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lunedì 7 novembre 2011

Il prossimo Papa

Ravasi mette bocca su tutto, ma tace se si tratta di difendere il Papa

(di Claudio Siniscalchi su “l’Occidentale” del 5/11/2011) Sono passati sei anni da quando Joseph Ratzinger è salito sulla cattedra di Pietro con il nome di Benedetto XVI. Un periodo di tempo abbastanza sufficiente per tirarne un bilancio. Ha fatto bene? Ha fatto male? Ha fatto un po’ bene e un po’ male? Per Marco Politi, vaticanista di “la Repubblica” approdato oggi al “Fatto Quotidiano”, non ne ha azzeccata una.
Benedetto XVI ha sbagliato tutto. Lo sostiene in un saggio fresco di stampa: “Joseph Ratzinger. Crisi di un papato” (Laterza, p. 344, € 18), al quale pone la preziosa introduzione il giurista Stefano Rodotà. Il «Politi pensiero» sul ruolo dell’attuale pontefice viene recensito dal «Domenicale» de «Il Sole 24 Ore» (9 ottobre), con grande favore, da Massimo Teodori.

La Chiesa, seguendo Ratzinger, ha imboccato una china regressiva. Una vera e propria catastrofe, zeppa di insuccessi. Il discorso di Ratisbona che ha fatto infuriare i mussulmani. Le alienazioni delle simpatie ebraiche. L’ostinata opposizione all’uso dei preservativi per fronteggiare l’AIDS in Africa. Il riassorbimento dei vescovi scismatici di Lefebvre, tra cui un negazionista. Le reticenze e la sabbia gettata a palate sulla questione della pedofilia ecclesiastica.
Teodori condivide i gravi (in taluni casi gravissimi) rilievi mossi da Politi. Con Ratzinger la Chiesa di Roma sta franando. Chiuso solitario nei palazzi apostolici, lontano dal mondo vivo e reale, curvo sui libri di teologia, il Pontefice sbaglia ogni mossa. Che dire? A dire qualcosa ci pensa la studiosa Lucetta Scaraffia. Sulla stessa edizione del «Domenicale» ribatte punto su punto le contestazioni di Politi (fatte proprie da Teodori). E non usa mezzi termini.
Scaraffia contesta innanzitutto l’uso delle fonti, questione centrale nell’investigazione storica. Rileva che sono parziali e spesso piegate allo scopo della polemica. E troppi pareri riportati virgolettati sono di alti prelati, tutti però rigorosamente anonimi, fra cui alcune rivelazioni su cosa accadde durante l’elezione di Benedetto XVI. Chi partecipa al conclave giura su Dio e si impegna a non rivelare nulla.
Appena esce invece si confessa con Politi: che razza di fonte è mai questa? Inoltre vengono menzionati solo gli aspetti negativi dei sei anni di pontificato, omettendo di citare i successi, come ad esempio i viaggi negli Stati Uniti, Inghilterra e Germania. Ci sarebbe ancora molto da dire. Ma mettiamoci un punto. Sia Politi che Teodori sono vittime di un pregiudizio anticristiano, e il loro lavoro giornalistico (lasciamo stare la storiografia, per carità) si regge su queste gambe.
Si potrà obiettare che Lucetta Scaraffia difende la Chiesa da posizioni cattoliche. È vero. Difende la Chiesa da posizioni cattoliche. Quello che non fa il cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della cultura della Chiesa ratzingeriana (Benedetto XVI lo ha nominato vescovo e Presidente del Pontificio consiglio della cultura nel 2007, e lo ha elevato a cardinale nel 2010) e storico collaboratore del «Domenicale». Ravasi scrive a mitraglia.
Infatti «Il Sole» annuncia, sempre sullo stesso numero, corredato da un suo articolo su teologia e fisica, che il cardinale ha addirittura un blog all’interno della piattaforma del giornale. Un tema così determinante, corredato da un capo di accusa così potente, avrebbe davvero meritato un suo intervento. Ma il bel faccione sorridente di Ravasi dà l’impressione di trovarsi lì per puro caso.
Infatti sempre sul «Domenicale» della settimana successiva (16 ottobre), a testimonianza delle tante lettere ricevute, ne viene pubblicata una di un lettore, alla quale risponde ancora Lucetta Scaraffia. Nella risposta ribadisce la debolezza dell’impianto storiografico del libro di Politi. Non trattasi di bilancio del pontificato, ma di ostile requisitoria. E cosa fa il cardinale Ravasi? Fa sentire il suo parere, emette un flebile pensiero? Macché.
Naturalmente scrive, come sempre. È l’anticipazione di un più corposo testo estratto da un volume collettivo: “Il cortile dei gentili. Credenti e non credenti di fronte al mondo d’oggi”, edito da Donzelli. Certo, il dialogo è importante. Ci mancherebbe! Ma la verità è altra cosa.
Se sulle pagine alle quali collabora da anni con autorevolezza, Benedetto XVI viene incalzato e demolito con argomentazioni davvero bizzarre, possibile che il ministro della cultura della Chiesa non avverta l’opportunità di esprimere una precisazione, un punto di vista, un commento, un semplice pensiero? Se anche l’esponente ufficiale della cultura cattolica chiude gli occhi, si tappa le orecchie, volge dall’altra parte lo sguardo, lasciando sola nella polemica una storica intelligente e coraggiosa, che se ne infischia del «politicamente corretto» e difende le ragioni del Pontefice messo alla berlina, la dice lunga sull’utilità di certe istituzioni vaticane.
Naturalmente Ravasi potrà sempre dire che non era il caso di rispondere, che l’avrebbe voluto fare ma gli è mancato il tempo, che la funzione ricoperta gli impedisce di scendere nell’agone, che era impegnato nella stesura dell’ennesimo testo per l’ennesimo libro sui rapporti tra credenti e non credenti. Oppure semplicemente che si trovava al Pontificio consiglio della cultura, o sul «Sole 24 ore», per caso. Al di là degli scherzi, è chiaro perché Ravasi non ha nessuna voglia di affrontare il tema: è «politicamente scorretto».
Ravasi, giustamente, crede nel dialogo con gli atei. Per questa ragione, raccogliendo l’invito di Benedetto XVI, ha dato vita al «Cortile dei gentili», cenacolo di pensatori, perlopiù ricco di contestatori, blandi o ardimentosi, della Chiesa cattolica. L’anticipazione sul «Domenicale» era appunto il suo contributo al dialogo, inserito assieme a quelli di Julia Kristeva, Sergio Givone, Massimo Cacciari, Augusto Barbera, Vincenzo Balzani e Giuliano Amato. Il «Cortile» ricorda molto la cattedra dei non credenti di martiniana memoria.
Chi si oppose e la contestò si beccò l’accusa di «oscurantista». Oggi l’hanno capito tutti che non è servita a niente. O meglio: è servita solo al cardinale Martini per diventare una celebrità mediatica, un antipapa di sinistra da opporre al reazionario Giovanni Paolo II, amato da «la Repubblica» e il «Corriere della Sera» e dal composito universo radical chic italiano. Nel fervore «dialoghista» il cardinale Ravasi sceglie come interlocutore Julia Kristeva. Cioè psicoanalisi, semiotica e strutturalismo elevati all’ennesima potenza.
La linguista francese intravvede all’orizzonte un «nuovo umanesimo». Voi pensate: cristiano? Macché, sciocchezze! Un umanesimo ostile alla Chiesa, poiché rimanda a coloro che hanno contribuito in maniera mirabile a demolire il cristianesimo, da Voltaire al divino marchese de Sade. Tutto frullato aggiungendo abbondanti dosi di Lacan e femminismo oltranzista.
Un polemico articolo di Francesco Angoli su «Il Foglio» (31 ottobre) ha rilevato questa così palese incongruenza. Ma a che serve, si è domandato, dialogare con Julia Kristeva, invitarla addirittura ad Assisi? Il direttore Giuliano Ferrara, in una replica, ha difeso apertamente Ravasi, ritenendolo «uomo di chiesa e di cultura che lavora con il Papa e per il Papa, forte delle sue idee e, credo, consapevole della distanza fra dibattito e magistero. Però il magistero non è e non può essere una prigione».
Rimane però il nostro dubbio: cosa possa uscire da questo dialogo non ci è dato di capire. Ma il cardinale, certamente, ne saprà più di noi. Parla e scrive volentieri Ravasi, quando si tratta di cimentarsi con argomenti alla moda, molto progressisti, molto salottieri. Ma mentre accoltellano il Papa alla schiena, bombardano selvaggiamente il suo operato, attraverso un libello zeppo di luoghi comuni, il fine intellettuale e teologo, l’influente ministro della Chiesa, mette il silenziatore.
Si è mai visto un vescovo e poi cardinale nominato dal Papa, e da quello stesso Papa messo a capo di un importante dicastero vaticano, difendere quel medesimo Papa dagli attacchi pretestuosi di un sistematico denigratore della Chiesa e del Papato? Meglio lasciar perdere. Più saggio lasciar perdere. Ecco, appunto: lasciamo perdere.
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