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domenica 4 aprile 2021

Un Messia che sconvolge gli schemi mentali dominanti nell’antico Israele

 PESACH/PASQUA 

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PESACH/PASQUA – NECESSITA’ DELLA RESURREZIONE DEL CUORE

Il nostro termine Pasqua, come è noto, deriva dall’ebraico “Pèsach” che designava la memoria del “passaggio” del popolo israelita dall’Egitto, luogo simbolo di cattività, alla terra promessa.

Nell’interpretazione ebraica dell’evento biblico, in questione, ha sempre prevalso una intonazione a carattere nazionale benché successivamente allargata a favore di una concezione universalistica mediante la modificazione, postbiblica, del messianismo ebraico che, nei secoli della diaspora dopo l’anno 70 d. Cr., iniziò a trasformarsi in un messianismo a carattere “collettivo”. Perduta la speranza nel Messia personale – conseguenza delle ripetute delusioni nei diversi personaggi, che costellano la storia ebraica, propostisi di volta in volta come “messia” e puntualmente falliti con esiti tragici per gli ebrei, da Simon Bar Kokheha (il “figlio della stella”) nel I secolo, a Sabbatai Zevi, nel XVII secolo, fino a Jacob Frank, nel XVIII secolo – il popolo ebreo iniziò a reinterpretare le profezie messianiche della Bibbia applicandole a sé medesimo. In tal modo nell’ebraismo contemporaneo è prevalsa l’idea che quello ebraico sia un popolo messianico, destinato a salvare il mondo con le sue sofferenze, e che le Scritture, laddove annunciano il Messia, non si riferiscono ad una persona singola ma appunto al popolo israelita.


Lo dice apertamente, tra gli altri, uno dei massimi esponenti dell’ebraismo postbiblico novecentesco, Dante Lattes, nella sua “Apologia dell’ebraismo”: «Il messianismo ebreo, raffigurato dapprima nella persona di un uomo, nel quale la giustizia si afferma e concreta, diventa ed è un’idea: l’idea dell’avvenire, l’idea dell’anelito umano, individuale e collettivo, verso l’affermarsi della giustizia e della religione nella storia. La coscienza collettiva ebraica si raccoglie e si appunta verso quell’alba di redenzione in cui il male non regnerà più sulla terra. Non è più la persona o le persone, ma il tempo e il fatto che contano. L’umanità si muove verso quella realtà con la sua fatica. Il messia sta venendo continuamente. (…). Il Messia-Uomo dei tempi eroici, l’uomo ideale del futuro, il Figlio di David [quello cioè atteso dal popolo ebreo veterotestamentario, ndr] diventa il Popolo-Messia. Israele è il “servo di Dio” che soffre per la salute del mondo, per la conversione del mondo» (1).

Alla luce di questa concezione del messianismo si comprende il motivo per cui un evento senza dubbio tragico ma del tutto profano e secolare come il genocidio nazista è stato rivestito di carattere sacrale fino ad assurgere alla valenza di “Olocausto”. In questa prospettiva è il “Popolo-Messia” che, sacrificandosi, ha salvato il mondo dal “male assoluto”. Auschwitz sostituisce il Golgota e la Croce. Così, a ben vedere, parallelamente al processo di scristianizzazione delle antiche nazioni cristiane, inaugurato dalla modernità, si è gradualmente affermata in Occidente, in alternativa al Cristianesimo, una nuova religione ufficiale. E questa sostituzione si è realizzata nonostante che l’Occidente sia apparso nella storia, tra XVI e XX secolo (prima non esisteva l’Occidente moderno come lo conosciamo noi), proclamando la “laicità”, la neutralità religiosa e l’“aconfessionalità” dello Stato.

Come è evidente l’interpretazione ebraica del messianismo è totalmente divergente da quella cristiana che, invece, è rimasta in linea con il suo primordiale significato che gli stessi ebrei, un tempo, coglievano nell’Antico Testamento ossia quello della promessa di un Messia redentore e salvatore che sarebbe concretamente apparso nella storia come un uomo o, meglio, un “Figlio dell’Uomo” con tutto il significato metafisico, trascendente e mistico che ha, nella Scrittura, tale espressione, da Cristo ripetutamente applicata a Sé medesimo. Gli ebrei antichi, tuttavia, aspettavano il “condottiero della nazione” – che li avrebbe liberati dai pagani, stranieri e oppressori, ai tempi di Gesù identificati con quei romani con i quali invece (si pensi al centurione in Matteo 8,5-13) il Nazareno intratteneva rapporti scandalosi per l’élite sinedritica – mentre Cristo appare come un Messia del tutto inaspettato secondo i canoni dell’attesa ebraica. Una differenza comprensibile soltanto alla luce del disegno di salvezza universale, sul quale san Paolo, ebreo e cittadino romano, avrebbe poi riflettuto nelle sue Lettere, in particolare in quella ai Romani, giungendo alla conclusione che fosse necessario che anche i gentili entrassero nell’Alleanza di Abramo, benché al temporaneo prezzo della rescissione di Israele dall’Olivo Santo.

«Il fatto è che Gesù – scrive Vittorio Messori – è un Messia che sconvolge gli schemi mentali dominanti nell’antico Israele. La figura messianica era (ed è tuttora) oggetto per l’ebraismo di aspettative contrastanti. Non potrebbe essere altrimenti, visto il numero di attributi contraddittori che le profezie accumulano sul misterioso Atteso. E’ indubbio però che, alla certezza che un enigmatico personaggio sarebbe uscito da loro e che avrebbe realizzato un piano mondiale, gli ebrei (e non solo quelli del primo secolo) affiancavano l’opinione che quello messianico sarebbe stato un “Regno” nel senso pieno della parola. Terreno, potente, con Israele arbitro e padrone di molte genti. Conferma Epstein, il professore del Jews’ College, a proposito della lettura ebraica delle profezie che “i riferimenti al Messia … riguardano essenzialmente un futuro terreno. E il felice futuro delle profezie non era visto soltanto nell’interesse religioso”. Del resto, che questa fosse l’aspettativa generale è confermato anche dalla storia: centinaia di presunti Messia sorsero nell’ebraismo e ciascuno tentò di mettersi a capo di un movimento religioso e nel contempo politico-militare. Ogni volta, tutto finì nella tragedia. (…) alcuni di (questi) … pseudo Messia … proprio attorno ai tempi di Gesù mostrano quale fosse il tipo di attesa. Lo stesso Nuovo Testamento trabocca dell’impazienza delle folle e degli stessi discepoli che vogliono creare un Regno glorioso con la spada. E gronda della delusione per questo Messia che vieta persino di difendersi, che raccomanda prudenza per non eccitare l’entusiasmo patriottico, che sceglie quella via particolare di gloria che passa attraverso l’umiliazione e la sofferenza» (2).

Un Messia, dunque, che a differenza degli altri presunti tali, i quali avevano brandito la spada nel tentativo di realizzare il Regno di Dio in terra, ha invece insegnato che il suo Regno non è di questo mondo. E’ noto come Pilato fosse mosso da una personale indulgenza verso Cristo e che cedette soltanto sotto la pressione del Sinedrio. Il quale dal canto suo voleva la morte di Gesù perché da un lato, interpretando le profezie secondo la prospettiva mondana dell’ebraismo, non ne comprendeva la prospettiva messianica trascendente e dall’altro perché temeva che egli, con il seguito popolare che riscuoteva, avrebbe potuto provocare l’intervento armato dei romani e la fine del Tempio (come poi accadde nel 70 d.C. ma non per colpa di Gesù). Quella di Pilato era una indulgenza indotta non solo dalle raccomandazioni di sua moglie, Claudia Procula, la quale dopo un sogno lo aveva ammonito di non aver a che fare con quel Giusto, ma soprattutto dal fatto che, nell’interrogatorio, egli si rese conto che Gesù non era affatto un pericolo politico per Roma. Come ha messo in rilievo la storica Marta Sordi (3), l’Autorità romana, dei tempi di Tiberio, intervenne più volte a difesa dei primi cristiani, ferocemente vessati e perseguitati, come eretici, dalle autorità religiose ebraiche. Non si trattava soltanto di tutela dell’ordine pubblico perché l’Autorità romana aveva compreso che la nuova “setta” dei nazareni si poneva verso Roma in modo del tutto diverso dall’atteggiamento riottoso ed ostinato degli ebrei, del tempo, in fregola nell’attesa messianica per la liberazione dal giogo romano. Sicché agli occhi di Roma i nazareni potevano essere un utile strumento politico, per sedare l’endemico stato di strisciante rivolta in Palestina. Da qui il favore dell’Autorità imperiale verso i primi cristiani. Anzi, pare che nelle stesse persecuzioni successive ci fosse la pressione sull’Autorità romana da parte della diaspora ebraica. Dietro la persecuzione di Nerone si nasconde, con ogni probabilità, il suggerimento di Poppea, moglie dell’imperatore, di addossare ai cristiani di Roma la colpa dell’incendio dei quartieri popolari dell’Urbe, che l’opinione pubblica del tempo imputava allo stesso Nerone. Poppea era da tempo una proselita pagana dei rabbi della sinagoga di Roma e probabilmente nutriva una particolare avversione verso quegli “eretici” che, in quei primi decenni, predicavano in tutte le sinagoghe sparse nell’impero ma con scarsi risultati per esserne, anzi, quasi sempre cacciati in malo modo (4).

«Le fonti del II secolo – scrive la Sordi –, Giustino (I Apol. 35 e 48) e Tertulliano (Apol, V, 2 e XXI, 24) accennano ad un relazione di Pilato a Tiberio sulle vicende di Gesù e sul diffondersi della fede nella sua divinità in tutta la Palestina e i cronisti dipendenti da Eusebio datano l’arrivo a Roma di questa relazione nel 35 d.C.. L’esistenza di questa relazione, troppo frettolosamente confusa con i falsi leggendari elaborati in tarda età e giunti fino a noi, fornisce l’anello mancante che collega l’abuso compiuto da Caifa e dal sinedrio nel 34 con l’esecuzione di Stefano e la punizione da parte romana dell’abuso stesso nel 36/37: Pilato, che non aveva sentito la necessità di informare il suo imperatore del processo di Cristo, terminato con un’esecuzione legale anche se ingiusta, dovette informarlo quando, con la diffusione in tutta la provincia della nuova fede, si trovò davanti all’esasperata intransigenza del sinedrio e a processi e ad esecuzioni abusive, che rischiavano di coinvolgere un gran numero di persone nella Giudea e nelle regioni vicine. Data la convinzione che Pilato stesso aveva maturato durante il processo di Gesù dell’inconsistenza dell’accusa politica e dell’innocenza del Crocifisso (l’insostenibilità delle ricostruzioni opposte su questo punto alla tradizione evangelica [oggi molto di moda ed accreditate, senza prove, per addossare la responsabilità dell’evento sui romani in un infondato tentativo di decostruzione della narrazione cristiana originaria; ndr] ci permette ormai di confermare la validità di questa tradizione) è probabile che questa relazione, a cui gli autori cristiani del II secolo facevano appello, fosse effettivamente favorevole ai cristiani e che mettesse in rilievo l’inesistenza nella nuova fede di pericoli di natura politica. Il “Pilato già in sua coscienza cristiano” di Tertulliano (Apol. XXI, 24) si spiega forse con una relazione di questo tipo, senza bisogno di postulare la conversione di Pilato. Informato sugli sviluppi della situazione in Giudea, Tiberio decise di intervenire: in effetti la notizia di una nuova “setta” giudaica, osteggiata dalle autorità ufficiali, ma accolta da una parte del popolo, la cui diffusione eliminava nel messianismo ogni violenza politica e antiromana e ne accentuava invece il carattere religioso e morale, non poteva che interessare Tiberio, la cui principale ambizione era quella – lo sappiamo anche da Tacito (Ann, VI, 32,1) e proprio nel racconto relativo al 35 – di risolvere le controversie esterne “consiliis et astu”, con l’astuzia e l’abilità diplomatica, piuttosto che con le armi e la repressione» (5).

Dunque il diverso messianismo della fede cristiana fu ben visto da Roma, adempiendosi così la profezia di Daniele sulle “settanta settimane” e i quattro imperi, di cui l’ultimo coincide temporalmente con il romano, che si sarebbero imposti sulla scena storica prima dell’arrivo del Messia. Gli imperi antichi aspiravano, quasi una nostalgia dell’unità sacrale primigenia dell’umanità, all’inclusione di tutti i popoli nell’orbe imperiale intorno all’Autorità/Potere universale. Ciò che nel Medioevo si chiamò “Ordinatio ad Unum”. Su questa base, la patristica cristiana ha considerato l’ellenismo romanizzato una “praeparatio evangelica” in vista dell’Incarnazione puntualmente avvenuta sotto la “Pax Augustea”, ossia “quando tutti i popoli della terra erano in pace”. Il destino romano della fede cristiana, la quale altro non è che l’universalizzazione del vero ebraismo, fu chiaro sin dall’inizio e per questo, alcuni secoli dopo, Dante poté cantare “quella Roma onde Cristo è romano” (Purgatorio, canto 32, vv. 100-102) identificando addirittura il Paradiso con la “romanità” di Cristo. Tuttavia, nell’immediato della Crocifissione, a viste umane Cristo sembrava un fallito. Ma mentre degli altri presunti messia apparsi nella storia ebraica, travolti dal fallimento politico-militare, è svanito lungo i secoli persino il ricordo, solo Gesù Cristo, tra tutti, ha in realtà vinto benché non secondo le prospettive mondane dell’ebraismo del suo tempo e – a parte la questione del Messia persona o popolo – anche di quello di oggi.

«Tra i tanti Messia d’Israele – scrive ancora Vittorio Messori  – , questo dunque non solo è l’unico che abbia successo “pur avendo scelto la via per fallire umanamente” (Pascal). E’ il solo che superi l’incapacità dell’antico Israele di distinguere tra storia religiosa e storia politica. E’ “l’eletto di Javhé” che (come profetizza … Isaia, cap. 42) “non griderà e non farà clamore” nell’apportare “il diritto alle nazioni”. Pur nelle infinite interpretazioni che davano ai passi messianici, i giudei attendevano “Qualcuno” che fosse nello stesso tempo re terreno e gran sacerdote. L’aspettativa generale, cioè, andava nella direzione opposta a quella seguita da Gesù. Anche in questo senso egli è, per i credenti, l’unico “cifrario” valido per interpretare il rebus messianico, l’atteso da Isaia che “con fermezza promuoverà il diritto” pur “non spezzando la canna fessa né spegnendo il lucignolo fumigante”. (…). Gesù non è però solo colui che … porta… soluzione all’enigma di un “uomo dei dolori” che è innalzato nel contempo alla gloria del regno. Il regno che sceglie per sé è anche l’unico che accampi davvero diritti “per iscrivere in eterno il suo dominio nel cuore degli uomini”. Come le profezie tante volte avevano annunciato. Passano i grandi imperi. Anche l’Egitto, Babilonia e Roma finiscono in rovina. Nei venti secoli ormai trascorsi dall’apparire di questo Messia, il suo regno ha dimostrato di essere l’unico che non possa finire» (6).

Come Andrea, uno dei discepoli di Giovanni Battista, che intuì per primo di aver trovato in Gesù il Messia (Gv. 1,35-42), così i primi cristiani compresero immediatamente che quello da Lui inaugurato è un Regno Eterno ed Universale, benché non di questo mondo. Anzi che è tale proprio perché non è di questo mondo, sicché, come avrebbe insegnato Agostino d’Ippona, la civitas terrena, politica, che è di natura, sospesa tra Amor di Dio ed amor proprio, è sempre di fronte alla scelta tra la Civitas Dei, nella misura in cui la debole natura umana le consente di conformarsi a quel Regno, e la civitas diaboli, nella quale si trasforma quando lo rinnega. Una scelta che passa per la metanoia del cuore, la quale non si ottiene senza preghiera e vita sacramentale.

Uno tra i primi e tra i più grandi Papi, San Leone Magno (390-461), lo spiegò chiaramente nel suo “Discorso 8 sulla Passione del Signore”, 7; SC 74bis, 115: «“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). O mirabile potenza della Croce! O ineffabile gloria della Passione, che racchiude in sé il tribunale del Signore, il giudizio del mondo e la vittoria del Crocifisso. Hai attirato davvero ogni cosa a te, Signore, e “hai teso la mano ogni giorno a un popolo disobbediente e ribelle” (Is 65,2, Rom 10,21), tutto il mondo ha capito di dover proclamare la tua maestà. (…) Hai attirato ogni cosa a te, Signore, quando il velo del tempio si è squarciato (Mt 27,51), il simbolo del Santo dei Santi si è manifestato nella verità, la profezia trova il suo compimento e la Legge antica si trasforma nel Vangelo. Hai attirato ogni cosa a te, Signore, affinché quanto si compiva nell’unico tempio di Gerusalemme sotto il velo dei segni fosse celebrato dovunque nella pienezza e manifestato apertamente dalla devozione di tutte le genti. (…). Poiché la tua Croce è la fonte di ogni benedizione, la causa di ogni grazia: per suo mezzo, vien data ai fedeli la forza nella sofferenza, la gloria nell’umiliazione, la vita nella morte. Ora poi, essendo venuta meno la verità dei sacrifici materiali, l’unica oblazione del tuo Corpo e del tuo Sangue sostituisce con pienezza l’offerta molteplice delle vittime: poiché sei tu il vero “Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29). E così, in te porti a compimento tutti i misteri e le celebrazioni rituali, affinché, come uno solo è il sacrificio per ogni vittima, così pure uno sia il regno formato da tutti i popoli».

Dicevamo che Pèsach, in ebraico, sta per “passaggio”, a memoria degli eventi biblici dell’Esodo, e tuttavia, nell’interpretazione cristiana, Pèsach diventa la Pasqua di Cristo ossia il “passaggio dalla morte alla Vita”. Un passaggio strettamente connesso con il Sacrificio dell’Agnello di Dio ovvero del Suo Cuore Divino-Umano offerto sulla Croce. Il Rito Eucaristico della Santa Messa è stato istituito nell’Ultima Cena strettamente connessa alla celebrazione della Pèsach ebraica. In questo senso san Bonaventura (1221-1274), ne “L’Albero della Vita”, ha potuto scrivere che la Sinagoga, come sua Madre, rende venerazione alla Chiesa nascente. Durante la Pèsach gli ebrei si radunavano in famiglia per condividere il pasto comune secondo le prescrizioni rituali del caso. Il capofamiglia divideva tra tutti i membri del gruppo familiare le porzioni di un agnello arrostito, cucinato in un modo particolare, che veniva consumato con l’aggiunta di erbe amare e pane azzimo. Nel linguaggio biblico l’Agnello è simbolo del Messia salvatore. “Agnello di Dio” è formula messianica che indica Colui che porta la Salvezza del Signore. Nell’Apocalisse l’Agnello di Dio siede, insieme a Dio Padre, sul Trono posto al Centro della Gerusalemme Celeste scesa direttamente dal Cielo, da Dio. Dunque l’Agnello è il Messia che deve essere sacrificato per ottenere la salvezza del mondo. Da qui il carattere sacrificale della Santa Messa, che nessuna elucubrazione luterana può mistificare o negare.

Abbiamo visto che il Regno di Cristo non è mondano perché piuttosto pretende di “iscrivere in eterno il suo dominio nel cuore degli uomini”. Orbene, quel che infatti accade durante il Rito Eucaristico, come confermato dagli innumerevoli miracoli eucaristici sparsi lungo i secoli e in tutto il mondo, è la transustanziazione del Pane nel Cuore di Cristo e del Vino nel Suo Sangue, comunicandosi ai quali l’uomo entra in una dimensione altra, sovrumana, sempreché, però, disponga il proprio cuore ad accogliere, in quel che i mistici chiamano “scambio dei cuori”, il Cuore di Dio Incarnato. Per comprendere il senso profondo di tutto questo bisogna, tuttavia, aver presente che in tutte le Tradizioni spirituali dell’umanità il cuore non è semplicemente la realtà allocativa dei sentimenti, o genericamente dell’“amore”, romanticamente inteso, quanto invece – cosa confermata dalle più recenti scoperte scientifiche della neurocardiologia – il Centro coscienziale della persona dove è implementata la struttura ontologica dell’uomo, nei suoi tre livelli fisico-psichico-spirituale. Ecco perché la Pasqua è certamente passaggio ma passaggio verso la resurrezione del cuore, intesa come iniziazione al percorso interiore che porta alla sua trasformazione nell’unione mistica con il Sacro Cuore di Cristo ipostaticamente unito al Verbo di Dio nella Seconda Persona della Santissima Trinità.

Luigi Copertino

 

NOTE

  1. Citato in Vittorio Messori “Ipotesi su Gesù”, Sei, Torino, 1976.
  2. Vittorio Messori, op. cit., pp. 87-88.
  3. Marta Sordi, “I Cristiani e l’impero romano”, Jaca Book, Milano, 2006.
  4. Benedetto XVI, Udienza Generale del 2 luglio 2008: i «“timorati di Dio” o … “proseliti” … (erano) pagani che si associavano alla Sinagoga e condividevano la fede nel Dio di Israele. (…). Poppea … viene ricordata da Flavio Giuseppe come “simpatizzante” dei Giudei – cfr “Antichità giudaiche” 20,195.252; “Vita” 16».
  5. Marta Sordi, op. cit., pp. 25 e 27.
  6. Vittorio Messori, op. cit., pp. 88-89.
di Luigi Copertino
 Luigi Copertino  3 Aprile 2021 

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