SUL PECCATO E IL PECCATORE
Qualcuno sta forse abusando della pazienza e della mitezza cristiana per commettere e ostentare peccati sempre più abominevoli, anche sul piano propagandistico e spettacolare, il che ne moltiplica l’effetto deleterio e avalla l’idea che, ormai, la Chiesa cattolica è disposta ad accettare tutto, a capire tutto, a perdonare tutto, sempre in nome della famosa massima condanna il peccato ma non il peccatore.
A fine giugno 2021 le città italiane sono state teatro di sfilate e manifestazioni di gruppi LGBTQ che hanno inscenato spettacoli oltraggiosi e blasfemi. Un uomo seminudo acconciato da donna, coi tacchi a spillo, ha portato in giro un grande crocifisso e parodiato la Passione del Signore. In Canada, nel giro di pochi giorni sono state date alle fiamme tre chiese cattoliche. A San Francisco, negli Stati Uniti, si è svolto un pubblico evento, denominato Eucarestia Drag Queen, nel quale un gruppo di uomini travestiti da donne ha parodiato il Sacrificio Eucaristico, sembra con particole realmente consacrate. Però, ci ripetono i cattolici buonisti e progressisti, tutto questo non è poi così grave: l’importante è condannare il peccato (a parole), ma seguitare ad amare il peccatore, come recita il celebre aforisma di Sant’Agostino.
Ora, la domanda è: come si può separare il peccato dalla persona di colui che lo commette, pubblicamente e ostentatamente, con la precisa volontà di dare alle anime il massimo scandalo possibile? Prendiamo il caso di un ladro. Ovviamente, indipendentemente dal fatto di aver rubato, costui è prima di tutto una persona: su questo non ci piove. L’errore del personalismo cristiano, che è, in fondo, una forma di esistenzialismo, è quello di aver assolutizzato la persona, facendone il centro di qualsiasi discorso; mentre il centro del discorso, in termini cristiani, è e non può essere altri che Dio, e precisamente Gesù Cristo. Se si assolutizza la persona, si arriva all’assurdo di non poter più chiamare il ladro, ladro, o l’assassino, assassino, perché il rubare e l’ammazzare sono azioni, dunque qualcosa di transitorio, mentre la persona rimane, è qualcosa di permanente (il che è palesemente falso, perché la persona è l’unione dell’anima con il corpo, unione che non ha carattere definitivo, ma transitorio anch’essa).
Qui si verifica una confusione di piani, volontaria o involontaria che sia. In termini morali, è giusto non identificare interamente il ladro con la persona che ha rubato, o l’assassino con la persona che ha assassinato: perché sia la persona che ha rubato, sia la persona che ha assassinato, possono fare un percorso di consapevolezza, pentimento ed espiazione che le portano a non riconoscersi più nelle proprie azioni passate, anzi a ripudiarle e ad averne pena e orrore: e quindi sarebbe ingiusto seguitare a vederle unicamente come ladro e assassino, quando il ladro e l’assassino appartengono al loro io di un tempo, ma non corrispondono per niente al loro io presente. Ma il giudizio morale sulla persona, a patto che questa si ravveda, non annulla il giudizio morale sull’azione passata, né ha il potere di farne scomparire gli effetti. C’è stato un danno, più o meno grave, inflitto al prossimo; nel caso dell’omicidio, il danno più grave possibile: non solo è stata tolta la vita a qualcuno ingiustamente, ma è stata spenta la gioia di vivere in tutti quelli che l’hanno amato, e la loro vita è stata trasformata in un inferno quotidiano. Pertanto, quel danno esige una riparazione: e anche l’assassino pentito e ravveduto, che si è messo in pace con Dio e ha chiesto perdono agli uomini, deve nondimeno scontare sino in fondo la propria pena. Di più: se davvero si è ravveduto, se davvero si è messo in pace con Dio e se davvero desidera essere perdonato dai parenti della vittima, dovrebbe essere lui il primo a voler pagare il proprio debito con la giustizia sino in fondo, eventualmente anche con la pena di morte. Una cosa non esclude l’altra: Dio è misericordioso e accoglie sempre il peccatore pentito; i parenti della vittima possono essere misericordiosi e possono perdonare, se possiedono una grande forza d’animo che deriva a sua volta da una gran fede in Dio; ma la giustizia degli uomini non può perdonare, non può fare sconti, non può annullarsi in nome di un buonismo che perdona tutti, purché si ravvedano. Abbiamo testimonianze toccanti di peccatori pentiti e ravveduti che hanno affrontato con serenità e perfino con letizia la prova suprema, ossia quella del patibolo: abbiamo, per esempio, la testimonianza di un criminale che andò al supplizio piangendo di gioia, perché nella sua anima tormentata era entrata la luce della fede e della grazia divina, per merito di Santa Caterina da Siena, la quale volle accompagnarlo sino all’ultimo nel suo pellegrinaggio terreno. Perciò, se è giusto non identificare interamente la persona con l’azione che ha compiuto, non è giusto nemmeno considerare l’azione come un qualcosa di astratto, che avrebbe potuto esserci o non esserci, perché l’azione discende dalla volontà, e nella prospettiva cristiana l’uomo è padrone della propria volontà (dottrina del libero arbitrio), quindi se fa il male, lo fa sapendo di farlo; se non sapesse di farlo, allora non sarebbe male, o meglio potrebbe provocare un male, ma non sarebbe peccato. Infatti si può e si deve parlare di peccato quando l’azione è diretta consapevolmente ad un fine malvagio, che contrasta sia con la legge morale naturale, sia con la legge divinamente rivelata.
Che significa «condanna il peccato non il peccatore»?
Se noi non chiamassimo ladro colui che ruba e assassino colui che uccide, si potrebbe quasi pensare che quel furto e quell’assassinio sono avvenuti ad opera di un’entità disincarnata e che nessuno, alla fine, ne porta la piena responsabilità. Invece non è così: le azioni dell’uomo, tutte, le buone e le cattive, vengono dall’uomo stesso: sono personali nel senso più stretto del termine. Certo, la società e le circostanze possono averle in qualche misura influenzate: ma l’assenso finale della volontà c’è stato, e dunque ciascuno è l’autore del bene e del male che sceglie di porre in essere. Se i meriti e le colpe degli uomini non fossero personali, i concetti di premio e punizione, e l’esistenza stessa del Paradiso e dell’Inferno, che è insegnamento preciso della Chiesa cattolica, non avrebbero alcun senso. Dice Gesù (Mc 7,14-16 e 18-19):
«Ascoltatemi tutti e intendete bene: 15non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo (…). 16.
Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?»
L’idea che Gesù abbia insegnato a non giudicare il peccatore ma solo il peccato, come se questo fosse slegato e indipendente da chi l’ha commesso è a dir poco fuorviante. Gesù dice, sì, (Mt 7,1-5):
1 Non giudicate, per non essere giudicati; 2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. 3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? 4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? 5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
Tuttavia è evidente che quel che Gesù vuol dire è che non bisogna giudicare gli altri con troppa facilità, ma concentrarsi sul proprio perfezionamento morale e la santificazione della propria vita; e non certo che si debba tacere davanti a un’azione o ad un comportamento intrinsecamente cattivi e, perciò stesso, scandalosi. Lo stesso contegno ha tenuto nell’episodio dell’adultera, che gli scribi e i farisei gli avevano condotta dinanzi, per metterlo alla prova e strappargli una frase compromettente, con cui poterlo accusare, oppure metterlo in contraddizione con Se Stesso, ottenendo un avallo della sua lapidazione. Gesù dapprima invita gli scribi e i farisei a scagliare la prima pietra, se si ritengono a loro volta perfettamente giusti e innocenti di fronte al Padre celeste; poi, dopo che essi se ne sono andati con la coda fra le gambe, ma schiumanti di rabbia, dopo aver lasciato cadere le pietre già preparate per la feroce esecuzione, Egli dice all’adultera (Gv 8,10-11):
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più».
Dove è chiaro che Gesù le rimette il peccato, non nega che esso vi sia stato e quindi non giustifica la donna peccatrice, ma la assolve, avendone visto il sincero pentimento. Agli scribi e ai farisei, peraltro, Egli non ha detto: «Perché la chiamate adultera? È solo una donna che ha sbagliato»; né mette in dubbio che ella realmente abbia tradito il marito. Le fa però una severa raccomandazione: da ora in avanti, non peccare più. Non le dice: cerca di non peccare più; ma le dice: non peccare più. Non è un invito, è una prescrizione. Quindi non nega che ella abbia peccato e non finge che il peccato sia venuto da chissà dove. Del resto, Gesù ha sempre parlato ai peccatori con estrema franchezza, anche se, al tempo stesso, qualora lo ritenesse utile per il bene delle anime, con dolcezza. Alla donna samaritana, alla quale ha chiesto di condurre suo marito per mettere alla prova la sua sincerità, e lei risponde con una mezza bugia, perché gli confessa di non avere marito, ma tace il fatto di averne avuti parecchi e di convivere al presente con un uomo senza essere sposata, Egli dice (Gv 4,17-18): «Hai detto bene "non ho marito"; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Come dire: «Non prendermi in giro; non giocare con Me a nascondino: so tutto di te e so che mi volevi nascondere la cosa più importante». Questa franchezza non ha altro scopo che aprire una fessura nella coscienza indurita e quindi preparare la possibilità di un cambiamento di vita: se avesse fatto finta di nulla, le avrebbe negato quella possibilità di ravvedimento. Con eguale franchezza Giovanni il Battista aveva detto in faccia al tetrarca Erode, il quale, dando gravissimo scandalo pubblico, aveva sposato Erodiade, moglie di suo fratello Filippo (Mc 6,18): Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello. Gesù non lancia accuse, non punta il dito, ma non tace il peccato e non lo chiama in maniera eufemistica. Bisogna piacere a Dio e non agli uomini; e bisogna avere di mira il bene delle anime, non la loro compiacenza verso di noi o la loro indulgenza verso se stessi.
Si deve parlare di peccato quando l’azione è diretta consapevolmente ad un fine malvagio che contrasta sia con la legge morale naturale sia con la legge divinamente rivelata!
Similmente san Piero insieme agli Undici, dice ai giudei osservanti, poco dopo l’Ascensione di Gesù al Cielo, senza sminuire in nulla la loro terribile colpa (At, 2,22-24):
22Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene -, 23consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l'avete crocifisso e l'avete ucciso. 24Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.
E ancora (At 2,36): 36«Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso».
E ancora (At. 3,13-15): 13 Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; 14 voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino 15 e avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni.
E ancora (At 4,10): la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo.
E ancora (At 5,30): Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce.
Nessun espediente, nessun artificio retorico per attenuare l’incommensurabile peccato dei giudei: «Voi avete messo a morte il Signore Gesù». Nessuna diplomazia: la nuda verità. E non per esacerbarli o per sfidarli, ma per favorirne la conversione: gli Atti degli Apostoli infatti riferiscono che molti di essi si sentirono trafiggere il cuore (At 2,37). A questo serve la franchezza del cristiano: a rendere possibile il bene delle anime. Non si preoccupa di ciò un clero sedicente cattolico che non solo tace sul peccato, ma nega che esso sia tale, come fanno James Martin e molti, troppi gesuiti e sacerdoti secolari. A chi vogliono piacere Tagle, Bergoglio, Paglia, Galantino, il quale farnetica che Dio perdonò Sodoma? A Gesù no di certo. Perciò salvatevi da questa generazione perversa (At 2,40).
Che significa «condanna il peccato non il peccatore»?
di Francesco Lamendola
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