La personalizzazione del papato come problema della chiesa. (Papa Francesco e i movimenti, 3)
In un precedente intervento (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2021/06/14/la-personalita-come-risorsa-e-come-problema-della-chiesa-papa-francesco-e-i-movimenti-2/) ho cercato di mostrare come la tensione polare, sempre presente nella vita della chiesa, tra la dimensione universale-oggettiva e quella personale-carismatica dell’economia salvifica, abbia oggi un “punto di scarico” nel travaglio dei movimenti.
Ora vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che – come le precedenti – sottopongo umilmente al vaglio e alla critica di chi è senz’altro più esperto di me nello studio della storia della chiesa contemporanea. A me pare che, nella presente situazione ecclesiale, il “problema della personalità” relativo ai movimenti e in genere alle nuove fondazioni si intrecci con un’altra dinamica, di ben più ampia portata, che deriva sempre dalla stessa origine ed ha una traiettoria simile ma investe direttamente l’istituzione, cioè precisamente quel polo che dovrebbe stare, per sua natura, in benefica tensione con i carismi personali. Credo infatti che si possa riconoscere, abbastanza pacificamente e, se così posso dire, sine ira ac studio, che nella chiesa è in atto da tempo un processo, che si va facendo sempre più accentuato, che potremmo chiamare di personalizzazione del papato.
Con questa espressione intendo il prevalere, nella percezione dei fedeli ma anche nello “stile di esercizio” dell’autorità papale, di elementi che attengono alla personalità di colui che ne è il titolare pro tempore, rispetto al suo peso istituzionale, il quale invece prescinde dalla persona che di volta in volta lo porta sulle spalle. Detto nei termini più semplici e ingenui, ciò significa che per quasi tutti noi ormai Francesco, o Benedetto, o Giovanni Paolo o chi si voglia, contano assai più che non la funzione del papa in quanto tale, a prescindere dal nome e dal volto di colui che la incarna. Sarebbe molto interessante studiare storicamente le fasi di tale processo, che – come spero sia chiaro ai lettori – va tenuto ben distinto dall’analisi, storiograficamente già ben approfondita, dello sviluppo istituzionale del papato. Non sono, come ho detto, uno specialista di storia della chiesa contemporanea e non saprei dire se esistano studi specifici organicamente focalizzati su questo tema, ma azzardo l’ipotesi che una prima tappa in tale evoluzione personalistica del “papa percepito” (che adombra sempre di più quello reale) si sia compiuta addirittura con Pio IX. Non per nulla, già don Bosco (che aveva la vista lunga) ammoniva i suoi ragazzi a non gridare mai “Viva Pio IX!” ma piuttosto “Viva il papa!”. È probabile che uno snodo determinante, nell’evoluzione personalistica del papato, sia stato poi rappresentato dal pontificato di Pio XII, il Pastor Angelicus a cui fu dedicato nel 1942 un celebre film documentario che consiglio di vedere (qui: https://www.youtube.com/watch?v=SBStSJRseVQ). L’accentramento della chiesa nella figura del papa è un tratto caratterizzante di quel pontificato e vale solo fino ad un certo punto l’obiezione che in quel caso era la persona di Eugenio Pacelli a identificarsi con il ruolo istituzionale e non viceversa, perché comunque, anche in quella forma che apparentemente la negava, trascendendola e sacralizzandola, era pur sempre la personalità a venire in primo piano. Tant’è vero che, anche proprio per reazione antipacelliana, nell’universale sentimento popolare (ma anche largamente nell’approccio degli intenditori di cose vaticane), la percezione del breve pontificato di Giovanni XXIII, è stata determinata essenzialmente dalla personalità del “papa buono” (come allora si disse, con formula inaudita sulla cui fortuna ci sarebbe molto da riflettere), che ha fatto ampiamente aggio su ogni altro aspetto del suo governo. Nel lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II, poi, il processo di personalizzazione – questa volta baricentrato senza infingimenti e senza complessi sulla gigantesca personalità umana (per tanti di noi così irresistibilmente affascinante) di Karol Wojtyla – ha compiuto passi da gigante, con effetti probabilmente irreversibili (o molto difficilmente reversibili).
In tutto ciò, naturalmente, ha giocato un ruolo assolutamente determinante quel più generale fenomeno di mediatizzazione dell’esperienza, che ci coinvolge tutti in uguale misura, dentro e fuori la chiesa, ma che non so se stia stato ancora adeguatamente studiato e compreso proprio nella sua influenza sulle vicende ecclesiali del XX e del XXI secolo. Infatti, la fisiologica tensione tra la dimensione istituzionale dell’autorità e la personalità del soggetto che pro tempore la esercita, tensione che ovviamente sarà sempre esistita, nell’odierna società dello spettacolo viene esasperata (e in parte anche deformata) dal sistema di comunicazione dei media, perché esso esalta, amplifica e falsa la personalità del leader e lo rende illusoriamente vicino e familiare al popolo, proiettandone la sagoma sullo schermo della rappresentazione pubblica in modo tale da coprire quasi del tutto la sua funzione istituzionale. Tutti credono di conoscerlo, e anzi di essergli in qualche modo familiari, perché lo hanno visto infinite volte sugli schermi ma ancor di più perché lo hanno sentito parlare ed agire secondo uno stile comunicativo fatto apposta per dare – a distanza! – l’impressione che egli si stia rivolgendo a ciascuno di noi, come in una relazione di stretta prossimità. Si pensi, per un solo celeberrimo esempio, al Discorso della luna di papa Giovanni dell’11 ottobre 1962 in emblematica coincidenza con l’apertura del concilio Vaticano II, che può essere considerato un po’ come l’archetipo di questa forma di comunicazione.
Un tempo, chi mai poteva dire di “conoscere il papa”? A parte gli abitanti di Roma – che però proprio per questo avevano da sempre maturato, nei confronti della personalità papale, rivestita di autorità somma e al tempo stesso nel loro caso così vicina da risultare ingombrante, un’attitudine di ironico e perfino un po’ cinico distacco di cui l’opera del Belli è monumento imperituro – per tutti gli altri, nell’ecumene cattolica, il papa regnante era poco più che un nome. Si sapeva bene che cosa fosse “il papa”, quale il suo compito e quali i suoi poteri, ma chi fosse lui in concreto poco si sapeva e meno importava alla gente; si recepivano i suoi atti di governo e il suo magistero, ma esclusivamente attraverso le istituzioni periferiche della chiesa, per via strettamente gerarchica: il papa ordinava ai vescovi, i vescovi ai parroci, e i parroci spiegavano e imponevano le cose ai fedeli. Il cristiano dei secoli passati, fino al XX, conosceva il nome e la faccia del “suo” prete, e per lui la gerarchia della chiesa era praticamente tutta lì. Oggi, all’opposto, sono sempre di più i cristiani che magari non sanno neanche chi sia il loro parroco (e non parliamo del vescovo), ma conoscono benissimo (cioè credono di conoscere) il papa … Prende così sempre più piede l’idea e la pratica del papa come “parroco del mondo”: si pensi per esempio alla funzione svolta dalle messe quotidiane di Francesco a Santa Marta durante i lunghi mesi della sospensione pandemica della liturgia …
Perché sostengo che qui c’è, oltre che certamente un’opportunità, anche un problema per la chiesa? Nei precedenti interventi osservavo che la personalità – ogni personalità! – essendo per sua natura particolare, nella sua funzione di strumento per la trasmissione dell’annuncio cristiano (cioè di vaso di creta che racchiude un tesoro, secondo l’imprescindibile metafora paolina) non può non risultare di aiuto per alcuni e di ostacolo (o quantomeno non di aiuto) per altri. Per inciso: pregherei il lettore di non banalizzare tale rilievo riducendolo ad un questione di simpatia o antipatia verso un temperamento: la personalità comprende il temperamento, ma è molto di più di esso e qui non si parla di simpatia come facilità di rapporto: una personalità può essere ostica ma al tempo stesso estremamente suggestiva e provocante all’incontro con Cristo, o viceversa essere compiacente e gradevole eppure non comunicativa di altro al di là della propria piacevolezza umana. Con riferimento alle personalità carismatiche di cui si parlava l’altra volta, questo dato risulta però compensato dalla libertà fondamentale che, nei loro confronti, ogni battezzato ha di aderire o non aderire al tipo di appello che ciascuna di esse lancia; e la molteplicità e varietà dei carismi che continuamente lo Spirito suscita nella chiesa garantisce che nelle sue molte dimore ciascuno, se lo vuole, può trovare da accasarsi nel modo più confacente alla propria personalità.
Con l’istituzione, invece, la faccenda è un po’ più complicata, perché da un lato le sue strutture gerarchiche riguardano e governano tutti e nessuno può impunemente chiamarsene fuori, mentre dall’altro anch’essa non può fare a meno di incarnarsi in persone, ciascuna con la propria personalità. È abbastanza evidente, a parer mio, che di qui nascano dei problemi, se il rapporto tra “personalità istituzionale” e istituzione non è condotto con il massimo dell’autenticità cristiana e del rigore. Che vi siano, in pratica, delle interferenze tra personalità e ruolo istituzionale è inevitabile. Ed è umano. Però, come nel caso delle personalità carismatiche di cui si diceva sopra, bisogna chiedersi anche quali siano i rimedi a disposizione. Fino a che si resta ai livelli bassi e intermedi, anche l’inconveniente costituito da una personalità che adombra in modo non positivo per la fede altrui la propria funzione istituzionale può essere risolto in maniera relativamente facile, in forza della libertà riconosciuta ai fedeli: per esempio, se appartengo, in forza del mero fatto della mia residenza, ad una certa parrocchia e la debordante personalità del parroco mi è non di aiuto bensì di ostacolo nel cammino di fede, nulla mi impedisce di andare in un’altra parrocchia. Questo era vero anche in passato, quando la mobilità era molto minore: se prendiamo Lucia Mondella come figura emblematica della condizione di un cristiano comune della chiesa italiana del XVII secolo (di quelli che probabilmente il papa nemmeno sanno come si chiama), per lei l’autorità ecclesiastica è don Abbondio, ma questo non le impedisce di rivolgersi, per un aiuto alla sua vita e alla sua fede, non a lui bensì a padre Cristoforo.
Col papa, tutto questo non funziona perché di papa ce n’è uno solo (anche adesso, checché ne dicano alcuni male informati!) e vale per tutti. Che egli abbia, come tutti, una personalità è ovvio. Che però, nel concreto esercizio della funzione petrina, in questi centocinquanta anni, per le ragioni che ho sommariamente accennato sopra (e per molte altre che tralascio e che probabilmente in parte mi sfuggono) il peso della personalità papale si andato sempre crescendo fino a diventare predominante, come oggi è, non credo che sia un bene. Anzi, per essere franco, credo che possa diventare fonte di gravi problemi per la chiesa, come già oggi stiamo vedendo. La personalità, nel caso del papa, può diventare addirittura divisiva, finendo così paradossalmente per contraddire, magari con buone intenzioni, una delle istanze fondamentali del ministero di Pietro, la salvaguardia dell’unità. Confesso onestamente che non mi ero mai accorto di questo pericolo per tutta la lunga parte della mia vita in cui sedevano sul soglio pontificio dei papi dalla cui personalità mi sentivo sempre e solo aiutato (il che significa beninteso anche provocato, messo in crisi e giudicato) e mai messo in difficoltà o “scandalizzato” (in senso strettamente etimologico). Solo ora mi rendo conto che forse quelle stesse personalità che erano per me tanto propizie alla fede e alla sequela cattolica potevano magari costituire un ostacolo per altri battezzati.
Mi fermo qui, perché non pretendo certo di essere in grado di affrontare un tema così delicato e complesso. Mi basta averlo posto all’attenzione, avanzando la tesi che occorra proteggere il munus petrino dal rischio della personalizzazione, correggendo, per quanto possibile, una tendenza pluridecennale che in passato molti di noi hanno considerato provvidenziale ma di cui ora vediamo anche gli aspetti problematici.
Un solo riferimento mi permetto di fare, in conclusione, a quell’evento fondativo della vita ecclesiastica che è, nel racconto degli Atti degli Apostoli, il modello della trasmissione dell’autorità apostolica a cui fare sempre riferimento: l’elezione di Mattia, in Atti 1, 15-26. Un passo di importanza enorme, che l’autore del libro si è premurato di indicare come il primo atto di governo della chiesa, collocandolo addirittura prima della Pentecoste. In quel racconto, se c’è una cosa che risulta evidente è l’irrilevanza della personalità per la funzione apostolica. L’unico requisito per entrare fra i Dodici è la capacità di rendere integrale testimonianza (autoptica, nel loro caso) di tutto ciò che Cristo ha detto e fatto. (Si veda, in proposito la significativa differenza con i requisiti del primo “concorso da diacono” in Atti 6,3). Che cosa devono fare Pietro e gli altri apostoli? Badare essenzialmente alla cura della testimonianza, cioè all’integrale preservazione di Cristo come giudizio su tutto. Questo va ugualmente bene per tutti, a prescindere dal gioco delle personalità.
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