Versailles bacino del dragone
Versailles bacino del dragone 

di Pierluigi Pavone

C’era una volta un re, che costruì un grande castello e vi rinchiuse tanti piccoli e grandi draghi.

Che sia una nuova favola, non lo è, perché il re in questione era un certo Sole – così amava definirsi in Francia – e i draghi erano i nobili, che re Luigi (questo il suo nome) voleva trattare senza sconti come sudditi. Alle spalle aveva geni del potere come Richelieu e Mazzarino che avevano reso la Nazione la potenza europea più grande. Erano riusciti in trent’anni (appunto la guerra che ci fu tra il 1618 e il 1648) a capovolgere la supremazia asburgica che nel secolo precedente aveva in sé sintetizzato pure quella spagnola (con Carlo V). Poi il re sperperò, contraddisse gli stessi principi della Pace di Westfalia e pose le basi per la rivoluzione che i borghesi – su cui proprio lui aveva contato in chiave anti-nobiliare – realizzarono a suon di ghigliottina e princìpi massonici. Ma il castello – di cui ricorrono i 360 anni come vera e propria reggia – rimase, collocato intenzionalmente lì, a qualche decina di chilometri da Parigi, perché la capitale aveva conosciuto qualche turbolenza di troppo (le fronde del parlamento e dei principi, capitanati dal Grande Condè che molto aveva offerto alla Francia e alla madre di Luigi XIV in termini di vittorie militari).

Philip Mansel – che ha dedicato al re Sole e a Versailles il libro che per Mondadori esce col titolo Il Re del Mondo. Vita di Luigi XIV – riconosce che il sovrano “fece del castello di Versailles una macchina di divetissement”. Un estratto dell’opera viene riportato sul Domenicale del Sole24Ore del 17 Gennaio. Ovvero un paio di settimane prima di altre fronde e altri…Draghi.   

Ora, la parola che Mansel usa – divetissement – è un termine che indicava proprio il tipo di intermezzo musicale o ludico del teatro barocco francese. La Francia aveva una certa abitudine alla farce (dal latino farcire, qui ad indicare il riempire il vuoto tra due drammi). Risale addirittura al 1200 un’opera con un protagonista un diavolo, progenitore di Arlecchino. Luigi XIV ne fece un’arma del potere. Perché il sovrano – che non voglia essere un banale dittatore – distrae.

In senso assoluto (è proprio il caso di dirlo), la natura del potere non è affatto quella di imporsi e apparire: sarebbe un potere debole, destinato ad essere sconfitto… Il diavolo, non caso, raggiunge il suo più grande successo quando non è più creduto da nessuno e l’Anticristo il suo culto, come messia di pace democraticamente e globalmente osannato.

E proprio divetissement è lo stesso termine che Pascal amava usare per indicare quella sorta di auto-oblio a cui l’uomo si condanna, per il non senso della vita e per la paura della morte. Un suo celebre aforisma recita: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci».

Con la pandemia qualcosa è cambiato: la distrazione dalla morte e dalla malattia non è stata più possibile perché tutti senza eccezioni sono potenzialmente coinvolti. Ma anche la cura potrebbe essere usata come distrattore. Se “Vincere la pandemia” e “completare la campagna vaccinale” sono espressioni (usate proprio da Draghi come si legge qui) comprensibili e senza ambiguità, quanto a “offrire risposte ai problemi quotidiani” e “rilanciare il Paese” o “abbiamo a disposizione le risorse straordinarie dell’Ue”, si potrebbe temere qualche incertezza sibillina maggiore. Certo, il mercato corre veloce, perché Draghi è espressione diretta di quella logica e di quel potere. E egoisticamente potremmo anche godere di un alter ego di valore rispetto alla Germania e ai titoli di Stato.

Resterà da vedere a lungo termine se sia un re che farà dell’Italia una reggia o un nobile mandato a Versailles – nei cui giardini è famoso il bacino del dragone –, prima della banca rotta (come per la Francia alla morte di Luigi XIV nel 1715).

https://www.sabinopaciolla.com/versailles-draghi-e-la-natura-del-potere/