IL DIO DI LUTERO |
Nella sua recente visita in Germania il Papa, sostando nell’ex-convento degli Agostiniani di Erfurt, dove visse Lutero, ha elogiato la sua religiosità, come già aveva fatto Giovanni Paolo II parlando di “profonda religiosità”. Ha infatti ricordato il bisogno del giovane Lutero di “trovare un Dio misericordioso”, il che, ha notato il Papa, fu evidentemente legato al senso del peccato che lo affliggeva. Da qui il Pontefice ha preso spunto per notare come oggi purtroppo assai pochi si affliggono per le proprie colpe e si rivolgono a Dio per ottenere la sua misericordia. In questa occasione il Papa, come è ormai lo stile dei Pontefici del postconcilio, ci ha dato un ennesimo esempio del modo di praticare l’ecumenismo: evidenziare e riconoscere francamente quei punti di dottrina o di morale cristiana che noi cattolici abbiamo in comune con i fratelli separati. E’ infatti questo il modo per favorire l’unione e porre le basi per l’auspicata riunificazione. Questo sforzo di ...... cercare ciò che ci unisce non può tuttavia lasciare totalmente nell’ombra ciò che ci divide, perché in fin dei conti lo stesso documento “Unitatis redintegratio” del Concilio Vaticano II dedicato all’ecumenismo, auspica che un giorno i fratelli separati entrino nella Chiesa cattolica, il che suppone evidentemente che essi abbandonino i loro errori, nel caso presente, gli errori dei protestanti a suo tempo denunciati dal Concilio di Trento. Questo vuol dire che una retta concezione dell’ecumenismo non può non inserirsi nel quadro di quella esegesi della “continuità nella riforma”, la regola d’oro che il Papa ci ha indicato per interpretare correttamente gli insegnamenti dottrinali e pastorali del Vaticano II. Tale chiave ermeneutica ci porta allora a vedere il rapporto con i protestanti promosso dall’ultimo Concilio, non in rottura, sebbene in continuità con quel Concilio che fu indetto apposta per affrontare il problema di Lutero, il Concilio di Trento, benchè a tutta prima la linea di questo Concilio possa sembrare ben diversa per non dire contraria a quella del Vaticano II. Invece recheremmo un grave danno all’ecumenismo se lo impostassimo dimenticando le indicazioni del Tridentino, le quali viceversa vanno intese come complementari a quelle del Vaticano II. Nè d’altra parte si può restare fermi al Tridentino dimenticando cinque secoli di storia della Chiesa. Infatti mentre il Vaticano II evidenzia i punti di convergenza, il Tridentino sottolinea gli errori. Ora, siccome gli uni e gli altri non battono sullo stesso terreno, è chiaro che tra i due Concili non c’è nessuna contraddizione, ma, al fine di assumere oggi l’atteggiamento giusto nei confronti dei luterani, occorre congiungere sapientemente e con somma prudenza, tenendo conto delle circostanze, le condanne del Tridentino con le aperture del Vaticano II. Parlo di sapienza e prudenza, perché l’ecumenismo, se ha uno sfondo teoretico e dogmatico, tuttavia in se stesso è una questione squisitamente pastorale, per la quale la verità certo non va taciuta, ma va proposta a tempo e a luogo e con la dovuta carità e giustizia. Sarebbe sbagliato un ecumenismo che tacesse sistematicamente circa gli errori protestanti, ma non sarebbe affatto ecumenismo un certo atteggiamento aggressivo, caratteristico del periodo preconciliare, il quale partisse sistematicamente lancia in resta contro gli errori protestanti veri o presunti, con la tendenza altresì ad identificare l’errore con l’errante, cosa che il Vaticano II ha ordinato di evitare con cura, dato che se l’errore certamente va condannato, l’errante resta sempre una persona degna di rispetto, la quale altresì nel suo errare può essere anche in buona fede, e quindi innocente davanti a Dio e soggetto di diritto alla libertà religiosa. Poiché alcuni hanno mal digerito le parole del Papa ad Erfurt, quasi che il Santo Padre sia stato cedevole verso il protestantesimo o quanto meno ambiguo, vorrei qui aggiungere ciò che il Papa, in linea di principio, avrebbe potuto benissimo dire, perché tratto dal Concilio di Trento, ma che non ha detto per carità cristiana ed opportunità pastorale. Veniamo dunque a questo grande tema della misericordia divina. E’ vero che il Lutero giovane, angosciato per i propri peccati e spaventato per il rischio di dannarsi, cercò affannosamente come trovare un Dio misericordioso. Tuttavia egli vide aumentare le sue apprensioni inquantochè, sperando in un primo tempo di farsi dei meriti e di potersi correggere con uno straordinario impegno nelle buone opere e nelle osservanze regolari della propria vita religiosa, si accorse del fatto che comunque la sua carne restava assai fragile riguardo alle tentazioni ed alle passioni, tanto da convincersi di non potersi liberare dalla colpa, che egli confondeva con la stessa tendenza al peccato, ignorando o non comprendendo il fatto che in buona dottrina cattolica mentre la tendenza al peccato (concupiscentia o fomes peccati) è inestinguibile anche nei santi di quaggiù, il peccato, benchè sempre si ripresenti, è tuttavia cancellabile in forza della grazia divina e del pentimento. Invece Lutero si ficcò in testa che Dio lo riprovasse qualunque cosa facesse e questa convinzione patologica divenne in lui un peso così insopportabile, che per liberarsi da questo peso e trovare un Dio misericordioso, finì col rinunciare alla lotta contro il peccato facendosi la convinzione che qualunque cosa egli avesse fatto o non fatto, in ogni caso Dio lo perdonava, per cui doveva esser certo “per fede” della sua predestinazione alla salvezza. Passò dalla disperazione alla presunzione, evidente mancanza di equilibrio. L’unica cosa da fare era allora, per Lutero, credere per “fede” (“fede fiduciale”) di esser salvo, anche se continuava a sentirsi in colpa e restava l’impressione di un Dio adirato, “dio” che però d’ora innanzi Lutero attribuì a un trucco del demonio mascherato da divinità. Nel contempo Dio, che continuava ad apparire adirato, si mascherava secondo lui sotto l’aspetto del demonio e Cristo appariva come maledetto e dannato all’inferno per amor nostro (sub contraria specie). Fu così che Lutero si rifiutò di ammettere l’oggettività e quindi l’obbligatorietà della legge morale naturale e degli stessi comandamenti divini. Restavano, con forti riserve, quelli insegnati dalla Scrittura (sola Scriptura), ma non quelli insegnati dalla Chiesa e dalla Tradizione, come per esempio il sacramento della penitenza, il dovere delle buone opere o il ministero sacerdotale o sacrificio della Messa o il dovere di obbedire al Magistero della Chiesa o il valore dei voti religiosi. Da qui il ben noto rifiuto di accettare l’interpretazione della Scrittura fornita dalla Chiesa (libero esame). Il rispetto di questi valori non apparve più necessario a Lutero in ordine al conseguimento della salvezza, ma gli parve sufficiente sapere (sola fides) che Cristo, del quale certamente accettava la divinità, era morto per lui e che aveva scontato per lui i suoi peccati. Cristo diventava la sua “giustizia” senza che fosse più necessario che si procurasse egli stesso, dopo essere stato giustificato, una giustizia mediante le opere buone (pecca fortiter et crede firmius). Lutero continuò a credere nella grazia, ma cominciò a concepirla non più come una proprietà o qualità soprannaturale intrinsecamente aderente all’anima, che così viene realmente purificata, ma solo come un semplice favore divino esterno (supra nos), un’imputazione forense ed estrinseca di salvezza ad opera del Padre che guarda solo ai meriti del Figlio crocifisso, mentre Martino restava peccatore non solo tendenzialmente ma in atto. “Ogni nostro atto - diceva - è un peccato mortale”. Eppure per lui siamo ugualmente in grazia, purchè ci crediamo (simul iustus et peccator). Il risultato di queste operazioni fu che Lutero credette di vedere, come egli stesso ebbe a dire, “il cielo aperto”, ma nel contempo, come attestano i suoi biografi, non cessarono i tormenti interiori e i rimorsi di coscienza, che egli pertanto si sforzava di attribuire all’azione del demonio. Sta di fatto che questa “fede” nel fatto di essere oggetto della misericordia divina a prescindere dalle buone opere non favorì certo in Lutero la pratica dell’ascesi, la crescita delle virtù e la correzione dei suoi difetti, mentre aumentarono in lui l’arroganza e la presunzione di potersi salvare senza merito. Del resto la sua collaborazione alla grazia fu bloccata dalla sua malsana convinzione che col peccato originale la ragione fosse accecata (“ragione puttana del diavolo”) e il libero arbitrio spento (“servo arbitrio”), per cui la salvezza era opera di un Dio arbitrario ed irrazionale, che ricordava la concezione, come Lutero stesso ebbe a riconoscere, non dell’autentico Dio biblico, misericordioso sì ma anche giusto, ma bensì del Dio di Guglielmo di Ockham(1), il quale nella sua assoluta “libertà” poteva volere e giustificare non solo il bene ma anche il male. La fede era tanto più autentica quanto più contrastava con la ragione. In conclusione dobbiamo notare che questa falsa concezione della divina misericordia, di un Dio che lascia correre tutto e non castiga mai (vedi la recente polemica sul caso De Mattei), oppure che non obbliga mai (vedi le sciocchezze recentemente propalate dal libro “Io e Dio” di Mancuso) si è oggi purtroppo pericolosamente diffusa anche tra noi cattolici, con l’aggravante del fatto, rispetto a Lutero, che se almeno in lui ci fu veramente l’autentica e sincera angoscia di sentirsi in colpa, in questi nipotini liberali del Riformatore abbiamo solo una posizione di comodo e il desiderio di farla franca in ogni modo. Ma questo non è vero cristianesimo, questa è una droga deresponsabilizzante che non ci fa diventare santi ma mette in serio pericolo - con la scusa della divina misericordia - la nostra stessa eterna salvezza. NOTE 1) Ego sum occamisticae factionis P. Giovanni Cavalcoli, OP Riscossa Cristiana |
http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/9083-il-dio-di-lutero
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.