ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 30 novembre 2011

Ubi Major?

Quando al Concilio lo Spirito perse la maiuscola

nov 27, 2011

QUANDO AL CONCILIO LO SPIRITO PERSE

 LA MAIUSCOLA

Di chi era quel sedile? Evento: si, no, forse… L’Ospite d’onore che è arrivato in tempo. Se lo Spirito perde la maiuscola. Ritorno al Concilio, dopo l’utopismo anarchico. L’inquieto e il carismatico, due capitani sapienti. Il Concilio che “piacque a Dio”.


  

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza…”: l’incipit del primo capitolo della Dei Verbum, uno dei più celebri documenti conciliari, mi serve per sottolineare due elementi. Il primo elemento fa riferimento ai termini stessi usati nel documento conciliare: queste parole, infatti, sono una ripresa, sia pure con alcune modifiche, della Dei Filius del Vaticano I. Questo ci serva per capire che è nell’ottica del solco già segnato dalla tradizione che i Padri conciliari vollero muoversi, non per un omaggio formale, ma nella ricerca di un appoggio sostanziale che consentisse di “rinnovare” senza stravolgere. Il secondo elemento è un breve pensiero che scaturisce dall’espressione “piacque a Dio”. Nella prospettiva cattolica, dobbiamo vedere sempre operante una Provvidenza che agisce al di là dei disegni umani: se il Concilio vi fu, se fu reso possibile, se nessun accadimento esterno o interno impedì la sua attuazione, non possiamo considerarlo un errore di percorso nella vita della Chiesa. “Nella sua bontà e sapienza” il piano di Dio non conosce cadute, errori, imperfezioni. Sta a noi conformarci per evitare che i nostri comportamenti “cattivi” e “stolti” ne offuschino lo svolgimento, l’esattezza, la perfezione.
  di Claudia Cirami
 DI CHI ERA QUEL SEDILE?
Quei sedili alti, simili a troni. Imponenti ma, nello stesso tempo, vicinissimi. L’emozione quasi mi serrava la gola: mi trovavo di fronte alle sedie su cui i padri conciliari si erano seduti nelle varie sessioni in cui si era svolta l’assise ecumenica. Ero a Bologna in una delle sale che ospitavano la mostra per i quarant’anni del Vaticano II. Con un senso del sacro pari solo alla mia ingenuità di allora, mi ero accostata con mano incerta a quei santi sedili e li avevo accarezzati con devozione, come fossero reliquie. Appena uscita da un triennio di studi teologici in cui avevo maturato la convinzione che l’insulto più azzeccato nei confronti di qualche fratello di fede fosse l’aggettivo “preconciliare” (come sinonimo di “bigotto” e “oscurantista”), per me non c’era davvero emozione più grande. Chi si era seduto su quei sedili? Il card. König? Il card. Lercaro? L’arcivescovo di Cracovia, futuro Giovanni Paolo II? Non importava: il punto era che quei sedili avevano partecipato al farsi della storia della Chiesa. Anzi, di più: per quello che credevo allora, quei sedili avevano ospitato – o seggi beati e inconsapevoli di tanta fortuna! – coloro che avevano partorito la nuova Chiesa, quella vera, più vicina al popolo di Dio, che si era liberata con nonchalance da un passato opprimente e pesante.

EVENTO: SI, NO, FORSE…
Da allora – era il 2005 – non molti anni sono passati, in verità. Sono stati, però, anni di riflessione per me, nel tentativo di comprendere che cosa significò veramente il Concilio Vaticano II per la vita della Chiesa, senza mitizzazioni abusive – delle quali ero prigioniera – né demolizioni gratuite. Con la speranza (per molti versi destinata a rimanere sempre tale) di arrivare al vero Vaticano II: non quello idealizzato da molti come passepartout per qualsiasi bizzarria dal sapore eterodosso, né quello denigrato da altrettanti come simbolo del Male assoluto e della rovina della Chiesa. Parlo di speranza più che di concreto approdo (e non solo per quanto mi riguarda): ancora adesso, che stiamo velocemente avviandoci verso i cinquant’anni dal Vaticano II, spesso non c’è quel distacco emotivo necessario a valutare serenamente questo evento. Lo stesso termine “evento”, applicato al Vaticano II, per alcuni significherebbe già rottura con il passato, mentre altri accettano il termine in rapporto a come il concilio fu recepito dai media e dall’opinione pubblica. Questo solo per dire come ancora sul Vaticano II si è lontani dall’aver raggiunto se non l’obiettività, che è un mito moderno, quanto meno un’approssimativa unanimità di giudizio.

L’OSPITE D’ONORE CHE È ARRIVATO IN TEMPO
Leggiamo dal testamento spirituale di Giovanni Paolo II: “Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ha elargito…”.
Il Concilio fu davvero un dono? Nell’assise ecumenica lo Spirito Santo fu l’ospite d’onore? Tra i cattolici circola una barzelletta: i vescovi sono quelli che invocano sempre lo Spirito Santo ma, nonostante Egli accorra presto, ogni volta hanno già fatto di testa loro. E’ stato così anche al Vaticano II? Guardando a quei documenti finali, risultato di molte discussioni, possiamo dirlo con grande tranquillità: lo Spirito Santo, quella volta, arrivò in tempo, prima che tutto venisse già deciso secondo “tribunali” umani.
Come infatti poter comprendere, se non con l’assistenza dello Spirito Santo, la presenza in quel concilio di teologi che si distinsero sia prima che dopo per posizioni “disinvolte” (per non dire di peggio) nei confronti della dottrina cattolica e che pure non fecero danni nei documenti conciliari? Pensiamo ai vari RahnerCongarde LubacKung…, il “fior fiore” della moderna teologia dove molto viene messo in discussione e poco resta di certo della dottrina cattolica: eppure, i documenti conciliari rimangono sobri, pacati, ortodossi. Pensiamo a quale era il lavoro di periti ed esperti. Questi erano i compiti che svolgevano: 1) “redigere i nuovi schemi destinati a sostituire quelli – ed erano quasi tutti – elaborati durante il periodo preparatorio” ; 2) “preparare gli interventi dei padri”; e poi alcuni dovevano anche 3) “tenere conferenze a gruppi di padri per chiarire loro i problemi in discussione” (Roger Aubert in AAVV, Il Concilio Vaticano II). Compiti fondamentali, direi. Che pure non hanno prodotto eresie di sorta. Vi immaginate se lo Spirito non avesse vegliato su quelle belle teste pensanti e su chi doveva ascoltare i loro interventi?

SE LO SPIRITO PERDE LA MAIUSCOLA
Lo Spirito, dunque, è stato operante. Quello di dopo, invece, non è più stato Spirito con la S maiuscola ma semplicemente spirito. Del mondo. Che ha tentato di rovinare quanto di buono era stato fatto dai padri conciliari, quanto di valido era stato scritto nei documenti. Quello spirito mondano che ha fatto diventare apertura indiscriminata alla modernità più ribelle e creativa quella che era cauta valutazione di quanto di positivo vi fosse nel mondo contemporaneo. Che, vanificando le parole di chi aveva definito la liturgia “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC, n.10), l’ha asservita ai suoi personalismi, alle sue carnevalate, al suo “tutto è lecito perché Gesù non era un tipo formale”, facendola precipitare in un cono d’ombra di preti vedettes, messe fantasiose, abusi liturgici di vario tipo. Che, pur riconoscendo l’importanza della Parola di Dio nella vita della Chiesa, ha “protestantizzato” l’approccio al libro sacro, finendo per arrivare quasi alle soglie di quel “sola scriptura” tanto caro al mondo protestante. Che ha tradito il semplice ma fraterno riconoscimento della presenza dei semi del Verbo anche nelle altre fedi per dare vita ad un pericoloso sincretismo e ad un “tutte le religioni sono valide”, finendo per rendere inutile l’incarnazione del Verbo stesso.
Questo stesso spirito del mondo che, in fondo, ha ipnotizzato anche occhi, mente e cuore di chi sul versante opposto ha combattuto il Concilio. Di chi non ne ha compreso la portata, ingannato dall’apparenza spesso disastrosa del post-concilio. Di chi ha avallato implicitamente l’idea di quell’ “evento di rottura” che il Concilio non è mai stato. Di chi gli ha attribuito un volto demoniaco che non ha avuto. Di chi ha pensato “dai loro frutti li riconoscerete”(Mt 7, 16a), senza valutare da quale albero provenissero tali velenosi frutti, attribuendo allo scritto originale ciò che invece era opera di alcuni suoi bizzarri traduttori epericolosissimi interpreti.

RITORNO AL CONCILIO, DOPO L’UTOPISMO ANARCHICO
Tornando, invece, al vero Concilio – quello che emerge dai documenti conciliari – occorre ringraziare Dio per il suo dono. Certo, Papa Benedetto XVI ha riconosciuto che i problemi ci sono stati: “Dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente ‘altra’. Un utopismo anarchico”. Sulle ali dell’entusiasmo e pensando di scrutarei segni dei tempi c’è chi ha pensato e chi ogni tanto pensa che la Chiesa debba essere rinnovata dalle fondamenta: che, per molti, senza girarci intorno, vuol dire abbatterla per rifarla daccapo. Un altro problema lo ha evidenziato Roberto De Mattei, nel suo libro Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta: “Il Concilio Vaticano II non ha emanato leggi e neppure ha deliberato in modo definitivo su questioni di fede e di morale. La mancanza di definizioni dogmatiche ha inevitabilmente aperto la discussione sulla natura dei documenti e sul modo della loro applicazione nel periodo del cosiddetto ‘postconcilio’”. Problemi reali. Concreti. Che danno ancora filo da torcere alla Chiesa. Dove il Concilio è stato davvero recepito, però, senza aggiunte e glosse di nessun tipo, si è potuto vedere che quei padri conciliari hanno ben operato e i frutti sono stati buoni: la Parola di Dio apparentemente più presente nella vita della Chiesa; in taluni casi una più consapevole fruizione della liturgia da parte dei fedeli; una catechesi capace di andare oltre la formula mnemonica per comunicare la vitalità dell’incontro con Qualcuno che cambia la vita; un comune cooperare per la pace del mondo con le altre fedi e con gli uomini di buona volontà. Se ci sono esperienze che hanno tradito, ce ne sono state altre che hanno testimoniato che i desideri e le intuizioni conciliari, se rettamente intesi, non erano da condannare, ma da accogliere. Novità quelle conciliari che non volevano significare rottura con quello che era stato prima ma solo superamento di alcuni problemi innegabili che il passato preconciliare si portava dietro, senza tuttavia tradire la grande ricchezza spirituale di quasi due millenni di Tradizione. Novità che nascevano dall’esigenza – reale, non immaginaria – di far camminare la Chiesa insieme al mondo, che inevitabilmente stava cambiando. In peggio, il più delle volte.

L’INQUIETO E IL CARISMATICO, DUE CAPITANI SAPIENTI
Papa Benedetto XVI ha sottolineato l’importante opera di “traghettamento” della Chiesa post-conciliare compiuta dai suoi predecessori. Ha spiegato: “grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, papa Paolo VI e papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre luogo di peccatori e sempre luogo di Grazia”. Possiamo essere d’accordo con queste sue parole? Ancora una volta la risposta è affermativa. Pur con alcune scelte che qualcuno, più vicino ad una sensibilità tradizionale, continua a rimproverare loro, entrambi non hanno ceduto dottrinalmente a chi chiedeva di andare oltre la “lettera” dei testi conciliari per rivoltare la Chiesa come fosse un calzino, parlando di “riforma” e “innovazioni” e intendendo, invece, “rottura” e “demolizione”. Loro no, sono rimasti fermi, pagando anche di persona di fronte all’opposizione di certi ambienti progressisti che si attendevano molto di più: entrambi, attratti per indole dalla loro contemporaneità – Montini, l’intellettuale inquieto e dolente, e Wojtyla, l’attore-poeta-filosofo carismatico ed eclettico – hanno saputo fare in modo che la loro umanità passasse in secondo piano, cedendo il passo alla fermezza magisteriale. Il Concilio – per chi serenamente ha voluto guardare a quello che è accaduto – sotto la loro vigilanza, ha scontentato e ha, nello stesso tempo, suscitato speranze, sia negli schieramenti progressisti che in quelli tradizionalisti. Centrando, dunque, l’obiettivo che deve proporsi ogni persona, evento, fatto che voglia essere davvero cristiano: essere segno di contraddizione. Come il Maestro. Se così non fosse, ci sarebbe da insospettirsi.

IL CONCILIO CHE “PIACQUE A DIO”
Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza…”: l’incipit del primo capitolo della Dei Verbum, uno dei più celebri documenti conciliari, mi serve per sottolineare due elementi a chiusura di questo scritto. Il primo elemento fa riferimento ai termini stessi usati nel documento conciliare: queste parole, infatti, sono una ripresa, sia pure con alcune modifiche, della Dei Filius del Vaticano I (e richiami alle Scritture, ai Padri della Chiesa, al Magistero precedente attraversano tutti i documenti). Questo ci serva per capire che è nell’ottica del solco già segnato dalla tradizione che i Padri conciliari vollero muoversi, non per un omaggio formale, ma nella ricerca di un appoggio sostanziale che consentisse di “rinnovare” senza stravolgere. Il secondo elemento è un breve pensiero che scaturisce dall’espressione “piacque a Dio”. Nella prospettiva cattolica, dobbiamo vedere sempre operante una Provvidenza che agisce al di là dei disegni umani: se il Concilio vi fu, se fu reso possibile, se nessun accadimento esterno o interno impedì la sua attuazione, non possiamo considerarlo un errore di percorso nella vita della Chiesa. “Nella sua bontà e sapienza” il piano di Dio non conosce cadute, errori, imperfezioni. Sta a noi conformarci per evitare che i nostri comportamenti “cattivi” e “stolti” ne offuschino lo svolgimento, l’esattezza, la perfezione.

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