ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 6 giugno 2021

La “dottrina Marx”

 Le “strane” dimissioni del cardinale Marx.


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Non sono certo un esperto di affari ecclesiastici, quindi non mi azzardo a dir nulla, nel merito, circa le “strane” dimissioni da arcivescovo di Monaco e Frisinga presentate nei giorni scorsi al papa dal cardinale Reinhard Marx e “spiegate” con una lunga lettera resa pubblica l’altro ieri. Osservo solo che la palese incoerenza tra le motivazioni addotte e l’atto che da essere viene fatto dipendere induce a pensare che “vi sia qualcosa d’altro”, e di non dtto, dietro quel gesto (ma forse anche a sospettare che “vi sia qualcosa sotto”), e che esso possa essere interpretato nella logica di un’operazione “politica”, come diversi commentatori stanno in queste ore ipotizzando.

Mi permetto però di fare un’osservazione generale circa le dimissioni nella chiesa. Un tempo si pensava alla chiesa cattolica in modo sostanzialmente diverso da una semplice società umana. Certo, è sempre stato pacifico che la chiesa è anche una realtà umana organizzata e analizzabile secondo criteri sociologici, politici e tecnici prettamente umani, ma una volta si riteneva che non fosse solo questo. In particolare, si aveva una concezione della natura e del ruolo dell’autorità episcopale che non corrispondeva a quella che vige per i ruoli apicali di altre organizzazioni ma esprimeva un significato teologico. In altre parole, si pensava che il vescovo, rispetto alla sua chiesa particolare e, in comunione con gli altri vescovi e il papa, rispetto anche alla chiesa universale, fosse in una posizione diversa da quella, che ne so, di un dirigente d’azienda, di un ministro o di un generale. Si parlava, infatti, di un rapporto “organico“, di tipo quasi-paterno o piuttosto quasi-sponsale, ma comunque teologicamente fondato, tra il vescovo e la chiesa. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, citando «la bella espressione di sant’Ignazio di Antiochia, il vescovo è “typos tou Patros”, è come l’immagine vivente del Padre» (n. 1548). Ora, una caratteristica fondamentale di quel tipo di rapporti, in un’antropologia cristiana, è la loro indissolubilità: chi è padre o sposo, lo è “per sempre”, qualunque cosa gli succeda. Non ci si dimette da padre, e nemmeno da marito, finché morte non separi. Per questo motivo, tradizionalmente, i vescovi duravano in carica fino a che erano in vita, anche se decrepiti; e per quanto ne so questa è tuttora l’usanza seguita nella chiesa ortodossa. Dal punto di vista umano, naturalmente, tale prassi aveva i suoi inconvenienti, facilmente intuibili, che però dovevano parere meno gravi, in una prospettiva più teologica e meno efficientista della nostra, di quanto non appaiano a noi “moderni”.

Un’altra conseguenza dell’impostazione “organica” del rapporto vescovo-chiesa sarebbe stata, a dire il vero, quella dell’inamovibilità del pastore dal suo posto alla guida del gregge, cioè in pratica il divieto di trasferimento da una sede episcopale ad un’altra. Un problema che si pose con maggiore urgenza quando, in seguito alla svolta costantiniana, fare il vescovo diventò anche una carriera: il concilio di Nicea (325) cercò pertanto di arginare questa deriva proibendo assolutamente i trasferimenti di vescovi, preti e diaconi da una chiesa all’altra (canoni 15-16), ma con scarso successo. In realtà la prassi che nel corso dei secoli andò sempre più imponendosi, almeno nella chiesa cattolica, fu quella, appunto, di una sorta di cursus honorum episcopale che prevedeva come un fatto normale la possibilità di transitare da una diocesi “di prima nomina” ad un’altra più importante e prestigiosa e poi magari ad una terza o ad una quarta (o ad una carica curiale) di rilievo ancora maggiore. Questo modello di “carriera ecclesiastica” (espressione, quest’ultima, che dovrebbe suonare ad orecchie cristiane come un ossimoro) era già un grosso cedimento rispetto al principio di cui sopra, per quanto sostenuto da buone ragioni pratiche: nessuno, come si dice, “nasce imparato”, e si comprende come la responsabilità di una diocesi grande e/o difficile sia meglio affidarla a chi si sia già fatto le ossa altrove. È lecito chiedersi, tuttavia, quanto tale costume abbia influito nell’incentivare quel carrierismo clericale che oggi viene tanto spesso additato anche dal papa come uno dei mali da cui la chiesa deve guarire.

Ancor più incisiva e gravida di conseguenze è stata però, a mio parere, la decisione, presa da Paolo VI negli anni sessanta, di “obbligare” di fatto tutti i vescovi (anche se allora sotto la veste formale di un un forte invito) a dimettersi dal loro incarico al compimento dei 75 anni di età. Quella epocale riforma, motivata in sostanza unicamente da una preoccupazione relativa all’efficienza dei pastori, venne di lì a poco integrata dal motu proprio Ingravescentem aetatem, del 1970, con il quale lo stesso pontefice stabilì che i cardinali, al compimento degli ottanta anni perdessere il diritto di partecipare all’elezione del papa. Norme sulla cui buona intenzione non è il caso di discutere, ma di cui è altrettanto chiara la debolezza di fondamento logico e teologico. Anche perché, come è noto, esse non si applicano al vescovo di Roma, con il curioso paradosso che, al compimento della fatidica soglia degli ottanta anni, un cardinale viene d’ufficio considerato incapace di eleggere il papa, ma capace di essere eletto e di farlo, il papa; e che un vescovo a 75 anni non può governare una diocesi, ma la chiesa universale sì. Al di là di queste e di altre considerazioni simili che sono state fatte mille volte, il punto è che, diventando un incarico a tempo, il ruolo del vescovo – anche per la convergenza di altri fattori che portavano nella stessa direzione, come la contemporanea enorme crescita “strutturale” del peso delle conferenze episcopali – si è progressivamente “burocratizzato”, finendo per assomigliare sempre più a quello di un alto funzionario all’interno di una grande organizzazione internazionale.

Tra i segni di questa mutazione, un fenomeno al quale non si presta forse sufficiente attenzione, ma che è invece molto indicativo della tendenza in atto (dietro alla quale c’è una ecclesiologia, ed è questo il punto che qui mi interessa sottolineare), è costituito dal numero relativamente molto elevato di vescovi che negli ultimi decenni sono stati, per una ragione o per l’altra (a volte senza che la ragione precisa fosse nota) “licenziati” (più spesso nella forma di “dimissioni forzatamente spontanee”, più raramente in quella della rimozione d’autorità). Ad essi vanno aggiunti quelli che hanno lasciato il posto di loro iniziativa, anche qui per una varietà di motivi che, presi singolarmente sono insindacabili in quanto affondano le radici nel mistero della coscienza, ma nell’insieme costituiscono a mio avviso un indicatore significativo. Nessuno dubita che, nella dolorosa eventualità che un vescovo si dimostri moralmente indegno, egli debba essere deposto, ma è evidente che questa dovrebbe essere una circostanza eccezionale. È già molto diverso se gli viene “soltanto” imputato di non aver saputo affrontare bene delicati problemi morali insorti nella sua diocesi (che è la motivazione a cui, per esempio, Marx fa riferimento nella sua lettera), oppure di aver amministrato male i beni economici della chiesa o di non aver saputo gestire i rapporti con i suoi preti, eccetera. Qui si vede la differenza tra le due prospettive ecclesiologiche a cui accennavo: se il vescovo è un funzionario, è del tutto logico cambiarlo quando i risultati della filiale che dirige non sono buoni; se è più simile a un padre … beh in una famiglia il padre uno se lo tiene anche se ha dei difetti, cercando semmai di aiutarlo ad essere un padre migliore.

Ecco perché le dimissioni del cardinale Marx, e in generale le molte altre a cui abbiamo assistito in questi anni, mi lasciano perplesso. Se davvero dobbiamo rinunciare del tutto al teologumeno della “paternità episcopale”, e guardare al vescovo come un funzionario ecclesiastico, faremo anche questo. Con l’avvertenza, però, che in questa nuova visione, molto laica, manageriale ed efficientista del ruolo dell’autorità della chiesa, non potremo non comprendere anche quello che ci ostiniamo a chiamare “santo padre”. Se dovessimo accedere alla “dottrina Marx” – che si può riassumere così: le cose nella chiesa tedesca non vanno per niente bene, quindi mi dimetto (magari chissà, col sottinteso che dovrebbero farlo anche altri … tipo l’arcivescovo di Colonia) – sarebbe difficile negare a chi ritenesse fallimentare anche il bilancio della chiesa universale il diritto di chiedere le dimissioni dell’amministratore delegato.

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