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martedì 14 settembre 2021

La Chiesa “di una volta”

VITA SANTA DI VECCHI SACERDOTI

    Quel profumo di vita santa dei vecchi sacerdoti. La differenza tra "i preti di una volta" con le mezze caricature dei preti modernisti è che avevano la fede e "la vera dottrina" mentre questi di oggi non hanno la pace del cuore                                                                                             di Francesco Lamendola  

  

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Chi ha letto il Diario di un parroco di campagna di Nicola Lisi (1942), questo piccolo capolavoro dimenticato della letteratura cattolica del ‘900, meno famoso ma non meno bello del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, sarà rimasto certamente colpito, oltre che dalla leggerezza quasi aerea dell’arte narrativa dell’autore, anche dalla figura candida, francescana, poetica ma al tempo stesso saggia e profonda, del protagonista, curato d’anime in un piccolo borgo campestre delle colline fiorentine (e qui si potrebbero fare facili paragoni con la figura sin troppo celebrata e socialmente impegnata d’un altro parroco di quelle colline, don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, tutt’altro che candido e francescano). 


Tuttavia, chiudendo l’ultima pagina del libro, quel lettore forse avrà pensato che Lisi abbia lavorato un po’ troppo di fantasia; che tutti quegli episodi strani, sorprendenti, misteriosi; che quelle anime venute dal Purgatorio a chiedere preci, o quella giovane indemoniata che cerca di far mangiare al cavallo il rametto di bosso da lei masticato mentre pronunziava orribili bestemmie; ma soprattutto quel continuo osservare il cielo e le voci e i profumi della natura, quel guardare i segni di Dio sulla neve e nel volo degli uccelli, quel prendere nota di tanti fatti inspiegabili, a volte drammatici, a volte edificanti, sempre bisognosi d’interpretazione, che tutto ciò non possa far parte della vita di un parroco “normale”, perché lo condurrebbe fatalmente a trascurare i suoi doveri di natura pratica, per evadere in un mondo di pura estasi contemplativa.

 

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Quel profumo di vita santa dei vecchi sacerdoti?

 

Confessiamo che anche a noi, sulle prime, la lettura del Diario di un parroco di campagna ha generato simili pensieri, e, diciamolo pure simili perplessità, benché non ci siamo mai scordati dell’ammonimento di Gesù Cristo (Lc 10,41-42): «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta». Poi, però, sia ripensando ad alcune figure di sacerdoti conosciuti nell’infanzia, sia di altri che abbiamo avuto il privilegio di fare in tempo a conoscer da adulti, quand’erano già molto anziani, ma ancora vivaci e operosi (un nome per tutti: don Nilo Tonon, che è stato per molti anni lo stimato e venerato parroco di Santa Maria di Feletto), sia leggendo alcune memorie e testimonianze relative ai paesi e alle parrocchie, specialmente rurali, di qualche decennio fa, ci siamo resi conto che tale impressione era sbagliata e tale giudizio peccava di superficialità. Non è vero, infatti, che un sacerdote che abbia un’anima contemplativa non possa essere anche bravo nello svolgere le incombenze pratiche inerenti la sua funzione; e soprattutto non è vero che un carattere energico e operoso non possa sposarsi perfettamente con una profonda vena poetica, capace di trasmettere anche ai giovani l’incanto della natura e l’attitudine ad ascoltare il silenzio. Ci spingiamo anzi ad affermare che, fino ai tempi della nostra infanzia e adolescenza, figure di sacerdoti così erano abbastanza diffuse: uomini di Dio, virili e delicati al tempo stesso, pieni di fervore spirituale e di zelo caritativo.

Ci ha colpito, a titolo d’esempio, la testimonianza di don Egidio Imoli a proposito di don Marco Dal Molin, un sacerdote che fu parroco per più di un trentennio nel minuscolo paese collinare di Santi Angeli del Montello, in una zona rurale molto isolata, che ebbe a subire gravissime devastazioni nel corso della Prima guerra mondiale, testimonianza ricavata dai suoi ricordi d’infanzia (in: Giuseppe Pagotto, Un prete sul Montello: don Marco Dal Molin, primo parroco di Santi Angeli, Treviso, Editrice San Liberale, 2006, pp.114-115):

Per primo Don Marco, celebrata la Messa e varie Funzioni, curava la Catechesi ai fanciulli, che allora si diceva “far Dottrina”. Non ricordo che avesse molti collaboratori catechisti. Lui stesso “faceva Dottrina”: mi sembra ancora di vederlo, davanti a noi ragazzi seduti sui banchi della chiesa (non c’erano altre aule). Teneva costantemente le due braccia alzate: con una mano teneva aperto il Catechismo con domande e risposte di san Pio X, e con l’altra mano brandiva “na vis-ceta de nosèer” [una verga di nocciolo] solo per posa, perché non mi consta che l’abbia mai usata sulle nostre mani. Incatenava invece l’attenzione di noi ragazzi/e vivacizzando la spiegazione con numerosi fatti biblici ed evangelici, da Lui narrati con particolare carisma dottrinale e umano. Altro punto di particolare cura pastorale don Marco l’aveva per il “gruppo chierichetti e cantori”, al quale ho appartenuto dai 7 ai 14 anni… e furono quelli gli anni più belli e sereni della mia vita, nei quali Famiglia e Chiesa hanno deposto nel mio cuore la semente preziosa della vocazione Sacerdotale. Cantare e servire Messa quasi ogni mattina Ufficio dei defunti e S. Messa, assieme a Nani Angelo e Doro Caregheta, sostenuti dalla voce un po’ stonata da imponente di Don Marco, era per noi una festa, che si completava ogni domenica con la Messa ed il Vespro. Avventura piacevole e devota per noi chierichetti e cantori, erano le Processioni delle Rogazioni.

Particolarmente ambito era poi l’accompagnare il parroco nella Benedizione delle Case. Quella era per noi una incomparabile occasione per conoscere ogni luogo e famiglia, e conoscere lo stesso Don Marco. Non posso tacere che proprio in quel peregrinare ho scoperto che Don Marco era poeta nato. Infatti, giungendo sulla cima di un cole, si fermava spesso ad ammirare lo splendido panorama fino alla cerchia delle Prealpi e del Piave. Oppure si fermava ai margini d’un bosco, e ci invitava a fare silenzio, per ascoltare il canto dell’usignolo, o il fischiettar del merlo, o il gracchiar della gazza.  E dopo quello sguardo ed ascolto, estraeva di tasca un segreto taccuino, e scriveva versi di forte e dolce poesia [andati purtroppo perduti quasi tutti dopo la morte, il 9 febbraio 1942, presso l’Ospedale di Conegliano: pare che moltissime carte del defunto, forse il contenuto di una cassa intera, siano state bruciate]. Talvolta infatti ce li leggeva quei versi, ed era compiaciuto del nostro incanto: è questo ci batteva con le nocche delle dita sul nostro capo, con quel suo gesto abituale di benevolenza…

Don Marco curò l’Azione Cattolica in momenti difficili degli anni Venti e Trenta, col fascismo geloso di ogni altro movimento che non fosse dei Balilla o degli Avanguardisti. Noi giovani eravamo fieri di appartenere all’A. C. e nelle Processioni e cortei portavamo alto il nostro labaro verde-speranza,m sempre incoraggiati dal nostro parroco-assistente.

Ma noi chierichetti e giovani di allora siamo stati testimoni delle altre cure pastorali di Don Marco. Particolarmente quando ci invitava ad accompagnarlo mentre portava il Viatico agli ammalati gravi. Scorgevamo in Lui pietà e devozione grande, quando a fianco dell’infermo si piegava ad amministrargli l’Eucaristia e l’Olio Santo, come allora si diceva, fermandosi a raccomandargli l’anima ed a chiudergli gli occhi del corpo dopo l’ultimo respiro… Don Marco sapeva che la scuola del Dolore e della Morte è gran maestra per l’educazione della gioventù…

 

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La Chiesa “di una volta”, quella che produceva tante famiglie realmente cristiane e, attraverso di esse, tante vocazioni e tanti santi preti, e religiosi e religiose dei vari ordini monastici, non si è mai tirata indietro di fronte alle sfide del mondo, non è mai stata schizzinosa; ma si è sempre rimboccata le maniche ed è stata in prima fila in tutte le situazioni di bisogno e di difficoltà, quelle straordinarie, come pestilenze, terremoti e guerre, e quelle ordinarie, come la povertà diffusa, gli orfani, le ragazze traviate da recuperare!

 

Commovente, e quanto mai significativa, la riflessione di questo ex chierichetto e cantore di una sperduta parrocchia campestre che dai sette anni ai quattordici è stato fra i ragazzi di quel bravo parroco, cantando in chiesa e servendo la santa Messa tutti i giorni: e furono quelli gli anni più belli e sereni della mia vita, nei quali Famiglia e Chiesa hanno deposto nel mio cuore la semente preziosa della vocazione Sacerdotale. i preti modernisti, come quel Père Matthieu Jasseron che va su Tik-Tok e si procura seicentomila followers asserendo che la pratica omosessuale non è peccato e va benissimo d’accordo con l’insegnamento della Chiesa, quante vocazioni sacerdotali ha suscitato nella sua parrocchia? E i vescovi rock, che suonano la chitarra in chiesa; i vescovi pro vaccino, che proibiscono ai loro sacerdoti di celebrare la santa Messa se non hanno assunto almeno una dose di siero genico sperimentale, meglio se due o tre; e i cardinali che promuovono i Met Gala e si muovono perfettamente a loro agio in mezzo ai peggiori elementi dello Stato profondo e deviato, massoni, satanisti, banchieri usurai, invertiti e violentatori seriali: quante vocazioni sacerdotali riescono a promuovere, nelle rispettive diocesi? Quante volte dai loro discorsi, dai loro gesti, dalla loro (?) autorevolezza morale, e intellettuale, è scesa la fiamma della grazia di una sola chiamata a Dio fra quanti li vedono, li ascoltano e li osservano? Quanti bambini, quanti adolescenti si son sentiti struggere il cuore nell’ineffabile dolcezza della voce di Cristo, che parlava per mezzo delle loro bocche?

 

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La vera differenza fra i santi preti del buon tempo antico e le mezze caricature di preti bergogliani modernisti, ambientalisti e vaccinisti, è che i primi avevano la fede, e, con la fede, la vera dottrina: quella compendiata nel Catechismo di San Pio X; mentre i secondi hanno sempre in bocca il dialogo, la filologia, la sociologia, la psicanalisi, l’ecumensimo; ma non la pace del cuore!

 

Sorge a questo punto la domanda: perché i don Egidio Imoli, i don Marco Dal Col, i don Nilo Tonon possedevamo quell’aura mistica, e sapevamo trasmettere agli altri, specialmente nei giovani, l’ardente desiderio della vita soprannaturale, la nostalgia della nostra patria celeste e la volontà di tornarci attraverso un’esistenza ben vissuta, rispondendo generosamente alla chiamata del Padre, mentre i don Matthieu, i Martin, i Marx, i Cupich e i Bergoglio non trasmettono assolutamente nulla di tutto ciò, e questo fin dallo sguardo, dai gesti, prima ancora che dalle parole, ma anzi trasmettono una sgradevole sensazione d’irrequietezza, di agitazione, di frenesia, di sfrenata volontà egoica e di compiacimento di se stessi? Qual è l’elemento che fa la differenza e che, trovato spiegherebbe in gran parte il crollo delle vocazioni sacerdotali e della stessa affluenza alle pratiche religiose da parte dei laici (tolta, ovviamente, la quota dei non frequentanti che son divenuti tali per il disgusto del clima modernista ormai ovunque imperante nelle chiese)? Si potrebbe rispondere: il differente orientamento di vita: tutto verticale, e quindi altamente spirituale, nel primo caso; tutto orizzontale, e quindi rivolto all’immanenza, il secondo. Ma non è vero; bisogna lavorare nel mondo, certo, e medicare le piaghe del mondo, ma con uno spirito che è l’esatta antitesi dello spirito mondano: lo Spirito Santo, che è luce, e indica alle anime la luce.  Né si venga a dire che per essere operai del Vangelo bisogna sporcarsi le mani con le cose del modo, magari citando il famoso passo della Seconda epistola di Giacomo (14-18):

14 Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? 15 Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16 e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? 17 Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18 Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. 

 

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 Don Lorenzo Milani insegnava ai bambini di Barbiana a istruirsi e a capire il mondo, e questa è una cosa buona; ma lo faceva con spirito di rancore sociale e di aperta ribellione, insegnando loro a disprezzare i professori (vedi la Lettera a una professoressa) e dando lui stesso il cattivo esempio dell’aperta disobbedienza, ostinata e saccente, al proprio vescovo!

 

L’obiezione non è pertinente, perché la Chiesa “di una volta”, quella che produceva tante famiglie realmente cristiane e, attraverso di esse, tante vocazioni e tanti santi preti, e religiosi e religiose dei vari ordini monastici, non si è mai tirata indietro di fronte alle sfide del mondo, non è mai stata schizzinosa; ma si è sempre rimboccata le maniche ed è stata in prima fila in tutte le situazioni di bisogno e di difficoltà, quelle straordinarie, come pestilenze, terremoti e guerre, e quelle ordinarie, come la povertà diffusa, gli orfani, le ragazze traviate da recuperare, ecc. Dunque il punto non è che per avere la vera fede bisogna fare le opere buone, il che (per un cattolico, non per un protestante) è scontato; ma come si fanno le opere buone. Perché anche un’opera buona, fatta con spirito modano, ribelle, non evangelico – ad esempio, come nella teologia della liberazione, insegnando ai poveri l’odio verso i ricchi – diventa cattiva, o comunque suscettibile di sviluppi non buoni. Don Lorenzo Milani insegnava ai bambini di Barbiana a istruirsi e a capire il mondo, e questa è una cosa buona; ma lo faceva con spirito di rancore sociale e di aperta ribellione, insegnando loro a disprezzare i professori (vedi la Lettera a una professoressa) e dando lui stesso il cattivo esempio dell’aperta disobbedienza, ostinata e saccente, al proprio vescovo. Sfamare i poveri e i senzatetto è un’opera di misericordia corporale; ma pretendere di farlo all’interno di una veneranda chiesa, trasformando il luogo di preghiera e del Sacrificio eucaristico in una sala da pranzo, è cosa decisamente cattiva: tradisce una volontà di sconsacrare il sacro, di mondanizzare la fede. E una fede mondana non è più la fede cattolica, ma quella cosa brutta che vediamo spuntare adesso dalle encicliche di Bergoglio, dai suoi incontri interreligiosi, dalla sua ossessione per il clima, l’ambiente, i migranti e il sacro vaccino; dal suo aperto elogio del disordine, del peccato e dalla prona acquiescenza a tutto ciò che piace al mondo, comprese le odiose misure pseudo sanitarie di un governo pazzo, che a sua volta si è sdraiato ai voleri della crudele oligarchia finanziaria globalista.

In conclusione: la vera differenza fra i santi preti del buon tempo antico e le mezze caricature di preti bergogliani modernisti, ambientalisti e vaccinisti, è che i primi avevano la fede, e, con la fede, la vera dottrina: quella compendiata nel Catechismo di San Pio X; mentre i secondi hanno sempre in bocca il dialogo, la filologia, la sociologia, la psicanalisi, l’ecumensimo; ma non la pace del cuore.

  

Quel profumo di vita santa dei vecchi sacerdoti 

di Francesco Lamendola

 

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