I CATTOLICI "INQUIETI" DEL '68
Se si vuol capire quali siano le fonti ideologiche del ’68, non basta setacciare la soffitta dei padri nobili e meno nobili del comunismo, del libertarismo, del pansessualismo e dell’occultismo, da Marx a Mao, da Gramsci a “Che” Guevara, da Aleister Crowley a Wilhelm Reich e da Marcuse ai Beatles; bisogna anche esplorare l’altra soffitta, quella che quasi tutti pensano non c’entri nulla, e invece c’entra eccome: la soffitta dei cattolici “inquieti”.
Quelli che spezzano la coroncina del Rosario e la se la gettano sotto i tacchi delle scarpe, gridando: Basta con queste superstizioni da Medioevo!, come padre David Maria Turoldo. Quelli che aizzano il rancore schiumante degli studenti contro i loro insegnanti, accusandoli di ogni possibile nefandezza morale e odio di classe per il fatto imperdonabile che, talvolta, bocciano i più impreparati: come don Lorenzo Milani. Quelli che vedono i comunisti come i naturali compagni di strada dei cattolici, perché accomunati dal medesimo empito di giustizia e libertà: come Dossetti e come La Pira. Quelli che vanno in India e praticano le discipline orientali, e pur facendosi frati trappisti, non smettono un minuto di andare in giro per il mondo a tenere conferenze nelle quali predicano e magnificano l’ecumenismo e il dialogo interreligioso: come padre Thomas Merton. Quelli che dicono: con Marx per la giustizia, con Cristo per l’amore, e intanto praticano “l’amore” seducendo i ragazzini che sono anche loro studenti e più tardi, divenuti ricchi e famosi, pagandosi i servigi dei ragazzi di strada delle borgate romane: come Pier Paolo Pasolini. E quelli che imbracciano il fucile e vanno sulle montagne insieme ai guerriglieri, per abbattere con le armi i governi giudicati nemici del popolo: come Camilo Torres. E quei sacerdoti che si iscrivono alla Facoltà di Sociologia di Trento (voluta dalla DC per plasmare la futura classe dirigente) e stilano roventi documenti anticapitalisti e antiborghesi, denunciando lo sfruttamento di classe e le politiche governative volte a creare l’università classista, chiusa ai figli dei poveri e buona solo per selezionare i futuri oppressori: come avviene a Trento, e come adesso vedremo. Senza scordare che Renato Curcio viene da lì, da quel mondo cattolico inquieto e di sinistra che sogna le pagine gloriose della guerra partigiana e vorrebbe farle rivivere al presente, sempre inseguendo il mito della lotta armata a fin di bene: vale a dire della guerra civile chiamata con altro nome e spacciata quale estrema opzione preferenziale a favore dei poveri, ma sempre sotto l’egida di Gesù Cristo, o giù di lì.
Alle fonti del ‘68: don Milani, Paolo VI, il Vaticano II.
E poi guardiamo le date. Nel 1962-65 si riunisce il Concilio Vaticano II; nel 1968 scoppiano le lotte studentesche e le agitazioni nelle fabbriche. Una coincidenza? Come abbiamo visto, c'erano i preti studenti di sociologia; ma c’erano anche i preti operai. Quelli che avrebbero dovuto portare Cristo nelle fabbriche e che invece stavano portando Marx nelle parrocchie. Nelle città industriali erano delle figure caratteristiche, a Mestre per esempio, presso il polo petrolchimico di Marghera: chi li ha conosciuti in quegli anni li ricorda bene. Del resto, non sono cambiati: sono gli stessi che predicano tutto il giorno il dovere di accogliere i migranti, gli stessi che odiano Salvini e lo descrivono ai loro parrocchiani come un novello Hitler; gli stessi che non spendono mai una parola per i cristiani massacrati in Siria dai tagliagole islamisti (con i soldi e le armi dei democratici americani), ma non esitano a commuoversi e a mettersi perfino in ginocchio di fronte all’atroce morte del martire George Floyd (sebbene sia raro vederli inginocchiarsi davanti al Santissimo, proprio come il loro grande patrono e idolo Bergoglio). Il Vaticano II ha preceduto pertanto il Sessantotto, in tutti i sensi: anche come tecnica della rivoluzione. La rivoluzione ha una sua mistica e una sua tecnica. La rivoluzione nella Chiesa, però, non si fa con le barricate, come nella società civile: si fa in altro modo. Si fa, per esempio, quando un gruppo di vescovi modernisti, che già si tenevano pronti, rifiutano gli schemi preparatori di un concilio e pretendono di riscriverli tutti di bel nuovo: come è accaduto con l’assenso del “papa buono”, Giovanni XXIII, a spese dell’immane lavoro già predisposto dal cardinale Ottaviani, ma soprattutto a spese della normale prassi conciliare. Quella è stata una rivoluzione, in tutto e per tutto paragonabile a quella francese, quando il Terzo Stato si è riunito per conto proprio, con alcuni transfughi della nobiltà e del clero, e si è auto-proclamato Assemblea Nazionale Costituente, mettendo il re Luigi XVI di fronte al fatto compiuto.
Padre David Maria Turoldo spezzò la coroncina del Rosario e se la gettò sotto i tacchi delle scarpe, gridando: "Basta con queste superstizioni da Medioevo!"
Solo che Roncalli non è stato messo di fronte al fatto compiuto: lui sapeva bene quel che bolliva in pentola e ciononostante lo ha avallato e approvato. Il che rende la rivoluzione conciliare ancor più perfida ed efficace, perché una buona parte del lavoro di essa è stato fatto da chi avrebbe dovuto opporvisi, il tutto nella assoluta inconsapevolezza dei più diretti interessati: i fedeli cattolici del mondo intero. Ma è così che si fanno le rivoluzioni: si fa credere alle masse di esser divenute, per un giorno, protagoniste della storia; e intanto un gruppetto di professionisti ne prende le redini, le orienta, le manovra, e infine le spinge a instaurare un ordine nuovo che ben presto farà rimpiangere loro quello vecchio. Così è sempre stato, in tutte le rivoluzioni; altro che movimento spontaneo dei popoli. E così è stato anche per il Vaticano II, di cui la stragrande maggioranza dei fedeli, e perfino la grande maggioranza dei padri conciliari, non avevano compreso assolutamente nulla. Ripetevano le parole d’ordine che erano state loro insegnate e che i volonterosi mass-media, al servizio della grande finanza massonica, ripetevano giorno e notte: ecumenismo, dialogo, apertura, fratellanza; e intanto stavano scavando la fossa alla vera Chiesa e alla vera fede. Stavano alzando bandiera bianca davanti al mondo, dopo aver resistito gloriosamente per duemila anni; ma si credevano vincitori, si credevano all’altezza dei tempi nuovi e non solo del mondo nuovo, ma proprio dell’uomo nuovo, emancipato e adulto, che immancabilmente, come in tutte le rivoluzioni, avrebbe sostituito l’uomo vecchio, fradicio di pregiudizi e di superstizioni. L’uomo nuovo ha anche i suoi antesignani, i suoi precursori, i suoi profeti: e il Concilio ne aveva parecchi, e fra tutti spiccava don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, che ora appariva circonfuso di gloria e quasi in un’aura di persecuzione e di martirio, e veniva promosso al rango di grande educatore, e si guadagnava un posto d’onore in tutti i manuali universitari di pedagogia, donde non avrebbe più sloggiato nonostante il mutar dei tempi e il passar delle mode e la cui opera è divenuta oggetto di reverenti tesi di laurea; mentre l’arcivescovo al quale si era opposto, al quale aveva disobbedito, al quale aveva dato infinite preoccupazioni, e che infine aveva fatto passare per cattivo, carnefice d’un povero prete esiliato e malato, assurgeva a simbolo dell’uomo vecchio, dell’uomo che non capisce il senso della storia, dell’uomo che merita di scomparire (come tipo antropologico, per carità; come individuo fisico, ci avrebbero pensato gli uomini delle Brigate Rosse).
Don Lorenzo Milani: grande educatore o cattivo maestro?
Ha scritto lo storico Angelo Ventrone nel libro Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988 (Roma, Laterza & Figli, 2012, pp. 135):
Se per illustrare le proprie convinzioni non era raro che gli studenti si rifacessero a brani e a riflessioni tratte dalla “Lettera a una professoressa”, ciò dipendeva anche dal fatto che pure nel mondo cattolico e persino tra alcuni sacerdoti circolavamo tesi analoghe. Come, ad esempio, nel documento prodotto da nove sacerdoti iscritti alla Facoltà di Sociologia di Trento, i quali ricordavamo come lo stesso pontefice Paolo VI, nel 1964, durante un discorso al IX Congresso dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (UCID), avesse denunciato che il sistema attuale produceva «disuguaglianze, ingiustizie, prevalenza di interessi particolari su quelli generali, sfruttamento dell’uomo sull’uomo». E avevano concluso: «la concezione dell’unilateralità del possesso dei mezzi di produzione, e della economia rivolta al prevalente profitto privato, non è la pace, non è la giustizia».
Queste tesi erano state poi ribadite nell’enciclica “Populorum Progressio” del 1967, in cui il pontefice aveva affermato che una società che considerava il profitto il «motivo essenziale del progresso economico», la concorrenza «la legge suprema dell’economia» e la proprietà privata dei mezzi di produzione un «diritto assoluto», non avrebbe mai portato all’instaurazione di un sistema a servizio dell’uomo ma, al contrario, a una vera e propria «dittatura […] generatrice dell’”imperialismo internazionale del denaro”».
Per questo, i nove sacerdoti sostenevano con entusiasmo la battaglia degli studenti per la democrazia nella scuola, per l’autonomia della cultura, per il rinnovamento dell’università e della società. [Il documento, datato 7 febbraio 1968, è in: “Università: l’ipotesi rivoluzionaria. Documenti delle lotte studentesche: Trento, Torino, Napoli, Pisa, Milano, Roma”, Padova, Marsilio, 1968, pp. 38-41. Per l’enciclica, cfr. “Populorum Progressio. Lettera enciclica di S. S. Paolo VI sullo sviluppo dei popoli”, Roma, Edizioni Paoline, 1967.]
Dalla Populoroum Progressio a "Fratelli Tutti" e il deragliamento della vera dottrina. Come il Vaticano II ha preceduto il '68 in tutti i sensi: anche come tecnica della rivoluzione !
Ma anche Paolo VI?, chiederà qualcuno meravigliato. È lecito fare questa inferenza, tirare in ballo proprio il Santo Padre che ha firmato documenti come la Dignitas humanae del 7 dicembre 1965, che rompe la continuità di duemila anni di Magistero ecclesiastico? Certo che lo è: appunto per quella rottura, oltre che per numerose altre dello stesso genere. Qui però lo storico Angelo Ventrone punta l’indice contro un altro documento papale, la Populorum Progressio del 26 marzo 1967. Ora, la dottrina sociale della Chiesa non nasce, come i cattolici progressisti s’immaginano e come amano ripetere, come se ripetere una fanfaluca all’infinito valesse ad inverarla, con la Rerum novarum di Leone XIII del 1891, o magari addirittura con la Mater et Magistra di Giovanni XXIII del 15 maggio 1961. Nasce invece con il pensiero di san Tommaso d’Aquino, e prima ancora con quello di Sant’Agostino, e prima ancora con quello di San Paolo: vale a dire che è antica quanto la Chiesa stessa: e la Rerum novarum non ha fatto altro che proporzionarla alle mutate necessità di una società industriale (ma conservando tutto intero l’apparato filosofico tomista, del quale Leone XIII era un grandissimo ammiratore, al punto da prescriverlo come insegnamento fondamentale nei seminari e nelle facoltà teologiche, con l’enciclica Aeterni Patris del 1879: e questa è una cosa che, stranamente, i cattolici progressisti si scordano di menzionare, e sulla quale anzi preferiscono sorvolare del tutto). E la vera dottrina sociale della Chiesa tiene ben fermi due punti fondamentali e assolutamente irrinunciabili: primo, la regalità universale di Cristo, e quindi anche la sua regalità sociale, premessa di ogni ulteriore discorso sull’uomo, sul lavoro, sulla proprietà e sui mezzi e i rapporti di produzione; secondo, lo spirito di collaborazione fra le classi e non già lo spirito di antagonismo, e meno che mai la lotta di classe, la quale mira alla conflittualità permanente e ha per fine la sovversione rivoluzionaria dei rapporti sociali, politici ed economici fra le classi.
Davvero Gesù Cristo è venuto sulla terra per annunciare la buona novella ai poveri, intendendo i “poveri” in senso economico e materiale?
La nota stonata, a ben guardare, si è introdotta nella vera dottrina sociale della Chiesa a partire da quando è stata affermata la centralità dell’uomo: che è una proposizione giusta e condivisibile, se ci si limita alla considerazione delle questioni concernenti il lavoro, la produzione, la proprietà e il profitto; ma acquista un significato fuorviante, se non decisamente falso, allorché la si assolutizza e si mette in ombra il perno di tutta la dottrina cattolica, che è la centralità di Cristo, anzi, come già detto, la sua regalità universale. E dove si trova questa distorsione, questo deragliamento della vera dottrina sociale della Chiesa dai suoi binari perenni, se non nella Populoroum Progressio di Paolo VI? Nella quale si dice, sì (§ 42), che non v’è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, e che l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo; però si dice anche, nello stesso paragrafo, che occorre promuovere un umanesimo plenario. E inoltre che (§ 12) fedele all’insegnamento e all’esempio del suo divino Fondatore, che poneva l’annuncio della buona novella ai poveri quale segno della sua missione, la chiesa non ha mai trascurato di promuovere l’elevazione umana dei popoli ai quali portava la fede nel Cristo. Ma siamo sicuri che in ciò consista la fedeltà, proclamata con tanta enfasi, all’insegnamento e all’esempio del divino Maestro? Davvero Gesù Cristo è venuto sulla terra per annunciare la buona novella ai poveri, intendendo i “poveri” in senso economico e materiale? Ecco: è qui, proprio qui, a nostro avviso, che si può osservare il segno di un sottile, machiavellico tradimento nei confronti della vera dottrina cattolica. È qui, proprio qui, che si osserva l’idea di un Gesù simile al “Che” Guevara, un Gesù Cristo rivoluzionario, caro ai tanti cattolici di sinistra, da Dossetti a Pasolini, stravolgendo il senso complessivo della Rivelazione. Perché quando Gesù parla dei poveri e si rivolge ai poveri, non intende affatto stabilire un’equivalenza meccanica fra povertà materiale e povertà morale. Al contrario: poiché per Gesù è lo Spirito che dà la vita, mentre la carne non giova a nulla (Gv 6,63), è evidente che i “poveri” ai quali si rivolge, e ai quali effettivamente dà la precedenza nella sua missione terrena, sono in primo luogo i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli (Mt 5,3). Ed è qui pertanto che prende avvio la deriva modernista, giunta ora ai limiti estremi con Fratelli tutti.
Alle fonti del ‘68: don Milani, Paolo VI, il Vaticano II
di Francesco Lamendola
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