Comunione sulle mani / Ecco come avviene l’apostasia eucaristica
Cari amici di Duc in altum, dopo un precedente contributo centrato su considerazioni di tipo pastorale, don Marco Begato interviene di nuovo sulla questione della Comunione sulle mani, che tanto fa soffrire moltissimi fedeli, addirittura costretti a restare lontani dall’Eucaristia per l’impossibilità di riceverla sulla bocca.
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Torno a riflettere sull’ipotesi di un’apostasia eucaristica. Come già detto, non la intendo nel senso di un’evidente presa di posizione contro la fede, ma come il possibile avanzare di un vissuto ecclesiale che va perdendo il senso specifico della presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento.
Nell’articolo precedente ho presentato alcune impressioni di carattere pastorale, e quindi più immediato ed empirico. Ora, se vogliamo sottrarre quelle all’accusa di arbitrarietà, converrà illustrare almeno alcuni elementi teologici che forniscano un quadro più oggettivo entro il quale iscrivere l’allarme eucaristico.
Non penso che le seguenti indicazioni siano risolutive e quindi le considero come spunti messi al servizio dei nostri Pastori, certo non come accuse o proclami chiusi in se stessi. Preciso di non avere titoli di teologo, eccetto quelli basici previsti per la formazione del clero. Del resto, per denunciare l’imminenza di un pericolo nei suoi tratti più grossolani, sovente non si richiede una formazione specialistica.
Mi concentrerò su tre considerazioni.
La prima, di taglio canonico-formale, riguarda il valore della Tradizione e conseguentemente il vincolo dei documenti che la esprimono. Il documento che raccoglie l’insegnamento della Tradizione attorno alla disciplina della distribuzione eucaristica è Memoriale Domini (1969). Nel suo dottorato il sacerdote Federico Bortoli ha messo in evidenza che “La MD è una Istruzione della Congregazione per il culto divino, preparata per mandato speciale del sommo pontefice, il beato Paolo VI e da lui approvata”. Tramite essa “viene confermata una norma universale, fino a quel momento non scritta e, allo stesso tempo, come vedremo meglio in seguito, si prevede la possibilità di derogare alla prescrizione della norma stessa”[1]. E si precisa che “la dispensa alla legge è un istituto prettamente canonico, che consiste nell’eccezione in un caso concreto alla norma generale a motivo di una giusta causa”[2]. Mi chiedo: se è possibile dispensare dalla norma, è possibile opporsi alla stessa? Purtroppo, tale domanda arriva terribilmente in ritardo. Come mostrato dal padre Bortoli, l’approccio pastorale degli ultimi anni ha visto la deroga alla norma come prassi diffusa e costante (secondo una logica di indulto) anziché semplice e occasionale (secondo una logica di dispensa). Tale domanda rimane comunque vera e tenace nelle sue due declinazioni. La prima: davvero l’epidemia in corso chiede una risposta così drastica? L’ipotesi di comunicarsi sulla lingua, garantendo una frequente igienizzazione – per esempio – non poteva scavalcare la paura sanitaria? E, di nuovo, la seconda: è possibile che un indulto/dispensa scavalchi di netto la norma? Non è questo un gravissimo abuso e una forma di clericalismo? Il tutto, ricordiamolo, nonostante il cardinale prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti abbia scritto alle Conferenze episcopali: “Si riconosca ai fedeli il diritto di ricevere il Corpo di Cristo e di adorare il Signore presente nell’Eucaristia nei modi previsti, senza limitazioni che vadano addirittura al di là di quanto previsto dalle norme igieniche emanate dalle autorità pubbliche o dai vescovi” (15 agosto 2020).
Se queste mie considerazioni hanno un qualche valore, a esse va aggiunta una terza problematica: l’uso di scavalcare il diritto e il magistero in nome di prassi locali potrebbe dar luogo a tendenze confusionarie, in cui i cattolici si troveranno sempre più sovente dilaniati tra l’obbedienza agli ordinari del luogo e l’obbedienza alla Tradizione depositata.
La seconda considerazione, di tipo ecclesiale, va oltre le formalità documentali (ammettendo che il Magistero sia una formalità) e porta lo sguardo sulla vita dei fedeli. Suprema legge della Chiesa è una e una soltanto: la salvezza delle anime. Mi chiedo se l’interdizione della Comunione sulla mano favorisca tale legge o invece finisca con l’ostacolarla. Imporre la Comunione sulla mano – una dispensa, secondo la MD, concessa agli spiriti più moderni e quindi un allontanamento dall’adorazione eucaristia tradizionale – per molti fedeli significa violare la propria coscienza credente. Con quale autorità e con quali frutti? E con quale esito circa il concetto di fede e di coscienza? Se la mia fede eucaristica è fatta di segni esteriori vacui, cui è bene rinunciare davanti a una crisi sanitaria (la cui portata peraltro è molto discussa a livello mondiale), che valore avranno questa fede e questi segni? Se la mia fede ha come unico elemento l’obbedienza ad autorità locali e nessun altro radicamento in una verità più profonda cui attingere guidati dallo Spirito del Risorto, che solidità e che senso porta con sé tale fede? Davanti ad alcuni fedeli, che stanno fin rinunciando a comunicarsi, non volendo scendere a compromesso con la richiesta di afferrare il Corpo di Cristo con le proprie mani, i sacerdoti non hanno poi mancato di accusare in ciò forme di mera esteriorità e superbia. E così in tempo di epidemia la Chiesa vede fila crescenti di adulteri ricevere la comunione sulle mani (perché pare che una coppia di divorziati non possa né rinunciare al talamo né all’Eucaristia), e gruppi di fedeli osservanti che vengono impediti a comunicarsi e sono rimproverati.
Due considerazioni emergono da tale scenario. Riguardo al clero: temo vi sia un crescente rischio di soggettivismo nella cura d’anime e nella amministrazione dei sacramenti, soggettivismo che significa clericalismo, appeso al filo di obbedienze severe e sterili, disancorato dalla verità e dalla Tradizione. Riguardo ai fedeli: si registrano confusione, pubbliche umiliazioni, privazione del dono sacramentale, coscienze diseducate a cercare il vero e indotte a obbedire in modo cieco. Probabilmente sono io che sbaglio ad analizzare la situazione, ma con me sbagliano in molti e supplico la Chiesa, sempre più attenta negli ultimi anni a onorare la Misericordia divina, di aiutarci con tratto materno a capire. Non di imporci prassi rivoluzionarie incomprensibili e autoritarie, ma di aiutarci a capire con motivazioni.
L’ultima considerazione è cristologica. Quando ci riferiamo alla Divina Eucaristia nella Santa Messa, intendiamo riferirci al Cristo Eucaristico come a un oggetto o come a un soggetto? Se si tratta di un oggetto, allora concordo col nuovo corso: possiamo imporre di punto in bianco qualsivoglia uso alla e nella Messa. Però così ricadremmo nella reificazione eucaristica, di cui i teologi novelli accusavano da decenni la teologia classica (ironia della sorte?). Ovviamente sfido chiunque a sostenere che Cristo sia un oggetto. Trattarlo come oggetto farebbe di noi i degni eredi del Sinedrio, diverremmo crocifissori e non adoratori di Dio. Dunque, è pacifico che il Cristo Eucaristico sia soggetto: è Lui, pure nella sua presenza sacramentale (l’Ostia consacrata) a essere il protagonista della Santa Messa. E noi possiamo cercare di crescere nel mistero della nostra stessa identità e soggettività, e conseguentemente nel senso del nostro essere comunità, solo se ci disponiamo a ricevere tali valori dal Cristo stesso. Il Cristo, autentico e primo soggetto della Santa Cena, è anche colui che si autoproclamò Signore del sabato e che beffeggiò i potenti in varie maniere (Erode è la volpe chiamata ad attendere i ritmi messianici; Cesare ottiene il suo tributo, solo in quanto vomitato dal Pesce; Pilato non avrebbe alcun potere se non gli fosse dato dall’alto). È davvero arduo riuscire a comprendere in che senso questa signoria possa essere appiattita e strumentalizzata in nome di norme governative opinabili e disposizioni curiali discutibili. Come sacerdote vivo un grandissimo imbarazzo e timore di fronte all’imperativo di schiacciare l’Eucaristia alle disposizioni giuridiche di un governo acattolico; e l’idea che facendolo obbedisco a una conferenza episcopale, a un vescovo o a qualche uomo di curia non mi dà nessuna consolazione.
In sintesi: i diritti di Cristo unico autentico soggetto e protagonista della Santa Messa, cui spetta la prima e più sostanziata obbedienza; il bene delle anime la cui salvezza non verrà da osservanze vuote (ciò avveniva nelle religioni pre-cristiane), ma dall’adorazione nelle sue forme fondate e legittime (in accordo con MD, ma non oltre essa!); la necessità di preservare un debito ordine, che tuteli l’impianto tradizionale e magisteriale e non lo sconvolga con interventi locali che spianino la strada ad arbitrarietà e compromesso.
Ecco tre spunti teologici che depongono a sfavore dell’imperativo della Comunione sulle mani. Con l’auspicio che altri in altre sedi affrontino più puntualmente la questione e ne traggano le debite conclusioni.
Don Marco Begato
[1] F. Bortoli, La distribuzione della comunione sulla mano, Cantagalli, Siena 2018, p. 243.
[2] Ibidem, p. 244.
Grazie di tutto cuire, bravo sacerdote, lo Spirito Santo ti accompagni sempre. In
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