“In fondo, oggi come ieri, il mondo per tornare a Dio ha bisogno di incontrare uomini e donne come loro [i martiri], che non smettano di annunciare con la propria vita la bellezza di appartenere a Cristo e che come “sale della terra” non abbiano paura di sciogliersi in questo mondo per dare ad esso sapore. È per questo che il cristiano da sempre o è un martire o non è…”
Rilanciamo una riflessione di P. Luigi Polvere icms sulle testimonianze dei martiri per amore a Cristo. La riflessione è stata pubblicata su fcim.it.
Per dimostrare l’esistenza di Dio, san Tommaso d’Aquino aveva esposto la famosa teoria delle “cinque vie”. Egli era convito che come un artista provvede a firmare il proprio dipinto, così Dio avrebbe impresso nell’intera creazione la propria “firma”, al punto che questa sarebbe visibile nelle caratteristiche stesse della natura, che rivelano la Sua straordinaria presenza e permettono all’uomo di incontrarlo.
Non so se sarebbe d’accordo, ma credo che oggi, in un mondo scettico e ostile alla fede, una “sesta via” per riconoscere l’azione di Dio e ritornare a Lui è quella che passa attraverso le storie di tanti uomini e donne che in questo ultimo secolo, hanno firmato con il proprio sangue il loro amore a Cristo, mostrando di essere pronti a offrire la vita pur di non rinnegare la propria fede. Dati alla mano, dobbiamo riconoscere che la storia del Novecento non ci parla soltanto di qualche cristiano coraggioso, ma di un vero e proprio martirio di massa, al punto che, sono stati martirizzati più cristiani nel secolo scorso, che in tutti quelli precedenti. Tuttavia, al di lá dei dati, credo che immergersi nella lettura di queste vite, lasciandosi mettere in crisi dalla loro autentica testimonianza, ci aiuta a riscoprire una verità troppo spesso dimenticata: essere cristiani per davvero significa conformare la propria vita a Cristo crocifisso. Non c’è altro modo di vivere sul serio il cristianesimo. E questa affermazione che potrebbe sembrare a tratti esagerata o irraggiungibile, è in realtà la normale conseguenza di una vita vissuta per amore. Chi ama per davvero non calcola mai, è pronto a dimenticare se stesso e se è necessario persino a dare la vita, come Cristo ha fatto. Il martire cristiano, infatti, non muore per un’idea, né per una religione, non per difendere degli ideali o delle astrazioni, ma per amore, perché messo di fronte all’alternativa se vivere o separarsi da Cristo considera intollerabile una vita senza Gesù, tanto intollerabile da preferire la morte. Come i martiri di Abitene che, uccisi per aver celebrato, contro il divieto imperiale, l’Eucaristia, rispondono serenamente al magistrato “sine Dominica non possumus” e la bellezza di questa frase è tutta nell’assoluto indeterminato di quel “non possumus”. Senza Gesù non possiamo, non possiamo vivere, non possiamo respirare, non possiamo neppure essere. Il martire ha il potere di metterci davanti al senso profondo delle cose, ci ricorda qual è l’Essenziale che non possiamo mai perdere e per cosa vale davvero la pena spendere la vita, perché un uomo che non ha mai avuto qualcosa per cui morire in realtà non ha vissuto mai.
Ma lasciamo ora la parola a due recenti storie di martirio e facciamo parlare la vita che con la sua forza è sempre capace di imprimersi nel cuore molto più delle idee e dei ragionamenti.
La prima storia è di una suora martirizzata in Somalia nel Settembre del 2006, si chiamava suor Leonella Sgorbati. Nasce a Gazzola, nel piacentino, nel 1940 e a 16 anni confida alla mamma di voler andare missionaria. «Ne riparleremo quando avrai 20 anni», commenta mamma; la ragazza non cambia idea e diventata missionaria della Consolata, nel 1970 realizza il suo sogno volando in Kenya.
«Dovremmo avere per voto di servire la Missione anche a costo della vita. Dovremmo essere contente di morire sulla breccia…», diceva il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il beato Giuseppe Allamano. Lei, che lo ama molto e che ne studia la spiritualità per incarnarla nella propria vita, scrive: «Io spero che un giorno il Signore nella sua bontà mi aiuterà a darGli tutto o… se lo prenderà… Perché Lui sa che questo io realmente voglio». Questo suo “dare tutto” passa attraverso il suo “amare tanto”, si concretizza nell’ “amare tutti” e si traduce nel “perdonare sempre”, anche attraverso le fragilità di ogni giorno. A casa sua e in tutte le missioni in cui passa, sono pronti a giurare che il suo biglietto da visita è il sorriso. Se le chiedono: «Perché sorridi anche a chi non conosci?», invariabilmente risponde: «Perché così chi mi guarda sorriderà a sua volta. E sarà un po’ più felice». Nel clima profonda avversione contro i missionari cattolici che attraversa tutta la Somalia, Suor Leonella sa che per lei e le consorelle è pericoloso anche solo attraversare la strada, e ne ha paura, com’è normale: «C’è una pallottola con scritto sopra il mio nome e solo Dio sa quando arriverà», ma con la forza della fede e del suo grande cuore aggiunge sempre: «La mia vita l’ho donata al Signore e Lui può fare di me ciò che vuole». E proprio questo grande cuore viene spaccato il 17 settembre 2006 da una pallottola, sparata a distanza ravvicinata, da due uomini che l’attendono mentre rientra a casa dall’ospedale. Prima che si spenga come una candela, la consorella che le tiene la mano la sente sussurrare distintamente: «Perdono, perdono, perdono». Sono le sue ultime parole, la sua firma sopra il proprio martirio. Ora «Il cielo è senza stelle» dicono i somali quando sanno della sua morte; per noi, invece, c’è una stella in più nella costellazione dei martiri ufficialmente riconosciuti.
La seconda è la storia riguarda un sacerdote Iracheno P. Ragheed Ganni morto il 3 giugno 2007 a soli 35 anni.
Dopo aver celebrato la Messa domenicale viene seguito all’uscita dalla sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul e ucciso da un comando di uomini del Daesh, il sedicente Stato Islamico. «Ti avevamo detto di chiudere la chiesa, perché non l’hai fatto?», gli urlarono. Rispose con semplicità: «La Casa di Dio non si può chiudere». Queste sono le sue ultime parole prima di morire. Nell’Eucarestia padre Ragheed trovava forza e coraggio per andare avanti, con la certezza che «Cristo che con il suo amore senza fine sfida il male, ci tiene uniti e attraverso l’Eucarestia ci ridona la vita che i terroristi cercano di toglierci. Senza domenica, senza l’Eucaristia i cristiani in Iraq non possono vivere».
Ho voluto raccontare queste due storie, perché nelle loro sconvolgente ordinarietà ci ricordano che un martirio, non si improvvisa, non è mai l’atto eroico di un momento, ma scaturisce sempre da un continuo lavoro sul proprio cuore; dalla scelta quotidiana di morire ai nostri egoismi per permettere all’amore di Cristo di possederci e di usarci, convinti che la Sua vita eterna è l’unica in grado di saziarci per davvero. In fondo, oggi come ieri, il mondo per tornare a Dio ha bisogno di incontrare uomini e donne come loro, che non smettano di annunciare con la propria vita la bellezza di appartenere a Cristo e che come “sale della terra” non abbiano paura di sciogliersi in questo mondo per dare ad esso sapore. È per questo che il cristiano da sempre o è un martire o non è…
https://www.sabinopaciolla.com/martirio-una-sesta-via-per-incontrare-dio-firmata-con-il-sangue/
Quella chiesetta armena rasa al suolo dagli islamisti
di Leone Grotti
Gli armeni avevano costruito una chiesetta su un’altura della città di Jabrayil, nel Nagorno-Karabakh. La chiesa era lì prima che l’Azerbaigian vincesse la guerra contro la Repubblica dell’Artsakh e riconquistasse molti territori, tra cui la provincia di Hadrut dov’è situata la città, il 9 ottobre 2020.
Gli islamisti ballano sulla chiesa
Subito dopo la conquista di Jabrayil, è stato diffuso su internet un filmato che mostrava i soldati dell’esercito azero e i mercenari siriani, assoldati dalla Turchia per aiutare l’Azerbaigian a sconfiggere gli armeni, ballare sul tetto della chiesa e rimuovere la campana al grido di «Allahu Akbar». La costruzione della chiesa era iniziata nel 2012 su iniziativa di padre Gevorg Abyan, cappellano militare della brigata di stanza a Mekhakavan (così gli armeni chiamano la città).
La chiesa, costruita con l’aiuto dei soldati, è stata consacrata nel 2017. Ma oggi, come dimostrato dalla Bbc, la chiesa non c’è più. Il corrispondente dell’emittente britannica, Jonah Fisher, si è infatti recato sulla collinetta che la ospitava, trovando solo alcune pietre sparse sul terreno. La chiesa è stata letteralmente rasa al suolo.
Le bugie dell’Azerbaigian
Gli accompagnatori azeri negano con il giornalista che siano stati i loro soldati a distruggerla. Uno di loro afferma: «Gli armeni se la sono distrutta da soli». Anche Hikmet Hajiyev, collaboratore del presidente azero Ilham Aliyev, nega che la chiesa sia stata distrutta, nonostante il giornalista mostri il video dei soldati che ballano sulla chiesa, realizzato dopo la fine della guerra.
Foto satellitari hanno recentemente dimostrato che anche la “Green Church” di Shushi è stata distrutta. Allo stesso modo, la chiesa di Cristo San Salvatore nella stessa città è stata danneggiata durante la guerra e vandalizzata dopo la fine delle ostilità.
La storia degli armeni si ripete
A giudicare da come i soldati azeri si comportano nei confronti degli edifici storici e sacri armeni, non è difficile comprendere perché nessun armeno costretto all’esilio ha risposto positivamente all’invito del presidente Aliyev di tornare a vivere nelle loro case, passate ora sotto il controllo del paese islamico.
Il tentativo da parte dell’Azerbaigian di cancellare ogni traccia del patrimonio storico degli armeni è una storia antica. Non si può dimenticare infatti che nel Nakhichevan, tra il 1998 e il 2005, gli azeri distrussero la maggior parte di circa 2.500 khachkar, le tradizionali croci di pietra, considerate tra le manifestazioni più alte del patrimonio religioso armeno, riconosciute nel 2010 Patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
La distruzione della chiesa di Jabrayil dimostra ancora una volta che l’Azerbaigian si è laureata con ottimi voti alla scuola del suo principale alleato, la Turchia. Gli ottomani, infatti, e i loro successori distrussero la maggior parte di circa 2.000 monasteri e chiese nell’Armenia Occidentale. Per non parlare ovviamente del genocidio di un milione e mezzo di armeni. La storia continua.
Fonte: tempi.it
https://www.aldomariavalli.it/2021/03/26/quella-chiesetta-armena-rasa-al-suolo-dagli-islamisti/
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