“Non abbandonarci alla tentazione”, ovvero quando la pezza è peggiore del buco
Gerarchia delle fonti e “illegittimità” della traduzione della Cei
Vorrei affrontare la questione della nuova traduzione del Padre nostro proposta dalla Cei partendo non dall’esegesi del testo originale greco, ma dall’analisi della gerarchia delle fonti deputate a “normare” il diritto divino positivo (quello, cioè, che ci arriva per il tramite della Rivelazione e della Tradizione) e di cui la Chiesa cattolica è depositaria.
Il principio giuridico della “gerarchia delle fonti” sancisce che una norma di grado inferiore non può contrastare con una norma di grado superiore; e che nel caso in cui avvenga un tale contrasto si deve dichiarare l’invalidità della norma emanata dalla fonte gerarchicamente inferiore.
Trattasi di un principio di buon senso, vigente negli ordinamenti giuridici degli Stati, che vale anche per quelle fonti normative che attengono al diritto divino positivo.
Nella religione cattolica apostolica romana il ruolo di fonte primaria spetta, ovviamente, alle norme manifestate nella Rivelazione divina, ricavabili dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
Tali norme trovano la loro esposizione ufficiale nel Catechismo della Chiesa cattolica che è la sintesi di tutta la dottrina cattolica ed ha una valenza universale; per siffatta ragione nella gerarchia delle fonti del diritto divino positivo, il Catechismo occupa il ruolo di fonte primaria subordinata soltanto alle Sacre Scritture.
Il testo vigente del Catechismo della Chiesa cattolica fu approvato in forma definitiva nel 1997: esso è il frutto del lavoro di una commissione speciale indetta da papa Giovanni Paolo II e presieduta dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cardinal Joseph Ratzinger.
In quanto fonte universale di grado superiore subordinata soltanto alle Sacre Scritture, il Catechismo della Chiesa cattolica non può essere contraddetto da fonti di grado inferiore, tanto più se queste hanno una limitata valenza territoriale: è il caso, per esempio, dei documenti promulgati dalle Conferenze episcopali nazionali alle quali sono delegate alcune funzioni che interessano la vita delle chiese locali limitatamente al territorio di loro competenza.
È, dunque, possibile che le singole Conferenze episcopali nazionali contraddicano quanto statuito dal Catechismo della Chiesa cattolica?
La risposta è ovviamente negativa per due motivi; in primis perché il Catechismo occupa il ruolo di fonte primaria di portata universale, mentre le Conferenze episcopali sono fonti di grado inferiore di limitata portata territoriale e con funzioni preminentemente pastorali; in secundis perché la presenza di due interpretazioni contrapposte su un tema che è oggetto della Rivelazione divina è in sé stessa una contraddizione insanabile che crea confusione nel popolo dei fedeli e che inficia l’ortodossia delle Verità rivelate.
Ora, nel caso di specie è accaduto che la Conferenza episcopale italiana, nel corso dell’Assemblea generale straordinaria del 12-15 novembre 2018, ha approvato una nuova versione dell’edizione italiana del Messale Romano che, poi, è stata promulgata dal presidente della Cei l’8 settembre 2019.
Come è noto, questa edizione italiana del Messale Romano propone una nuova traduzione del testo del Padre nostro, e precisamente: l’invocazione “non ci indurre in tentazione” è stata sostituita dal “non abbandonarci alla tentazione”.
Accantonando per il momento la questione relativa all’esegesi della traduzione proposta dalla Cei, vorrei focalizzare l’attenzione del lettore sul dettato del Catechismo della Chiesa cattolica che – lo ripeto! – nella gerarchia delle fonti concernenti il diritto divino positivo occupa un ruolo superiore e universale rispetto a quello inferiore e parziale occupato dalle Conferenze episcopali nazionali, Cei compresa.
Orbene, consultando il testo del Catechismo della Chiesa cattolica estrapolato dal sito Internet ufficiale della Santa Sede ( http://www.vatican.va/archive/catechism_it/index_it.htm ), noteremo come alla Sezione II dal titolo: La preghiera del Signore: «Padre nostro», il comma VI dell’articolo 2 così recita: «Non ci indurre in tentazione».
Addentrandosi, poi, nel contenuto del comma VI, il Lettore constaterà come il significato dell’invocazione «Non ci indurre in tentazione» viene con chiarezza spiegato: significato che è ben diverso da quello che ci propone la traduzione della Cei!
Ora, alla luce di quanto sopra esposto, se ne deduce che esistono e convivono due versioni del Padre nostro: una contenuta in una fonte primaria di portata universale che è il Catechismo della Chiesa cattolica ed un’altra approvata da una fonte secondaria con limitata valenza territoriale che è la Conferenza episcopale italiana.
Posto che le due versioni sono in palese contrasto tra di loro, quale delle due fa fede?
La domanda non è di secondaria importanza poiché si tratta di capire quale delle due traduzioni è fedele agli insegnamenti del Divin Maestro e quale, invece, è frutto della manipolazione degli uomini.
Se la Santa Sede fosse dotata di una Corte costituzionale con il compito di verificare la legittimità delle decisioni assunte delle fonti normative di grado inferiore (in questo caso dalla Cei) rispetto ai contenuti presenti nelle norme gerarchicamente superiori (in questo caso il Catechismo della Chiesa cattolica), allora la traduzione del Padre nostro proposta dalla Cei sarebbe stata senza ombra di dubbio dichiarata “costituzionalmente illegittima” sia nel merito (traduzione errata del testo evangelico) sia per vizio di competenza (ente territoriale che legifera su temi di portata universale che non gli competono)!
Purtroppo la Santa Sede non è datata di un organo super partes preposto a vagliare sulla legittimità delle decisioni assunte da organi di grado inferiore rispetto a quanto statuito da norme di grado superiore, e questo consente l’aberrazione odierna che permette la contemporanea presenza di due differenti traduzioni del Padre nostro: una, contenuta nel Catechismo universale della Chiesa cattolica che riporta fedelmente le parole pronunciate da Cristo, e l’altra contenuta nell’edizione italiana del Messale Romano che riporta il pensiero del cardinal Bassetti: con buona pace degli inconsapevoli fedeli di lingua italiana che, a loro insaputa, attribuiscono a Nostro Signore una invocazione che Egli non ha mai pronunciato.
Una traduzione palesemente errata
Entriamo ora nel merito della traduzione del Padre nostro della Cei che stride con il testo presente nel Catechismo della Chiesa cattolica.
Se, per speciale grazia, potessimo rivolgerci direttamente a Nostro Signore e chiedere che cosa pensa della nuova versione italiana del Padre nostro, probabilmente ci risponderebbe così: “Voi pensate che il Padre mio che è nei Cieli possa davvero abbandonarvi anche per un solo istante? E davvero credete che il Figlio dell’Uomo possa avervi lasciato un simile insegnamento?”
Come non dargli ragione? Quando mai, infatti, il Padre Celeste abbandona i suoi figli, cioè noi uomini? Non lo ha mai fatto e non lo farà mai perché sarebbe contro la sua stessa natura che è l’Amore infinito per le sue creature!
Dio non abbandona l’uomo in nessun istante della sua vita: non lo abbandona durante la gestazione, non lo abbandona durante il parto, nel tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, non lo abbandona nell’età adulta e nella vecchiaia; Dio non abbandona l’uomo nella sofferenza, non lo abbandona nella malattia, non lo abbandona quando si allontana da Dio e addirittura quando lo rinnega o gli è avverso; meno che mai Dio abbandona l’uomo quando questi è nel peccato, cioè quando egli è sedotto dalle tentazioni del maligno! Non lo abbandona, infine, nell’agonia e nella morte. E Dio non abbandona l’uomo neppure dopo l’estremo passo: infatti è sicuramente insieme a lui nella gloria eterna, ma soprattutto non lo abbandona nel tempo della purificazione, quando l’anima sconta gli errori commessi in vita e si prepara ad entrare nella Luce di Dio.
L’unico momento in cui il Padre Celeste è, suo malgrado, costretto ad abbandonare l’uomo è quando l’anima di questo si danna per l’eternità: sicuramente, però, si tratta di un abbandono che non equivale al disinteresse di Dio verso la sua creatura, ma all’impossibilità di fare qualcosa, poiché la dannazione eterna è una libera scelta dell’anima dannata che definitivamente ed irrevocabilmente decide di rinunciare a Dio.
Se tutto questo è vero (e chi può sostenere che non lo sia?) c’è allora da domandarsi che senso abbia rivolgersi a Dio pregandolo di “non abbandonarci alla tentazione”.
Infatti, non ha alcun senso, così come non avrebbe senso invocarlo con la preghiera: “Padre, amaci” oppure “Signore non dimenticarti di noi” perché è già insito nell’essenza stessa di Dio che Egli “ci ama” e che Egli “non ci dimentica” allo stesso modo come Egli “non ci abbandona in alcuna circostanza, meno che mai quando siamo tentati dal demonio”!
E allora?
Allora quella della Cei è un’interpretazione non all’altezza della preghiera nella quale essa viene maldestramente incastonata.
Innanzitutto, va subito precisato che quella della Cei è un’interpretazione partigiana e non, invece, una traduzione condivisa: infatti, fior di biblisti e teologi hanno speso fiumi di inchiostro per spiegarci che il testo greco del Padre nostro (che è quello che riporta le esatte parole di Cristo) non fa alcun riferimento né al termine “abbandonare” né a quello di “tentazione” inteso nell’accezione negativa italiana odierna.
L’invocazione che ci insegno Gesù è, infatti, quella custodita nella frase greca “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν” (kài mè eisenènkes hemàs eìs peirasmòn) dove il verbo “eisenekes” significa “portare verso, portare dentro”, mentre il sostantivo “peirasmón” significa “prova, esame”: Cristo, pertanto, ci invita a chiedere al Padre di “non portarci dentro la prova” che nell’italiano corrente potremo tradurre in “non introdurci nella prova” o meglio “non metterci alla prova”.
Questa premessa serve a farci comprendere perché san Gerolamo, che nel IV secolo tradusse il Padre nostro dal greco al latino, usò correttamente l’espressione “ne non inducas in tentationem” dove il verbo “in-ducere” significa correttamente “portare / condurre dentro” e l’accusativo “tentationem” significa “prova”.
Quindi i significati letterali sia del testo greco sia di quello latino risultano perfettamente allineati e inequivocabilmente ci riportano il pensiero espresso da Gesù: ne consegue che la traduzione italiana più corretta, che rimane fedele al testo originale greco, è quella a cui siamo sempre stati abituati: “non ci indurre in tentazione” dove il vocabolo “tentazione” va inteso non nell’accezione negativa che gli attribuisce la lingua italiana corrente, ma nel significato originale del sostantivo latino “tentatio”, cioè “prova”, “esame”; significato che, peraltro, non è ancora del tutto scomparso anche nella lingua italiana dei nostri giorni: infatti il verbo italiano “tentare” (che anch’esso affonda le proprie radici nel vocabolo latino tentatio) conserva i tre significati di “provare” di “mettere alla prova” e di “tentare” (in senso positivo); così come il sostantivo italiano “tentativo” (anch’esso derivato dal termine latino tentatio) significa “prova” e null’altro.
A questo punto la domanda che dobbiamo porci è la seguente: “Ha senso affermare che Dio ci mette alla prova?”
La risposta non può che essere positiva, tenuto conto che Dio più di una volta ha messo alla prova (ha tentato) l’uomo: infatti, la tentazione (la prova) nel linguaggio biblico esprime la pedagogia propria di Dio Padre nei confronti degli uomini: “Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là” (Sapienza 3, 5-7).
E ancora: nel capitolo secondo del libro del Siracide la prova (tentazione) suprema che il credente deve affrontare è proprio quando si presenta al cospetto di Dio per rendergli culto: “Fili, accedens ad servitutem Dei sta in iustitia et timore et praepara animam tuam ad tentationem”, cioè: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla prova (alla tentazione)”.
Per non parlare di Genesi 22, quando il Signore chiede ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco: ora immaginate lo stato d’animo di quel padre a cui viene chiesto di uccidere il proprio figlio! Non è forse questa una prova (e che prova!) per saggiare la fedeltà di Abramo?
Allo stesso modo, nel capitolo primo del libro di Giobbe, Dio dà a Satana il permesso di tentarlo e provarlo.
E Matteo narra nel capitolo quarto del suo Vangelo che lo Spirito Santo condusse Gesù nel deserto perché fosse tentato dal demonio.
E ancora san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi dice: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia”.
Ecco, pertanto, abbondantemente dimostrato come Dio mette alla prova anche quando questa prova è una “tentazione”: infatti la prova, la tentazione, l’esame – i quali hanno come corrispettivo la correzione, il ravvedimento, il giudizio – sono gli elementi costitutivi del rapporto Padre-figli e Dio-credenti.
Dio ci tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Questo è il modo con cui spiegare il giusto significato dell’invocazione “non ci indurre in tentazione”.
Alla luce di quanto fin qui riportato si evince, dunque, che la scelta compiuta da vescovi italiani di alterare il testo liturgico del Padre nostro non corrisponde ad alcuna logica né esegetica né teologica: è frutto, invece, di un relativismo materialista e mondano che, al pari di una metastasi, si sta diffondendo all’interno della Chiesa quasi che ad operare nell’oscurità e sottotraccia sia colui che Cristo definì il principe di questo mondo.
L’errore nell’errore: la scelta di “alla” tentazione anziché “nella” tentazione.
Un’ultima riflessione va fatta in merito alla preposizione “alla” che i traduttori della Cei hanno preferito alla preposizione “nella” per introdurre la parola “tentazione”.
Perché ai fedeli di lingua italiana viene chiesto di recitare “Non abbandonarci alla tentazione” e non invece “Non abbandonarci nella tentazione”?
La differenza tra le due preposizioni sembrerebbe irrilevante, ma non è così. Soprattutto se Colui al quale ci si rivolge è Dio.
È il caso di dire che tra due mali (cioè tra le due traduzioni entrambe errate) la Cei ha scelto il male peggiore.
Analizziamo ora le due invocazioni, cominciando da quella che la Cei ha escluso per poi concludere con quella che ha adottato.
Ebbene: l’invocazione “non abbandonarci nella tentazione” significa chiaramente chiedere a Dio di non abbandonarci ogni qualvolta noi ci troviamo nella tentazione del peccato; Dio, in questo caso, è un soggetto esterno al quale domandiamo di intervenire presso di noi con l’azione del “non abbandonarci”. Presupposto ovvio di questa situazione è che nella tentazione o ci siamo caduti da soli o ci ha spinto il maligno; certamente non ci ha condotto Dio.
L’invocazione che stiamo analizzando – quella del non abbandonarci “nella” tentazione – presuppone che la posizione di Dio sia “statica”: infatti, il “nella” implica uno “stato in luogo”; è la condizione di un Padre che viene invitato a stare vicino al figlio mentre questo vive il travaglio del peccato e lo aiuta ad uscirvi o, comunque, a non sprofondarvi oltre.
Il discorso cambia radicalmente nel caso della seconda invocazione – quella adottata dalla Cei – con la quale chiediamo a Dio di “non abbandonarci alla tentazione”.
In questo caso noi chiediamo a Dio di non farsi parte attiva di un’azione contro di noi, quella cioè di “abbandonarci a qualcosa”.
Infatti, in questa invocazione Dio diventa il soggetto attivo dell’azione perché è lui che agisce in un contesto di “moto a luogo” dove noi diveniamo i soggetti passivi che subiscono la scelta di Dio di “spingerci” nella tentazione.
Ed è proprio quello di “non spingerci verso qualcosa” il significato dell’invocazione che noi rivolgiamo a Dio perché il verbo composto “abbandonare alla” assume il significato negativo di “spingere”, “gettare” o “scaraventare” qualcuno dentro qualcosa.
Non è un caso che le espressioni “abbandonare al proprio destino” così come “abbandonare al saccheggio” o ancora “abbandonare al degrado”, “abbandonare al nemico” oppure “abbandonare ai flutti” rendano tutte bene l’idea di un gesto di disprezzo o di distacco (e, comunque, sempre negativo) che volge in capo a chi lo commette e ai danni di chi lo subisce.
Implorare Dio di “non abbandonarci alla tentazione” significa innanzitutto attribuire al Creatore la capacità di un gesto malevolo nei confronti dell’uomo: quello, cioè, di spingerlo verso il peccato, ma in questo caso senza l’attenuante benevola della paterna pedagogia che illuminava l’invocazione tradizionale “Non ci indurre in tentazione” cioè “Non metterci alla prova”
E in secondo luogo significa mettere sullo stesso piano l’azione di Dio e quella del demonio poiché lo scopo di quest’ultimo è quello di “abbandonare alla” tentazione l’uomo, cioè di spingerlo dentro il peccato.
E questa, ovviamente, è una bestemmia!
La scelta della Cei di optare per questa seconda versione non solo non rende giustizia alle parole di Cristo, ma addirittura ha peggiorato – e di molto! – la situazione che si proponeva di sanare: quella, cioè, di chiarire il vero significato dell’invocazione “ne nos inducas in tentationem” che la traduzione italiana, a causa dell’evolversi della lingua, non riusciva più a cogliere nella sua originale accezione latina e prima ancora greca.
È proprio il caso di dire che con questa nuova traduzione del Padre nostro la Cei ha messo una pezza che è peggiore del buco: la versione errata va, pertanto, non accolta ed anzi disattesa.
Come?
O recitando il Pater noster in latino, che era e rimane la preghiera della Chiesa universale e che né il cardinal Bassetti né altri fantasiosi novatori hanno osato profanare; oppure recitando il Padre nostro italiano “in formula Christi”, cioè come ce l’ha insegnato Nostro Signore e come ce l’hanno trasmesso i nostri genitori e i nostri nonni e quella folta schiera di papi, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici che ci hanno preceduto nei secoli passati: possibile che tutti costoro si siano sbagliati?
Il solo ipotizzarlo equivarrebbe a darla vinta allo “spirito di confusione” che ormai aleggia ovunque e questo non dobbiamo permetterlo!
di Lorenzo Gnavi Bertea
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