Via tutti i vescovi irlandesi? Il Papa di fronte a una scelta drammatica
4 agosto 2011 -
La curia romana sta pensando di chiedere le dimissioni di tutti i vescovi irlandesi, una ventina circa, nominati prima del 2003. La proposta, fatta qualche settimana fa da padre Vincent Twomey, ex allievo di Benedetto XVI e docente al seminario irlandese di Maynooth, fa discutere coloro che in Vaticano sono chiamati a ruoli di responsabilità. Anche se manca ancora la benedizione papale, non sono pochi coloro che ritengono che le dimissioni sarebbero il segnale opportuno offerto a una chiesa in evidente difficoltà. Fu nel 2003 che l’allora cardinale Ratzinger ottenne da Giovanni Paolo II la concessione di alcune facoltà speciali per gestire da Roma i casi di “delicta graviora”, tra questi i casi di preti che abusano di minori. Prima di quella data la responsabilità era invece principalmente nelle mani dei singoli vescovi.
Il 20 luglio è stato il primo ministro irlandese Enda Kenny, report governativi alla mano, ad accusare i massimi vertici della gerarchia cattolica di aver protetto i preti pedofili nella diocesi di Cloyne governata fino al 2010 dal “segretario di tre Pontefici” John Magee. A Kenny il Vaticano ha annunciato che risponderà entro la fine di agosto con uno statement che la segreteria di stato sta mettendo a punto. Ma oltre Tevere si discute anche dell’idea di appoggiare la proposta di Twomey. “E’ l’unica strada – ha scritto l’ex allievo di Ratzinger – per garantire la trasparenza nello scandalo pedofilia”. Una strada che, se percorsa, lascerebbe in sella alla chiesa irlandese soltanto l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin (che nella curia romana ha reso un lungo servizio dal 1986 al 2001 come sottosegretario e poi segretario di Giustizia e pace), tra i primi a fare propria la linea di maggior rigore del Papa. Martin, in accordo con Roma, potrà gestire la nomina di amministratori apostolici che vadano a sostituire, all’inizio senza dignità episcopale, le diocesi lasciate vacanti. E, in un secondo momento, l’accorpamento delle diocesi più piccole con quelle più grandi in modo da garantire maggiore controllo ed efficienza.
Il Papa è sotto attacco non solo per le vicende irlandesi, ma anche per il dissenso verso Roma manifestato in Austria, Stati Uniti e Australia da gruppi più o meno vasti di preti cattolici e di fedeli che chiedono l’abolizione del celibato sacerdotale, il conferimento del sacerdozio alle donne e la comunione ai divorziati risposati. Cosa fa il Papa per rispondere al fuoco? “Niente. Riposa a Castel Gandolfo, nel ritiro estivo che per il secondo anno consecutivo preferisce alle Alpi”, si è letto sui principali giornali irlandesi. Giornali che hanno ricamato sulle notizie provenienti dal Castello e offerte il 22 luglio scorso dall’Osservatore Romano: le giornate del Papa hanno “uno spazio maggiore per la meditazione, la lettura personale, l’attenzione alla natura, la distensione”. E ancora: “Passeggiate nel verde, solitamente pomeridiane, scandite dalla preghiera mariana del rosario recitato con il segretario particolare e i collaboratori più stretti, di norma concluso davanti all’immagine della Madonna cara a Pio XI”.
I media stranieri hanno mancato di sottolineare una cosa: per Ratzinger il silenzio e il riposo sono occasione di lavoro. Perché per lui governare la chiesa non è soltanto pensare e adottare efficaci misure pratiche, ma è anche altro. Come ha scritto sul suo blog il vaticanista Sandro Magister, infatti, Benedetto XVI è consapevole che “la crisi della chiesa non si risolve con i cambiamenti pratici richiesti dai suoi critici, ma con una fede più viva e più vera”. Un esempio eclatante di questo modus operandi si ebbe il 10 marzo del 2010. Nei giorni in cui il New York Times portava alla ribalta il caso di padre Lawrence Murphy con i suoi abusi su minori perpetrati in una scuola per sordi del Wisconsin, il Papa spiegò che “governare la chiesa non è semplicemente un fare, ma è soprattutto pensare e pregare”. E ancora: “Non si governa la chiesa solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime”.
Ecco perché, viste con questi occhiali, non stridono le immagini che in queste ore arrivano da Castel Gandolfo. Mentre i media internazionali riportano l’indignazione irlandese, Benedetto XVI è immortalato mentre sorride osservando alcuni cittadini di Traunstein (cittadina della Baviera meridionale dove Ratzinger celebrò la sua prima messa l’8 luglio 1951) che inscenano per lui un balletto tradizionale. L’Irlanda è nei pensieri del Papa. Come lo sono i discorsi da preparare per il viaggio di agosto in Spagna e per quello di settembre in Germania. Quindi la terza e ultima parte del libro su Gesù di Nazaret e il tema della fede da sviscerare in vista del 2012, l’anno che la chiesa dedicherà proprio a questa virtù teologale. A Castello l’intervento di Enda Kenny in Parlamento è stato letto con attenzione. In particolare quella frase di Ratzinger che Kenny ha citato per dimostrare una certa apatia del capo della chiesa cattolica di fronte al problema dei preti pedofili: “Standard di condotta appropriati alla società civile o al funzionamento di una democrazia non possono essere puramente e semplicemente applicati alla chiesa”, disse Ratzinger. Parole che Kenny ha estrapolato dal paragrafo 39 dell’istruzione del 1990 “Donum veritatis” sulla vocazione ecclesiale. Il testo venne firmato da Ratzinger in quanto prefetto della Dottrina della fede. Ratzinger non parlava delle verità di fede, ma del fatto che queste non potevano essere desunte per votazione democratica. E, comunque, non si riferiva alla pedofilia del clero. Ma Kenny l’ha citato ugualmente e le sue parole hanno provocato indignazione.
Perfino il Financial Times si è indignato. E in un editoriale di fuoco, oltre a definire il Vaticano “arrogante”, l’autorevole quotidiano londinese ha anche detto che solo pochi premier possono permettersi di attaccare così direttamente la Santa Sede come ha fatto Kenny. Perché solo in pochi hanno un motivo valido per farlo. Kenny, naturalmente, è uno di questi. Che il Vaticano auspichi le dimissioni dei vescovi e lavori in tutti i modi per risolvere una situazione complessa non significa ovviamente che calerà le braghe sulla richiesta, definita da monsignor Girotti in un’intervista al Foglio “irricevibile”, dell’abolizione del segreto confessionale.
Ratzinger vuole una chiesa pulita, ma non vuole che la chiesa rinunci a ciò che è, ai propri sacramenti, alla propria storia.
E’ una condotta che il Papa ha mantenuto anche con i Legionari di Cristo. Proprio a metà luglio, inaspettatamente e nel quasi totale silenzio dei media, la Santa Sede ha mostrato di essere a un passo dalla soluzione di un caso usato dagli accusatori per dimostrare che la pedofilia, il Vaticano, se l’è coltivata in casa: il caso Marcial Maciel Degollado, il prete fondatore dei Legionari, che sotto il pontificato di Wojtyla oltre a custodire la vocazione di centinaia di sacerdoti ha abusato di minori e ha mantenuto una relazione con una donna dalla quale ha avuto una figlia. “Se dai frutti si riconosce l’albero, come si spiegano frutti così rigogliosi (i Legionari) da un albero tanto marcio (Marcial Maciel)?”, ha chiesto recentemente in via riservata un monsignore della curia romana a Benedetto XVI. “Tutto ciò è un mistero anche per me”, ha risposto il Papa. Il quale non vuole la fine dei Legionari quanto la fuoruscita dalla Legione dei “dissidenti”, poche persone ancora legate alla figura di Maciel. A dispetto di un Vaticano descritto spesso in modo troppo frettoloso incapace di governo e di offrire adeguate risposte ai problemi, la svolta recente sui Legionari è un passaggio da annotare. Il Papa il 9 luglio del 2010 nominò il cardinale Velasio De Paolis suo delegato presso i Legionari. Il suo compito era uno: sovrintendere la transizione dei poteri all’interno della Legione dai fedelissimi di Maciel ad altri. Dopo un anno De Paolis pareva non avesse fatto nulla. Tanto che anche in curia romana iniziavano i mugugni. “Ma De Paolis che fa?”, si domandavano i più. Con un Vaticano sotto tiro, accusato di coprire i pedofili, l’attendismo di De Paolis iniziava a essere un problema. Poi, a metà luglio, la svolta. Ovvero la decisione di allontanare padre Luís Garza Medina dal vertice della Legione. Garza era del vecchio gruppo di potere. Fino all’ultimo ha difeso Maciel. Fino all’ultimo ha cercato di restare al comando. Ma poi è capitolato.
E’ una condotta che il Papa ha mantenuto anche con i Legionari di Cristo. Proprio a metà luglio, inaspettatamente e nel quasi totale silenzio dei media, la Santa Sede ha mostrato di essere a un passo dalla soluzione di un caso usato dagli accusatori per dimostrare che la pedofilia, il Vaticano, se l’è coltivata in casa: il caso Marcial Maciel Degollado, il prete fondatore dei Legionari, che sotto il pontificato di Wojtyla oltre a custodire la vocazione di centinaia di sacerdoti ha abusato di minori e ha mantenuto una relazione con una donna dalla quale ha avuto una figlia. “Se dai frutti si riconosce l’albero, come si spiegano frutti così rigogliosi (i Legionari) da un albero tanto marcio (Marcial Maciel)?”, ha chiesto recentemente in via riservata un monsignore della curia romana a Benedetto XVI. “Tutto ciò è un mistero anche per me”, ha risposto il Papa. Il quale non vuole la fine dei Legionari quanto la fuoruscita dalla Legione dei “dissidenti”, poche persone ancora legate alla figura di Maciel. A dispetto di un Vaticano descritto spesso in modo troppo frettoloso incapace di governo e di offrire adeguate risposte ai problemi, la svolta recente sui Legionari è un passaggio da annotare. Il Papa il 9 luglio del 2010 nominò il cardinale Velasio De Paolis suo delegato presso i Legionari. Il suo compito era uno: sovrintendere la transizione dei poteri all’interno della Legione dai fedelissimi di Maciel ad altri. Dopo un anno De Paolis pareva non avesse fatto nulla. Tanto che anche in curia romana iniziavano i mugugni. “Ma De Paolis che fa?”, si domandavano i più. Con un Vaticano sotto tiro, accusato di coprire i pedofili, l’attendismo di De Paolis iniziava a essere un problema. Poi, a metà luglio, la svolta. Ovvero la decisione di allontanare padre Luís Garza Medina dal vertice della Legione. Garza era del vecchio gruppo di potere. Fino all’ultimo ha difeso Maciel. Fino all’ultimo ha cercato di restare al comando. Ma poi è capitolato.
Ratzinger governa col passo lungo. Con discorsi, omelie, encicliche, chiama la chiesa alla riforma interna, quella del cuore. Ma insieme agisce con correzioni di rotta pratiche magari poco visibili ma molto efficaci. E’ ancora Magister a dire la sua in merito, laddove definisce Benedetto XVI “il Papa legislatore”. Dice: l’essere legislatore “definisce un tratto essenziale del suo profilo, della sua visione su come governare la chiesa”. Perché “se la tempesta che da qualche decennio tormenta la chiesa è dovuta a delle ‘rotture’ rispetto alla sua tradizione e identità propria – come Benedetto XVI ha detto in ripetute occasioni, a partire del memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 sull’interpretazione del Concilio Vaticano II – una di queste linee di rottura il Papa la vede proprio sul terreno del diritto canonico”. E’ per ovviare a queste derive che Ratzinger s’è fatto legislatore, promotore di nuove leggi soprattutto in campo liturgico, finanziario, penale ed ecumenico. Con un criterio guida: la riforma nella continuità. Un criterio che per quanto riguarda la pedofilia ha avuto un suo punto di importante espressione nel 2010 quando ha approvato le nuove norme sui “delicta graviora” e in particolare sugli abusi sessuali.
Oltre alle leggi, l’approfondimento più alto, quello a livello di studi, di seminari: un vertice per “una risposta globale al problema degli abusi sessuali e della tutela dei vulnerabili” sarà organizzato dal 6 al 9 febbraio 2012 dalla Pontificia università Gregoriana, con l’appoggio di diversi dicasteri della Santa Sede e con la benedizione del Papa. Sarà intitolato “Verso la guarigione e il rinnovamento”, parole che richiamano la lettera che Ratzinger ha scritto ai cattolici irlandesi nel marzo del 2010.
Pubblicato sul Foglio mercoledì 3 agosto 2011
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