, a questo punto, reprimere un interrogativo: NON è egli MORTO INVANO?
Certo, date le premesse l’interrogativo è insopprimibile; ma le premesse non sono quelle del cattolicesimo, bensì del modernismo, che storicizza tutto, anche la morte di Cristo; e si sa che, per la storia, nessuno è mai risorto da morte. Anche qui colpisce l’analogia con il signore di Casa santa Marta, il quale ha affermato che la morte di Cristo è un fatto storico, mentre la sua resurrezione è un atto di fede. Bergoglio discepolo di Hans Küng? Più probabile che entrambi si siano abbeverati alle stesse fonti (velenose). Il teologo svizzero, dopo aver affermato senza mezzi termini che la Resurrezione di Cristo è un atto di fede e non un evento storico (cfr. p. 125), si lancia in una serie di confuse e ambigue elucubrazioni per dire che l’atto di fede si rivolge a qualcosa di reale, anche se non di storico: e afferma, a parole, che tale realtà è di consistenza non minore, semmai maggiore, di quella storica: ma la verità è che riesce solo a fare una gran confusione e a seminare dubbi laceranti nella mente e nella coscienza del suo pubblico, senza dare risposte convincenti. Gli piace giocare sull’orlo del precipizio, ricorrendo a tutti i trucchi e i sofismi, perfino quello d’interrompere la fabula sul più bello, come facevano i romanzieri d’appendice, per riprenderla nella lezione successiva; il libro infatti è formato dai testi di una serie di nove lezioni tenute nel 1981 all’Università di Tubinga. Quel che al lettore andrebbe detto è che fin dal 1979 al teologo Hans Küng era stata tolta la missio canonica, cioè l’autorizzazione a insegnare teologia cattolica: cosa che non gl’impedì di continuare a insegnare come professore indipendente, ma in compenso gli diede la possibilità di presentarsi come un perseguitato, e di paragonare la Congregazione per la dottrina per la fede alla polizia politica di Stalin. Come tutti gli ultraprogressisti, non fu mai sfiorato dal dubbio che è semplice onestà intellettuale uscire da un’istituzione della quale non si condividono più i principi fondamentali, senza neanche aspettare d’esserne cacciati: troppo ghiotta era l’occasione di spacciarsi per vittima innocente e far passare l’istituzione per una macchina di potere spietata e nemica della libertà di pensiero (cfr. i nostri precedenti articoli: Hans Küng: cattivo teologo e seminatore di confusione e Il livore anticattolico di Hans Küng mostra senza fronzoli il vero senso della sua “teologia”, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova rispettivamente il 12/01/18 e il 31/01/18). Ma è pur vero che egli era stato uno dei teologi che avevano partecipato, in posizione di “esperti”, al Concilio Vaticano II, su nomina di Giovanni XXIII; e che molte delle tesi da lui successivamente elaborate, in particolare un pluralismo religioso radicale, che contesta frontalmente il dogma che la sola salvezza è nella Verità di Cristo, oggi sono tornate in onore e anzi costituiscono l’impalcatura pastorale del signor Bergoglio e di tutto il vertice ultraprogressista, in particolare della solita chiesa tedesca, oggi rappresentata dal cardinale Reinhard Marx.
Ma vediamo quali sono le conclusioni del libro di Hans Küng (cit., p. 268):
Che cosa significa credere in un compimento finale nella vita eterna a opera del Dio, che si è rivelato in Gesù di Nazareth?
Credere in una vita eterna significa convincersi, con ragionevole fiducia, con fede illuminata e speranza provata, che un giorno io sarò pienamente compreso, liberato dalla colpa e definitivamente accettato, potrò essere me stesso senza paura; che la mia esistenza opaca e ambivalente, come in generale la storia umana profondamente lacerata, diventerà definitivamente comprensibile e la domanda circa il senso della storia troverà finalmente una risposta.
Bergoglio e il gesuita Karl Rahner, ispiratore della "Svolta antropologica"
Tutto chiaro? No, per niente. Noi, almeno, non abbiamo capito nulla, tranne una cosa: che l’autore qui non parla affatto della vita eterna, ma della sua credenza soggettiva sulla vita eterna: fedele alla svolta antropologica di Karl Rahner, non osa affermare la vita eterna come una certezza oggettiva, ma preferisce parlarne in privato, a livello di chiacchiera. Un chiacchiericcio ambiguo, scivoloso, gesuitico, dal quale non traspare in modo chiaro cosa pensi davvero Hans Küng. Che c’entra con la vita eterna la credenza che un giorno io sarò pienamente compreso, liberato dalla colpa e definitivamente accettato, potrò essere me stesso senza paura? E che c’entra i l’auspicio che la mia esistenza opaca e ambivalente, come in generale la storia umana profondamente lacerata, diventerà definitivamente comprensibile? Questa è psicologia, anzi psicopatologia: l’attesa nevrotica di una “liberazione” tutta intramondana, pasticciata contraffazione della liberazione vera, quella che viene da Dio, e precisamente da Gesù Cristo morto e risorto. Perciò si torna sempre lì, alla Resurrezione di Cristo, che Küng prende con le molle, rifiutandosi di accettare il racconto dei Vangeli e prediligendo invece la Prima lettera ai Corinzi, in quanto più antica e, secondi lui, più attendibile, perché sposta la prospettiva dall’evento storico, dubbio, alla realtà teologica, più consona alla comprensione di quella realtà. Peccato che non abbia riflettuto a sufficienza sulle parole di san Paolo che, in quello stesso testo, senza alcuna ambiguità, afferma (1 Cor 15, 12-22):
12Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? 13Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! 14Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. 15
Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. 16Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; 17ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 18Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. 19Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. 20Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. 21Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. 22Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Vedi anche:
Hans Küng: cattivo teologo e seminatore di confusione - KUNG SEMINATORE DI CONFUSIONE
Il livore anticattolico di Hans Küng mostra senza fronzoli il vero senso della sua “teologia” - LIVORE ANTICATTOLICO DI KUENG
Il dubbio sulla morte è la ferita esiziale dei cristiani
di Francesco Lamendola
Del 21 Dicembre 2020
Mi è capitato di rileggere un vecchio post che avevo pubblicato su Facebook nel 2015 in cui rilanciavo alcuni stralci, ripresi da un articolo di Aldo Maria Valli, di una intervista che Vittorio Messori aveva concesso ad Aurelio Porfiri in un suo libro per i tipi della Chora Books. Qui rilancio l’intero articolo.
«Ormai, anche per tanti credenti divenuti incerti sulla verità dell’Aldilà cristiano, potrà sembrare strano quanto sto per dire: ma il progetto che domina su tutti è di chiudere “bene” la mia avventura terrena. Insomma, per dirla chiara: vorrei innanzitutto morire “bene”, nel senso evangelico».
Sapete di chi sono queste parole così inusuali? Non di un cardinale, non di un vescovo, di un parroco, di un religioso o di un teologo. Sono in realtà di un laico cattolico, ma non di uno qualunque: Vittorio Messori.
La riflessione si trova nella bella intervista fatta a Messori da Aurelio Porfiri alla fine del libro «Et-Et. Ipotesi su Vittorio Messori» (edizioni Chora Books), nel quale l’esperienza umana, spirituale, religiosa e professionale dello scrittore, autore del celeberrimo «Ipotesi su Gesù» e di numerosi altri successi editoriali, è ripercorsa con senso di partecipazione e aperta simpatia.
L’amico Porfiri, uomo poliedrico, dalle mille iniziative e capacità culturali (giornalista, scrittore, editore, compositore di musica sacra e direttore di coro) mi perdonerà se mi concentrerò soltanto sull’intervista. Del resto chi ama Messori conosce la sua vicenda, e chi non lo conosce spero sarà invogliato da queste poche righe a conoscerlo meglio, specialmente attraverso la lettura dei suoi libri. Mi concentro sull’intervista perché mi sembra che Messori, uomo riservato, in questo caso, certamente aiutato dall’umanità e dalla premura dell’intervistatore, si sia lasciato andare ed abbia aperto veramente il suo cuore.
È dunque la morte il pensiero dominante per lo scrittore in questo frangente della sua vita, e Messori lo dice senza giri di parole, con naturalezza. «Cerchiamo di capirci, senza le ipocrisie dell’ideologia oggi egemone: the political correctness, il politicamente corretto, questo capolavoro di ipocrisia e di rimozione grottesca di tutto ciò che è sgradevole. Io ad aprile ho compiuto settantasei anni, l’età in cui sono già in pensione persino i vescovi. La mia speranza di vita è tra i sei e i sette anni, stando alle statistiche, che non è affatto detto che riesca a rispettare. Comunque, il salmo 90 lo ricorda chiaramente: “Settanta sono gli anni dell’uomo. Ottanta solo per i più robusti”. Dunque, com’è giusto, mi preparo a passare dall’altra parte».
Ecco. Con il suo stile giornalistico, che lo ha reso famoso in tutto il mondo, Messori dice pane al pane e vino al vino. Niente di speciale, pensandoci bene. Eppure sono affermazioni straordinarie in una cultura come la nostra, all’interno della quale anche la Chiesa, per non fare dispiacere al mondo e non apparire retrograda, ha smesso da tempo di parlare della morte e delle cose ultime, compreso il giudizio di Dio.
Per Messori, invece, quel momento del giudizio è importante. Anzi, è l’unica cosa che conta. Per questo si sta preparando a morire. Per questo, insieme a sua moglie Rosanna, ha richiesto e ricevuto quella che una volta si chiamava estrema unzione e adesso, dopo il Concilio, è diventata unzione degli infermi. Una richiesta, spiega, giusta e opportuna, dato che la vecchiaia stessa è una malattia.
Messori, insomma, si sta preparando, da cristiano e da cattolico, al futuro, «quello con la F maiuscola», ovvero «quello che non terminerà mai». Il che, in ogni caso, non gli impedisce di stare ancora sul pezzo, come si dice in gergo, e di starci da par suo.
Sentite questa: «È triste constatarlo, ma si ha l’impressione che la gerarchia attuale faccia una riverenza solo formale allo straordinario insegnamento di Giovanni Paolo II. Pur senza dirlo, molti credono che le sue grandi encicliche siano “superate”. Si ha l’impressione che all’interno della Chiesa stessa si cerchi in qualche modo di smorzare il ricordo di quella che è stata certamente una ventata di Spirito Santo nella Chiesa».
Messori è stato amico di papa Wojtyła e l’ha intervistato in quel best-seller mondiale che è «Varcare la soglia della speranza». Ma nel suo giudizio non c’è solo una comprensibile nostalgia. C’è tutta l’amarezza di chi vede, nella Chiesa d’oggi, il tentativo di superare l’insegnamento di Giovanni Paolo II (pensiamo solo alla «Veritatis splendor»), e di altri maestri e pastori, in nome di un vago aggiornamento fondato per lo più sull’ambiguità e sul desiderio di mostrarsi amici del mondo, anche a prezzo di offuscare, se non di tradire, le eterne verità divine.
Messori sa bene che oggi, fra cattolici, è quasi vietato parlare del giudizio di Dio. La consegna è limitarsi alla misericordia, senza approfondire. Ma lui non ci sta e lo dice: «Per la logica dell’et-et, non bisogna dimenticare che noi saremo giudicati non con un solo criterio, ma con due. Cristo ci giudicherà secondo misericordia e secondo giustizia: il giudizio non può essere ingiusto, così come il giudizio non può essere spietato. Ci sarà sicuramente misericordia, ma ci sarà anche giustizia. Per fare due soli nomi tra gli infiniti possibili, anche per l’infinita misericordia del Dio di Cristo, Stalin non è, che so, don Bosco. L’accentuazione unilaterale di uno solo degli aspetti divini, la misericordia, porta a un cristianesimo monco che tralascia un aspetto essenziale del Vangelo: la doverosa severità del Cristo, pur accanto alla sua commovente tenerezza. Le terribili (seppure bellissime) parole del “Dies irae” sono squilibrate da una parte, dimenticando l’altra parte. Ma non possiamo, per negazione, immaginare il Giudice celeste come il vecchio zio che l’età ha reso sentimentale se non rammollito e che è pronto a perdonare tutto, ma proprio tutto, ai nipotini, anche a quelli riottosi sino all’ultimo».
Messori è stato anche il grande intervistatore di Joseph Ratzinger (il best-seller internazionale in questo caso è «Rapporto sulla fede», del 1985) e da parte dello scrittore non poteva mancare un pensiero su Benedetto XVI: «Io non solo l’ho sempre stimato come studioso, ma ho molto amato l’uomo, il cristiano Ratzinger. Chi lo conosce davvero, standogli vicino (come è capitato, per fortuna, a me) sa che è una delle persone più buone, più miti, più comprensive, oltre che più colte. In lui si uniscono il rigore dell’ortodossia e, nello stesso tempo, la misericordia, la tolleranza, l’apertura. L’ho visto anche di recente, nel suo ritiro nella villetta nei giardini vaticani che era un monastero di monache di clausura: è stato un incontro molto bello e per me anche commovente, trovandolo lucido come sempre ma assai smagrito, appoggiato a un girello anche per muovere pochi passi. Proprio perché gli volevo e gli voglio bene mi sono amareggiato quando è stato eletto Papa. Anche per lui è stata una sorpresa che si augurava non gli capitasse. È anzitutto uno studioso, un docente, uno scrittore di cose teologiche. In fondo, questa è la sua maggior grandezza morale: ha sacrificato alla Chiesa la sua natura e la sua vocazione, che è quella della tranquillità, delle biblioteche, del cerchio degli studenti, dei colloqui a tu per tu, delle dotte relazioni ai congressi specializzati. Ha sempre obbedito alla Chiesa, accettando il sacrificio, prima quando è stato strappato da Paolo VI alla sua università bavarese per fare l’arcivescovo di Monaco di Baviera, poi quando è stato chiamato da Giovanni Paolo II a fare il prefetto dell’ex Sant’Uffizio e alla fine quando è stato “obbligato” al papato. A settantotto anni, quando sperava di poter tornare, per il tempo che gli restava, ai suoi studi prediletti».
Quanto a Francesco, da tempo Messori ha deciso di tenere la bocca chiusa (i suoi papi, dice, sono stati Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e «adesso tocca ad altri misurarsi con altri pontificati»). Rispetteremo questa sua scelta, limitandoci a ricordare le perplessità da lui espresse sul «Corriere della sera» nel 2013 e ribadite tre anni dopo, in un’intervista a Bruno Volpe per lafedequotidiana.it, quando disse fra l’altro: «Questo Papa ha fatto una scelta unilaterale per la misericordia e mi domando: che dovremo fare, strappare tante pagine del Vangelo nelle quali Gesù è severo e persino duro? … Tante cose in questo momento mi lasciano perplesso e per questo motivo e per senso di responsabilità sto zitto. Certamente come cattolico sono allarmato e preoccupato, ma la mia scelta è diversa da quella di qualche altro autorevole collega e giornalista. In fondo mi domando chi sono io per giudicare il Papa. Però sono convinto e lo ripeto, che a Francesco la dottrina interessi molto poco».
Interessante è in ogni caso la distinzione che Messori fa tra il papa e il papato. Da quando, grazie alle tecnologie della comunicazione, il papa è di venuto una figura centralissima sulla ribalta mondiale, tutta l’attenzione è concentrata su di lui, ma secondo Messori ha poco senso interessarsi al papa in quanto persona. «A me – spiega – non interessa se il papa è antipatico o simpatico, non mi interessa se è nero o bianco o rosso, non mi interessano i suoi tic, le sue manie, le sue prospettive private; mi interessa il fatto che, misteriosamente, per indicazione dello Spirito Santo, quell’uomo sia il successore di Pietro, dunque sia anche il vicario di Cristo in terra. Per cui ripeto: ciò che a me interessa, ma credo dovrebbe interessare a tutti, è l’istituzione papale, il fatto che ci è stato fatto questo dono, perché il papato in una prospettiva di fede è un dono. Il resto è solo motivo di una curiosità che può anche non esserci».
Prima di chiudere, un’ultima frase di Messori sul mondo cattolico attuale: «Quel che resta del mondo cattolico pensa che il suo solo dovere sia l’affannarsi il più possibile per le opere sociali, per ogni tipo di bisogno materiale. È giusto ed è bello, pur non dimenticando che, per questo, non occorre la fede: il mondo è pieno di volontariato, spesso ammirevole, di agnostici e di atei. Nel loro affanno sociale i credenti “adulti” hanno dimenticato che la più alta delle “opere di carità” è il suffragio per i defunti, questo aspetto centrale della splendida realtà che la Tradizione chiama “la comunione dei Santi”: i vivi aiutano i morti ricordandoli alla misericordia divina e i morti intercedono presso Dio per i vivi. Che c’è di più “sociale”? E che c’è di più dimenticato?».
Circa la preparazione di Messori al grande passo nell’Aldilà, nell’affettuosa prefazione Marco Tosatti scrive: «Preparati come vuoi, ma non in silenzio; e, per favore, non tirare i remi in barca. In una Chiesa in cui ci si tirano addosso gli aut-aut ogni cinque minuti, c’è proprio bisogno che la tua penna ci ricordi ancora, e di frequente, la ricchezza dell’et-et, lo splendore e la grandezza di ciò che ha significato per Roma. C’è più che mai bisogno di te, e della tua razionalità, quella che ha convinto così tante persone che credere è la cosa più logica, nel momento in cui il preposito generale della Compagnia di Gesù afferma che non sappiamo bene che cosa Gesù ha detto perché non c’erano i registratori… E tu vorresti calare le vele proprio ora? Ma ti pare?».
Sottoscrivo.
https://www.sabinopaciolla.com/messori-per-il-volontariato-non-serve-la-fede/
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