ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 9 febbraio 2021

È lui o non è lui?

L’operazione Draghi è l’ultimo attacco del mondialismo contro l’Italia


Alla fine dunque il momento è giunto. Solo pochi giorni separano Draghi da palazzo Chigi quando le consultazioni stanno volgendo al termine in queste ore.

Su questo blog si era prevista la venuta dell’ex governatore della Bce come prossimo presidente del Consiglio già nei mesi scorsi.

Non perché si sia in possesso di sconosciute doti divinatorie, ma piuttosto perché si erano rilevati i segnali evidenti di un meccanismo che si era messo in moto proprio agli inizi dell’operazione terroristica del coronavirus.

La venuta di Draghi in realtà era stata già decisa verso la scadenza del suo mandato da governatore della Bce.

Era già da allora che nelle stanze di Bruxelles e negli ambienti della finanza anglosassone di Londra si iniziava a fare il nome dell’uomo di Goldman Sachs come prossimo premier per l’Italia.

L’operazione Draghi era già in preparazione dalla seconda metà del 2019 e per comprendere che cosa ha portato alla sua piena riuscita, occorre tornare per un istante a quel periodo quando Salvini fece cadere, secondo molti inspiegabilmente, l’allora governo gialloverde.

La caduta di quel governo è stata semplicemente decisiva per iniziare a preparare il terreno a Draghi.

La marcia di avvicinamento dell’ex governatore della Bce è stata ampiamente favorita proprio da Matteo Salvini.

Non appena il segretario della Lega ha fatto harakiri e ha permesso al PD di tornare al potere assieme al M5S, ha iniziato a formare un asse con Renzi.

Questo asse ha praticamente lavorato in sinergia sin da allora per spianare la strada a Mario Draghi.

Non è certamente un caso che dal mese di novembre del 2019 ci sia stata la prima apertura di Salvini al nome di Draghi al Quirinale, quando il segretario leghista pronunciò l’ormai famoso “why not quando gli fu chiesto se pensava che l’uomo di Goldman Sachs sarebbe potuto diventare il prossimo presidente della Repubblica.

In quei mesi, la Lega di Salvini aveva già iniziato lo smantellamento di tutta la linea sovranista, o almeno la facciata di una linea sovranista, a partire dal caso dell’Ilva di Taranto, sparito da tempo dall’agenda dei media.

In quell’occasione, il leader del carroccio si schierò a favore del gruppo franco-indiano arrivando persino a dire che era necessario chiedere scusa agli imprenditori stranieri che stavano arrecando un danno strategico vitale alla produzione d’acciaio nazionale.

Nel mese successivo, succede un altro evento inaspettato. Salvini smette di chiedere le elezioni anticipate e arriva a invocare apertamente la soluzione del governo di unità nazionale.

A distanza di poco tempo, l’eminenza grigia della Lega, Giancarlo Giorgetti, l’interlocutore privilegiato del partito per l’establishment europeo e mondialista, rilascia un’intervista al Corriere nella quale inizia a scoprire le carte e a fare il nome di Draghi per unire le forze politiche in un esecutivo di larghe intese.

Questi passaggi sono da tenere a mente perché senza di questi non si comprende il meccanismo che ha portato al progressivo avvicinamento di Draghi a palazzo Chigi.

La Lega che prometteva l’uscita dall’euro in un fine-settimana è stata difatti la forza politica, assistita dalla sponda di Matteo Renzi, che si è rivelata decisiva per permettere la riuscita dell’operazione Draghi.

La crisi artificiale da Covid è servita a preparare il terreno al falso messia

Perché tutto andasse a buon fine però servivano soprattutto due cose.

La prima era la costruzione di una crisi artificiale così devastante e catartica da poter costruire il clima necessario per preparare la venuta del falso messia.

La seconda era quella di preparare una massiccia campagna di disinformazione tale da far credere che il messia sotto le mentite spoglie di Draghi fosse andato incontro ad una sorta di misteriosa e inaspettata conversione così da potersi in qualche modo guadagnare le simpatie o l’approvazione dell’elettorato leghista.

La prima condizione si è verificata a livello mondiale perché l’operazione terroristica del coronavirus è sicuramente un disegno di respiro globale per poter preparare la strada al futuro governo unico mondiale.

Le caratteristiche di questa crisi assomigliano molto a quella di cui parlava David Rockefeller nel 1994 in un consesso delle Nazioni Unite, davanti al quale il magnate americano sosteneva che il Nuovo Ordine Mondiale era praticamente alle porte.

Tutto ciò di cui c’era bisogno non era altro che una crisi così devastante e profonda da indurre le nazioni a rinunciare alla loro sovranità per lasciare spazio alla dittatura globale desiderata dalle grandi élite mondialiste.

Quella crisi è arrivata con le fattezze del coronavirus, ma a questo punto si deve notare un fatto.

Il sistema ha fatto di tutto per accentuarla in maniera spasmodica soprattutto in Italia. Quando a marzo venivano fatte delle chiusure totali e venivano vietati gli spostamenti persino oltre il proprio quartiere, l’Italia è divenuta di fatto la dittatura più repressiva al mondo.

L’eccessivo e totalmente anomalo numero di persone decedute a Bergamo è stato praticamente un caso unico a livello mondiale.

Nessuno riusciva a spiegarsi cosa lo avesse determinato, e i parenti delle vittime hanno continuato a chiedere chiarezza sulle terapie che sono state somministrate ai loro cari.

Mesi dopo sono iniziate ad emergere delle raccapriccianti verità su quello che potrebbe essere accaduto a Bergamo.

A Brescia, altra città dove c’è stata un’elevata anomalia di morti, è venuto fuori che un medico ordinava l’uccisione dei propri pazienti Covid attraverso la somministrazione di farmaci che si rivelavano letali per i pazienti.

L’Italia dunque è stata un caso unico al mondo perché questa strage è accaduta solo in alcune città ma non si è verificata altrove.

Sembra esserci anche una stretta correlazione tra questo numero di decessi e le terapie sbagliate che nonostante tutto sono state seguite quando diversi medici sapevano che avrebbero ucciso i propri pazienti.

La causa della strage di Bergamo va ricercata qui, e la magistratura, come al solito, non sta facendo luce sui protocolli sanitari che avrebbero causato l’eccidio.

Mentre l’Italia veniva investita da una campagna di terrorismo sanitario senza precedenti, le opposizioni non hanno fatto nulla per cercare di smorzare la falsa emergenza e scongiurare le chiusure.

Al contrario, Salvini in primis soffiava sul fuoco della crisi quando chiedeva di chiudere tutto, e di tracciare persino i cellulari dei positivi.

Il ruolo della Lega e delle opposizioni non era dunque quello di spegnere la falsa emergenza che il sistema stava alimentando.

Era quello di amplificarla. Se il governo Conte è riuscito a fare tutto ciò che ha fatto è proprio grazie alle false opposizioni che invece di opporsi, sostenevano e sostengono la dittatura sanitaria.

Una circostanza che gli smemorati elettori leghisti sembrano aver già dimenticato.

La campagna di disinformazione sulla falsa conversione di Draghi

Ad ogni modo, c’è una ragione che può spiegare perché il sistema aveva bisogno di alimentare all’inverosimile l’operazione terroristica del Covid in Italia, e la si vedrà a breve.

Nel mezzo della crisi, quando i media continuavano a diffondere terrorismo e informazioni false sulla letalità del virus, giunge Mario Draghi con il suo ormai leggendario articolo sul Financial Times.

Questo passaggio è fondamentale perché per la prima volta il sistema mostra apertamente sulla scena chi sarà il “messia” che dovrà tirare fuori l’Italia dalle terribili spirali della cosiddetta “pandemia”.

Draghi scrive un articolo piuttosto generico nel quale si parla di una espansione del debito pubblico, che è certamente auspicabile, ma che da solo certamente non basta per assicurare la crescita e la stabilità economica di un Paese.

Per potersi permettere l’espansione del debito pubblico sono necessarie due condizioni imprescindibili; la prima è una banca centrale che garantisce in maniera illimitata il debito sui mercati; la seconda è una valuta sovrana che serve a modificare il tasso di cambio qualora l’aumento della spesa comporti dei naturali e conseguenziali squilibri sulla bilancia dei pagamenti.

Draghi non ha menzionato né l’una né l’altra e pertanto il caso della sua presunta riconversione alla scuola del suo antico maestro, il compianto professor Federico Caffè, si può considerare già chiuso qui.

Non è mai esistita alcuna conversione. Draghi è sempre rimasto quello di prima.

Ad ogni modo, non appena questo articolo è uscito, chi è stato il primo a gioirne entusiasta? È stato proprio “casualmente” Matteo Salvini che fino a tre anni prima accusava, giustamente, Draghi di distruggere l’economia italiana, tenendo in vita l’euro, e che invece ora chiama Draghi presidente dandogli il benvenuto.

 

 

Ecco a cosa è servito il pezzo di Draghi. Serviva a dare una cartina di tornasole alla Lega e a Salvini per iniziare a diffondere la falsa teoria dell’uomo di Goldman Sachs convertito sulla via di Damasco.

Se c’è qualcuno che si è convertito in questa storia quello è proprio Salvini, non di certo Draghi.

A questo punto però per poter dare ulteriore forza a questa campagna di disinformazione occorreva un evento shock.

Occorreva rappresentare Draghi agli elettori sovranisti come un uomo che adesso era in qualche modo “minacciato” dal sistema, e qui si arriva conseguentemente all’incendio della sua casa a Città della Pieve.

L’unica foto esistente di questo incendio è quella che si vede qui sotto.

Va a fuoco la casa di Mario Draghi. Casualità o attentato ...

La prima cosa che salta all’occhio è che questa foto è completamente sgranata.

Non si vede praticamente nulla e non si capisce minimamente quello che sta succedendo nella foto.

Appare davvero singolare che nell’epoca degli smartphone ad alta risoluzione digitale l’unica foto disponibile sia quella di un telefonino che sembra avere una risoluzione di un vecchio telefono dei primi anni 2000.

Tutta questa campagna comunque aveva ed ha uno scopo preciso come già accennato prima. La Lega non poteva presentarsi davanti ai propri elettori facendo il nome di Draghi.

Doveva prima far credere che l’ex governatore della Bce era un altro, che in lui c’era stato un genuino cambiamento tale da far sì che ora si aveva di fronte un altro uomo.

La storia che si sta cercando di far credere è che il premier incaricato ad essere andato incontro alle posizioni della Lega e non il contrario.

È qui che nasce la menzogna del Draghi keynesiano pentito che ora vestirebbe i panni di San Francesco per poter fare inspiegabilmente gli interessi del suo Paese che mai ha fatto nella sua carriera.

Un articolo vuoto del Financial Times, e il lavaggio del cervello che stanno facendo gli ambienti vicini alla Lega alle masse di adepti sembra quasi aver cancellato nella mente di molti chi è l’uomo Mario Draghi.

Si sta cercando disperatamente di “sanificare” la memoria di quest’uomo per far dimenticare come negli ultimi trent’anni sia stato proprio lui a smantellare pezzo per pezzo quella che era la quarta economia del mondo.

In un Paese senza memoria, dunque è meglio ricordare. Sono le azioni che qualificano una persona, non di certo alcune dichiarazioni, tra l’altro nemmeno sostanziali.

Mario Draghi è stato il più micidiale sicario economico dell’Italia

Mario Draghi è stato infatti l’uomo che probabilmente ha fatto più danni in assoluto all’Italia nella sua storia recente.

Fu Draghi nel 1992, quando era allora direttore generale del Tesoro, a riunirsi a bordo del panfilo Britannia e a consegnare tutta l’intera industria pubblica italiana a prezzi di saldo alla finanza anglosassone di Goldman Sachs e Morgan Stanley.

Fu sempre lui negli anni successivi a far sottoscrivere all’Italia dei derivati che sarebbero costati almeno otto miliardi di euro alle casse dello Stato.

I media in questi giorni stanno ripetendo come un mantra tutto il curriculum di Draghi, ma nulla dicono che quel curriculum è il risultato di una guerra economica che Draghi ha condotto contro il suo stesso Paese.

Più danni venivano fatti all’Italia, più in alto andava Mario Draghi fino a quando non ha toccato le sfere dell’Eurotower di Francoforte quando divenne presidente in pectore nel 2011 e vergò la lettera indirizzata al governo Berlusconi.

Draghi ingeriva per conto di una istituzione sovranazionale nella sovranità del suo stesso Paese ordinando delle riforme strutturali, quali tagli ai salari e tasse alle pensioni, che sarebbero poi state applicate da Monti.

L’ex governatore della Bce durante il suo mandato è stato ciò che ha permesso all’euro di restare in vita, ma il prezzo lo hanno pagato tutti i popoli europei, soprattutto quello greco ridotto in miseria e alla fame dalla Troika di cui faceva e fa parte la Bce.

L’euro è infatti un formidabile e terribilmente efficace strumento di disciplina della classe lavoratrice.

La sua ratio, da un lato, è quella di togliere la possibilità di fase spesa pubblica autonomamente agli Stati che non possono stampare questa moneta, e dall’altro è quella di sottrare agli stessi Stati la possibilità di svalutare il cambio della propria moneta.

Senza la possibilità di intervenire sul cambio, per assicurare la competitività del Paese sui mercati internazionali non resta che svalutare i salari dei lavoratori, sulle cui spalle grava tutto il peso di questa moneta.

Mario Draghi ha lavorato in maniera scientifica per assicurare l’esistenza di questa moneta che è stata pensata espressamente per assicurare al meglio gli interessi delle grandi élite finanziarie a discapito dei lavoratori.

Ora la campagna di lavaggio del cervello sta cercando di cancellare tutto questo per poter far bere ai seguaci della setta di Borghi e Bagnai la storia del suo improvviso interesse per le sorti del Paese.

È forse la menzogna più indecente e scandalosa che sia mai stata concepita nella politica italiana da molti anni a questa parte, ma ormai nell’epoca dei santoni e del settarismo politico la massa è disposta ad obbedire e credere ciecamente agli ordini che arrivano dall’alto, anche i più folli e insensati.

La missione di Draghi è dare il colpo di grazia all’Italia

A questo punto occorre tornare all’inizio di questa analisi quando il sistema ha esasperato la crisi terroristica da Covid proprio in Italia.

C’è una ragione per questo, e il fatto è che il mondialismo vuole portare a termine il progetto della falsa Europa di Kalergi, ovvero gli Stati Uniti d’Europa.

Per poter arrivare a questo disegno però occorre distruggere del tutto economicamente e spiritualmente la nazione che rappresenta la vera Europa cristiana e romana, l’Italia.

Per questo viene Draghi. L’ex governatore è stato scelto perché è un liquidatore formidabile. È uno specialista delle messe all’asta e delle svendite a prezzi di saldo.

In altre parole, l’uomo scelto dalla finanza internazionale deve portare a termine il lavoro iniziato a bordo del panfilo Britannia nel lontano 1992.

Draghi dovrà intavolare una trattativa con il blocco del Nord-Europa, Germania e Olanda, e offrire in cambio loro una patrimoniale, oppure l’attivazione del MES, per arrivare al superstato europeo che le élite mercantiliste tedesche non vogliono se questo non riflette fedelmente i loro interessi.

Qualora la trattativa fallisse, l’uscita dall’euro è certamente contemplata ma con Draghi verrebbe fatta in condizioni devastanti.

È questa l’atroce verità che non si sta raccontando a coloro che si definiscono “sovranisti”.

Lo stesso giornalista inglese Ambrose Pritchard in un articolo sul Telegraph ha scritto che Draghi potrebbe portare fuori l’Italia dall’euro ma non comunque prima di aver attivato il MES.

Questo strumento finanziario, come spiegato precedentemente, raderebbe al suolo l’intera economia italiana perché porterebbe ad una ristrutturazione del debito pubblico italiano.

Fallirebbero moltissime banche che detengono questi titoli e migliaia di imprese già duramente provate dalle misure della dittatura sanitaria.

In altre parole, Draghi darebbe vita ad una sorta di riedizione del lontano 1992 quando l’Italia governata da Amato abbandonò lo SME, l’antenato dell’euro, ma stavolta gli effetti sarebbero enormemente più devastanti.

In ogni caso, Draghi non riveste il ruolo di “salvatore”. Draghi ha ricevuto un mandato specifico dalle élite e a quello si atterrà.

Per l’Italia dunque si sta chiudendo un ciclo. È l’ultimo atto di una guerra economica e spirituale che poteri come il club di Roma, finanziato dalla famiglia Rockefeller, hanno dichiarato a questa nazione, così importante nei piani del mondialismo.

Che le élite globaliste che odiano l’Italia gioiscano di tutto questo è perfettamente naturale.

Che lo siano coloro che si definiscono “sovranisti” non lo è affatto.

Questo è stato il più grande capolavoro della dittatura mondialista. Hanno portato le masse che credono di essere antisistema a gioire della vittoria del sistema stesso.

La situazione dell’Italia è comunque ancora oggi rimessa nelle mani di ciò che accadrà negli USA.

Donald Trump sta vincendo le cause contro le frodi elettorali, e la corte Suprema sta per discutere i ricorsi degli avvocati Sidney Powell e Lin Wood vicini proprio al presidente.

Se l’amministrazione fantoccio di Biden dovesse venire giù, verrà giù a cascata anche inevitabilmente il deep state europeo e italiano.

Questo potrebbe essere stato l’ultimo tradimento di una classe dirigente marcia e corrotta. L’ultimo colpo di coda dei passacarte della massoneria e dei circoli mondialisti che hanno lavorato solo alla distruzione del Paese.

Forse era proprio scritto che dovesse finire così. Quest’ultimo calvario potrebbe essere necessario per poi poter ricominciare e iniziare a ricostruire tutto quello che il mondialismo e i suoi servi in Italia hanno distrutto negli ultimi quarant’anni.

di Cesare Sacchetti

https://lacrunadellago.net/2021/02/08/loperazione-draghi-e-lultimo-attacco-del-mondialismo-contro-litalia/

QUEL GIANO BIFRONTE DI MARIO DRAGHI – di Luigi Copertino

QUEL GIANO BIFRONTE DI MARIO DRAGHI

Dunque è arrivato il “messia”, il “salvatore della patria”, non dal Cielo ma direttamente da Bruxelles/Francoforte e giù tutti ad applaudire. Sia la Lega sia i 5Stelle, ossia le due componenti del primo governo Conte – quello che doveva recuperare la dignità nazionale calpestata del potere finanziario globale, di cui l’eurocrazia central-bancaria guidata da Mario Draghi era l’emblema da abbattere – si sono calati i calzoni ed hanno dichiarato la resa.

Si è detto che il Draghi di oggi non è quello del 1992 né quello del 2011, che è tornato alle origini del suo discepolato alla scuola keynesiana di Federico Caffè, che il suo intervento sul Financial Times della scorsa primavera ha segnato il punto di svolta nell’abbandono della linea austeritocratica. Qualcuno – persino tra i sovranisti come Paolo Becchi e tra economisti seri come Alberto Bagnai e Claudio Borghi – dice che il suo programma, in pectore, di spesa pubblica produttiva porrà fine alle sofferenze nazionali ed avvierà la ripresa.

Il nostro Direttore, Maurizio Blondet, ha osservato, a ragione, che è stata l’incompetenza della politica, l’insignificanza culturale di tanti peones che affollano i banchi parlamentari e governativi, ad aver aperto la strada a Draghi che certamente è uomo di notevole competenza. Quindi dobbiamo ora sperare che voglia davvero attuare i suoi dichiarati intenti “keynesiani”, perché l’Italia non ha altre carte da giocare.

Sì, Blondet ha ragione. La disfatta totale della Politica ha creato il vuoto che i tecnocrati di provenienza bancaria e finanziaria hanno riempito. Il punto è che questo non è accaduto solo ora, con Draghi, ma è una storia che risale indietro nel tempo, perché all’arrivo dei banchieri per mettere in riga i politici incompetenti, o farabutti, abbiamo assistito già ai tempi dei governi Dini e Ciampi. Ed allora c’era la lira, non l’euro.

Sì, ha ragione Blondet. E’ stato il fallimento della politica a portare Draghi al governo. Ma il fallimento della politica va spiegato innanzitutto come un fallimento educativo. Sul Corsera, Ernesto Galli Della Loggia, in questi giorni, ha messo in evidenza che la classe politica della prima Repubblica si era formata in un sistema scolastico improntato alla cultura umanistica che forniva ai politici un quadro di riferimento valoriale tale da consentire loro, nonostante ogni machiavellismo che la politica comunque comporta, di orientarsi e di comprendere il mondo. Questo quadro manca del tutto ai Salvini, ai Di Maio, ai Zingaretti, alle Boldrini, e via dicendo. Galli Della Loggia, tuttavia, ha dimenticato di dire che la decadenza era già iniziata durante la prima Repubblica. In proposito basta pensare ad un Clemente Mastella. D’altro canto una cosa sono stati i De Gasperi, gli Andreotti, i Craxi, i Berlinguer, gli Almirante, i Rauti, che avevano tutti, bene o male, uno spessore culturale improntato, se non alla trascendenza religiosa, quantomeno al senso, a suo modo civilmente religioso, del bene comune, del bene patrio – che poi la scuola gentiliana esaltava –  ed altra cosa sono stati, soprattutto dopo gli anni sessanta, i faccendieri della partitocrazia, sovente rivoluzionari che gettata alle ortiche l’utopia volevano afferrare i privilegi del potere senza contropartite. La partitocrazia fu poi travolta da “mani pulite” che però, a sua volta, aprì la strada ai pirati globalisti del Britannia ed al potere indebitamente politico dei settori deviati della magistratura. Altrettanto corrotto come è emerso nella vicenda Palamara.

Ora, dunque, è arrivato il momento di Mario Draghi.  La sua vicenda biografica e la sua carriera portano inevitabilmente a considerarlo un vero e proprio Giano bifronte.

Chi ora guarda al Draghi neo-keynesiano, dovrebbe rammentare gli esordi di Super-Mario. Esordi che, sul web, racconta Nino Galloni, anche lui economista della cerchia di Federico Caffè e compagno di discepolanza di Draghi. Galloni narra la grande delusione dell’insigne economista pescarese quando seppe che il suo allievo preferito lo aveva abbandonato per la scuola delle “aspettative razionali”, ossia per il monetarismo di Milton Friedman che in quegli anni stava preparando la strada per il ritorno, in forma aggiornata, del vecchio liberismo della scuola neoclassica e viennese. Caffè aveva seguito strettamente, da vicino, come una linea di ricerca di suo diretto interesse professorale – siamo nel 1970, quando si iniziava a parlare di moneta unica – la tesi di laurea del suo giovane pupillo, Mario Draghi, intesa a dimostrare i rischi politici, sociali ed economici della cessione della sovranità monetaria.

Qualcosa ci fa sospettare che l’allontanamento di Draghi dal suo maestro non fu determinato soltanto da un cambio di idee e di paradigmi scientifici. Mario Draghi comprese che rimanendo keynesiano, mentre – a causa della crisi inflattiva di quegli anni che aveva messo in discussione i fondamenti della “curva di Phillips” sulla quale si basavano le politiche keynesiane di spesa pubblica – andava profilandosi l’affermazione di un neoliberismo rampante, ogni possibilità di carriera, che non fosse quella cattedratica di docente universitario, gli sarebbe stata preclusa. Insomma, senza l’abbandono del suo maestro, Draghi non sarebbe mai arrivato al Fondo Monetario, a Goldman Sachs, a Bankitalia ed alla Bce.

Questo “peccato originale” già consente di inquadrare la tipologia umana di Draghi. Sicché oggi che viene di uovo accreditato come il geniale allievo di Federico Caffè, non possiamo dimenticare di averlo visto, nel giugno 1992, quale Direttore generale del Tesoro, all’opera, al largo di Civitavecchia, sul panfilo Britannia, di proprietà di Sua Maestà Elisabetta d’Inghilterra (una vicenda della quale, nel 1993, parlò per primo in Italia proprio Maurizio Blondet, in una inchiesta giornalistica che fruttò una serie di interrogazioni parlamentari), per incontrare, insieme agli esponenti del futuro governo Amato, i rappresentanti della Goldman Sachs, della Merril Linch e di altre banche d’affari angloamericane in vista della privatizzazione del patrimonio industriale pubblico nazionale. Una privatizzazione che in realtà si rivelò una svendita, in un momento nel quale la lira veniva svalutata e quindi il valore degli asset italiani deprezzato, della quale lucrarono il frutto proprio i pirati di quelle banche d’affari angloamericane.

La privatizzazione, nel clima euforico del liberismo trionfante mentre ancora fumavano le rovine del Muro di Berlino e nell’ansia escatologica da “fine della storia” della quale si era fatto banditore Francis Fukuiama, fu giustificata come la soluzione per ripianare il debito pubblico e per efficientare l’economia italiana troppo arretrata nel suo capitalismo familiare e provinciale, troppo “socialista” e troppo protetta, poco aperta alla globalizzazione in atto.

In realtà quello scempio pose fine al modello italiano di sviluppo, quella terza via che aveva fatto, nel secondo dopoguerra, dell’Italia una tra le maggiori potenze industriali. Era il modello dello Stato imprenditore che mediante le sue holding pubbliche, dall’Iri all’Agip (dalla quale si sviluppò l’Eni), operava, in settori strategici o abbandonati dall’imprenditoria privata, accanto ai privati in un sistema di mercato. Quindi un modello assolutamente diverso da quello della pianificazione comunista. Un modello che, a differenza di quello sovietico, funzionò e diede ottimi risultati. Allo stesso modello va ascritta la Legge bancaria del 1936 che nazionalizzò Bankitalia, nata privata. Le basi strutturali di quella terza via erano state impiantate prima della guerra, negli anni ’30, ad opera di quel valoroso tecnico “patriota” ed “afascista” che fu Alberto Beneduce con l’appoggio pieno ed incondizionato di Mussolini. Nel dopoguerra cattolici e comunisti le basi dello Stato imprenditore e sociale semplicemente se le trovarono lì già pronte ed implementate e si limitarono, peraltro intelligentemente, a svilupparle anziché smantellarle come avrebbero voluto gli americani. Si veda, per capire la partita giocata all’indomani della fine della guerra, la storia di Enrico Mattei partigiano bianco e del suo fidato ingegnere capo dell’Agip di dichiarata fede fascista che unirono forze e competenze per impedire il prevalere degli interessi privati ed esteri delle multinazionali americane a danno dell’interesse nazionale. Draghi, invece, nel 1992 collaborò alla rivincita di quelle multinazionali e questo dimostra la differenze culturale tra la classe politica e tecnica dell’immediato dopoguerra, tra l’altro cresciuta negli ideali patriottici che il regime fascista inculcava agli italiani, e la classe politica e tecnica di fine secolo conquistata alle idee globaliste.

Sarà stato pure un caso, però dopo quella vicenda Draghi fu chiamato in Goldman Sachs e quindi, dopo un passaggio in Bankitalia, alla Bce. Certo per le sue altissime ed indiscutibili competenze finanziarie, ma le circostanze in cui quelle nomine maturarono lasciano spazio per supporre che le sole competenze non sono state l’unico criterio di valutazione da parte di chi lo ha chiamato a quegli alti incarichi.

Il suo maestro Federico Caffè, pur consulente per Bankitalia, in una stagione nella quale la politica non era ancora ancella dell’economia, non ha mai ricevuto incarichi di governo dell’Istituto di emissione. E si capisce il perché. Caffè, che si riteneva “consigliere del cittadino e non del Principe” era uno strano economista. Un economista – qualcuno ha parlato del suo “cristianesimo laico” – che scriveva cose inaudite e non di gradite al Gotha finanziario, come questa: «Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili». Caffè aveva, oltre che scienza e competenza, una visione etica dell’economia. Era questo approccio etico che egli cercava di trasmettere, insieme alle necessarie cognizioni scientifiche, ai suoi allievi, come racconta il film, a lui dedicato, “L’ultima lezione” (1991).

A giudicare dai fatti, purtroppo Caffè mentre è riuscito a infondere in Draghi la scienza non altrettanto pare sia riuscito riguardo alla visione etica dell’economia, nonostante che persino il buon e, per questo, ingenuo Benedetto XVI si sia fidato di lui per una revisione della “Caritas in Veritate” – con tanto di articolo a sua firma su l’Osservatore Romano – e nonostante che Papa Bergoglio lo abbia nominato membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali.

Riguardo all’etica, non è possibile, infatti, trascurare il comportamento tenuto da Draghi quale governatore della Bce. E’ vero che a Francoforte, imponendosi sul rigorismo teutonico del suo collega Jens Weidmann, della Bundesbank, Mario Draghi ha salvato l’euro, aggirando il trattato di Maastricht con il quantitative easing. E’ riuscito a farlo, mettendo la sordina ai falchi come il già citato Weidmann e lo spietato Wolfgang Schäuble, contando sull’appoggio politico di Angela Merkel, terrorizzata dalle conseguenze (l’attacco speculativo al debito pubblico dell’Europa meridionale che stava frantumando la moneta unica) provocate dalla dichiarazione sua e di Sarkozy, nel 2010, sulla fallibilità degli Stati nella zona euro. Ma è altrettanto vero, tuttavia, che, quale governatore della Bce, Draghi ha fatto parte della Troika ed ha, quindi, preso parte al massacro sociale ed economico della Grecia, per salvare le banche tedesche e francesi. Addossando, oltretutto, mediante il Mes, le loro esposizioni private verso Atene sui bilanci pubblici degli Stati europei.

Questa sua debolezza per le banche la dimostrò anche quando era al Tesoro contrattando con i mercati finanziari, ossia le banche dedite alla speculazione, un cospicua mole di derivati che alla lunga finirono per accrescere il debito pubblico benché nell’immediato consentirono all’Italia la pronta, ma rischiosa, liquidità per presentarsi con i conti a posto quando si trattò di essere ammessi nell’euro. Insieme alla tassa per l’Europa, che impose il governo Prodi, fu quella liquidità a dare l’impressione della nostra solidità che serviva alla Confindustria tedesca per toglierci l’arma della flessibilità del cambio a tutto suo vantaggio, ed a svantaggio del nostro lavoro, ed alla nostra pessima classe politica per legarci cedendo la sovranità monetaria al vincolo esterno, con la recondita finalità di realizzare, senza eccessive proteste e con l’acquiescenza di una sinistra addomesticata al globalismo “arcobaleno e gaio” (nacque all’epoca il ritornello del “ce lo chiede l’Europa”), le riforme neoliberiste (i “compiti a casa”) altrimenti non accettate dal popolo italiano.

La domanda quindi è: ci si può fidare di un uomo così? Draghi intende davvero attuare quanto ha affermato, in tema di spesa pubblica produttiva, nel famoso intervento della primavera 2020 sul Financial Times o che altro invece intende fare?

Staremo a vedere. Ma niente cambiali in bianco per favore …!

Nonostante la nostra diffidenza, per non dare l’impressione che il nostro voglia essere un ragionamento pregiudiziale, passiamo ora ad esaminare alcuni aspetti delle recenti idee di Draghi, in materia di controllo statuale della creazione e circolazione della moneta, che ci sembrano invece interessanti.

Su “Libero” Giovanni Sallusti, nel tentativo di accreditare Draghi come l’uomo necessario in questo momento, ha messo in evidenza la demarcazione, a suo giudizio sussistente, tra il teutonico ed ordoliberista Mario Monti e l’atlantista, “americano”, Mario Draghi. Quest’ultimo, secondo Sallusti, seguirebbe il Milton Friedman dell’elicopter money. Si tratta, in realtà, della forzatura concettuale di un innamorato di un mito vetusto.

La teoria di Milton Friedman, messa alla prova dei fatti, fece fallimento agli inizi degli anni ’80, perché si basava sulla vecchia idea della moneta legale quale unica forma di moneta. Per il professore consigliere di Reagan sarebbe bastato aumentare o diminuire la quantità di moneta legale in circolazione per governare l’economia. Non appena le banche centrali di tutto l’occidente iniziarono, in applicazione della ricetta monetarista, ad effettuare manovre restrittive i tassi di interesse bancari conobbero una esplosione mai vista con collaterale aumento delle esposizioni debitrici da parte di famiglie ed imprese, costrette, per la rarefazione della moneta legale, a ricorrere ai presti delle banche per finanziarsi.

L’inaspettato fenomeno fu spiegato, dati alla mano, da un altro economista, considerato per questo il “martello del monetarismo”, Nicholas Kaldor. Il quale intuì l’impossibilità di un efficace funzionamento per una teoria nata già antiquata in quanto non teneva in debita considerazione che in una moderna economia monetaria oltre alla moneta legale esiste anche la quasi-moneta di creazione bancaria – ogni apertura di credito bancario funziona come fosse moneta messa in circolazione – creata ex nihilo dalle banche. Quindi se lo Stato non controlla il sistema bancario, pubblico e privato, non potrà mai controllare il complesso della circolazione monetaria che è costituito per il 95% da quasi moneta bancaria.

In un passaggio del suo discorso sul FT, Draghi sembra aver preso atto della dura lezione della realtà e della confutazione kaldoriana del monetarismo di Milton Friedman. Infatti egli ha messo in chiaro, da un lato, che bisogna smetterla di preoccuparsi del debito pubblico quando si tratta di spesa produttiva, ossia in conto capitale, ovvero di investimento, e non di spesa corrente – perché le evidenze scientifiche dimostrano che la spesa pubblica di investimento sostiene l’economia e non ha spinte inflattive incontrollabili (qui Draghi sembra far sue le tesi della MMT) – e, dall’altro lato, che lo Stato deve controllare le banche per costringerle a creare quasi-moneta per le imprese e le famiglie e non per finalità speculative. Draghi, contro il dettato di Maastricht, si è arrischiato ad affermare che, per recuperare la situazione provocata dalla pandemia, è necessario fare deficit pubblico almeno fino al 10%, quindi ben oltre il 3% stabilito a Masstricht.

«… l’unica strada efficace – queste le sue esatte parole – per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario … immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare denaro all’istante, devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sotto forma di garanzie di Stato su prestiti e scoperti aggiuntivi».

In sostanza, stando all’ultimo Draghi, lo Stato deve immettere capitale nelle banche ma allo scopo di usarle come suoi strumenti di politica economica per la creazione ex nihilo di denaro, nella forma della quasi- moneta bancaria, e per metterlo a disposizione di imprese e famiglie. Questa idea di un sistema bancario creatore di moneta, per le imprese, ma sotto garanzia e controllo dello Stato, in modo da trasformare le banche in strumenti della politica economica statale, non è farina del sacco monetarista e liberista. E’ lontanissima dal puerile elicopter money di Milton Friedman.

La soluzione proposta è invece più vicina alle idee di Hajlmar Sachs, il banchiere centrale della Reichsbank che nel 1933 compì il miracolo della ripresa economica della Germania, devastata dalla deflazione conseguente alla grande crisi del 1929, mediante l’effetto Mefo, una sorta di cambiale spiccata sul capitale di una società metallurgica, creata allo scopo, e che era usata dagli industriali e dalle banche come moneta parallela sotto garanzia della stessa Reichsbank ossia, dato che all’epoca le banche centrali erano pubbliche, dello Stato. Chissà se Draghi, senza dirlo per l’ovvio motivo della dittatura del “politicamente corretto”, non abbia in effetti pensato a questo funzionale precedente.

Ciononostante – ribadiamo con forza – bisogna mantenere molta prudenza verso il personaggio per verificare nei fatti a cosa egli punta. Draghi resta pur sempre un uomo interno al Gotha globalista. Giulio Tremonti, ad esempio, lo ha accusato di essersi opposto, durante la crisi finanziaria del 2008-2015, all’idea di una regolamentazione, con finalità politica, dei mercati finanziari (ciò che Tremonti chiama il “global legal standard”) e di aver invece avvallato, proprio perché è esponente della finanza globalista, il financial stability board consistente in una regolamentazione di mera facciata all’ombra della quale la speculazione ha continuato imperterrita la sua attività criminale e criminogena.

Pur volendo ammettere, senza concedere prima di verificare i fatti, che Draghi voglia davvero perseguire una strada latu sensu “keynesiana”, va rilevata sin d’ora una forte perplessità. Se Draghi intende usare, per il suo piano keynesiano, le tanto decantate risorse del Recovery Fund, che il precedente governo piddino-pentastellato avrebbe ottenuto (invece semplicemente ci spettavano sulla base dei parametri disastrosi della nostra economia in lockdown prolungato), la sua strategia rischia di risolversi in un gran fallimento e le sue referenze, in vista del passaggio al Quirinale, di dissolversi.

Le risorse europee, infatti, a parte il punto che sono concesse sotto condizionalità dei soliti “compiti a casa”, non sono affatto gratis. Per una quota maggioritaria si tratta di prestiti, quindi di debito da ripagare all’eurocrazia con tanto di interessi. Peggio che mai se poi al Recovery Fund Draghi decidesse, con un atto di suicidio nazionale, di aggiungere il ricorso al Mes.

Cosa è e cosa implica il Recovery Fund lo ha ribadito, in questi giorni, molto chiaramente Christine Lagarde, che ha sostituto Draghi alla Bce. A fronte della richiesta alla Bce, sottoscritta da un centinaio di noti economisti, affinché essa cancelli il debito pubblico degli Stati europei, raccolto mediante il quantitative easing – cosa non solo eticamente evangelica (“rimetti a noi in nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”) ma anche tecnicamente del tutto possibile perché solo la Banca centrale come crea moneta legale dal nulla così può distruggerla senza alcuna conseguenza per i suoi bilanci – la risposta è stata ferrea: la richiesta non può essere accolta ai sensi del Trattato di Maastricht, perché una cancellazione del debito pubblico equivale ad una operazione di monetizzazione degli Stati. Operazione vietata dalle – assurde – regole europee. Le stesse che ci hanno incastrato e portato all’attuale disastro.

Il rifiuto della Lagarde, verso ogni ipotesi di cancellazione dei debito pubblico acquistato dalla Bce, suona anche come un avvertimento al prossimo governo Draghi. E non crediamo che basterà la personale influenza di Draghi, e la sua credibilità accumulata presso la stessa Bce, per costringere il Board dell’Istituto di emissione dell’euro a mantenere un trattamento di riguardo verso l’Italia, che agli occhi degli europei del nord è pur sempre uno dei Paesi Piigs.

Insomma i rigoristi franco-teutonici, i fan dell’austerità monetaria e della deflazione, sono tornati a controllare la Bce, ora che Draghi non la presiede più ed ora che, fallita la rivolta populista un po’ ovunque, dalla Grecia di Tsipras all’Italia gialloverde di Salvini e Di Maio, dalla Francia dei Gilet Jaunes agli Stati Uniti di Trump, l’élite globalista e finanziaria si sente di nuovo in sella.

Questo significa che, quando terminerà il quantative easing della Bce e la monetizzazione del nostro bilancio statale tornerà a dipendere esclusivamente dai mercati finanziari al prezzo da loro imposto, il nostro governo, presieduto o meno da Draghi, si troverà senza alcun controllo sulla politica monetaria e quindi sulla propria politica fiscale. Con in aggiunta il carico dell’ulteriore indebitamento derivante dal Recovery Fund e, probabilmente, dal Mes.

Infatti, come certamente Draghi ben sa, per permettersi una politica di espansione del debito pubblico sono necessarie per qualunque Stato due indispensabili condizioni, delle quali, nell’attuale situazione di cessione della nostra sovranità monetaria e di accettazione del vincolo estero, l’Italia non gode. Ossia la garanzia, ai mercati, dell’illimitata monetizzazione da parte della Banca centrale del fabbisogno statale e, in secondo luogo, una moneta sovrana che consenta al governo di controllare il tasso di cambio allorché l’aumento della spesa pubblica produca squilibri nella bilancia dei pagamenti.

Semmai uno scenario, conseguente alla cessione del quantitative easing nel bel mezzo di una politica di espansione del debito pubblico, come quello appena delineato dovesse concretizzarsi, per davvero, non ci resterebbe che rivolgere le nostre preghiere a Dio.

In quanto cristiano sono sicuro che questa si rivelerebbe la soluzione migliore. Ma intanto, nell’appena iniziato “anno dantesco”, sembrano risuonare con inquietante attualità i versi di Dante «Ahi seva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello!» (Divina Commedia, Purgatorio, Canto VI, vv 76-78).

Luigi Copertino

https://www.maurizioblondet.it/quel-giano-bifronte-di-mario-draghi-di-luigi-copertino/

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