ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 25 febbraio 2012

UNIFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DIVINA



La ‘perfezione’ cristiana (per quanto è possibile in questa terra) consiste nell’amare Dio con la virtù di carità soprannaturale. Infatti l’amor di Dio unisce la nostra volontà alla Volontà divina e quindi ci unisce a Dio stesso (“unumquodque est perfectum in quantum attingit finem suum”). Egli ama le nostre azioni quando sono secondo la sua volontà. Se facciamo l’elemosina per farci vedere farisaicamente, Dio non ama questa nostra azione apparentemente “buona”, perché non è fatta per amor di Dio o in uniformità alla sua volontà, ma per amor proprio o in uniformità alla nostra volontà.
L’uomo che cerca la sua volontà pecca, in un certo modo, di “idolatria” poiché adora la volontà propria e non quella di Dio. S. Gregorio Magno insegnava: “togli la volontà propria e hai chiuso l’Inferno”.

Per questo motivo è assai necessaria “la vera devozione alla Vergine Maria” (S. Luigi Grignion de Montfort).
Infatti, dopo il peccato originale, albergano in noi le tre concupiscenze, i sette vizi capitali e il fomite del peccato. Ora “l’inizio di tutti i mali e peccati è l’orgoglio” e anche le anime pie hanno una certa forma di orgoglio spirituale, molto ben nascosta e celata, che quasi impercettibilmente si insinua nelle loro buone azioni e le guasta, come il fondo un po’ marcio di una botte guasta il buon vino che vi si mette “et ab occultis meis salva me” recita il Salmo, ossia purificami tu o Signore dai miei difetti che non riesco (o non voglio riuscire) a scorgere pienamente senza esserne pienamente cosciente, infatti “chi è diretto da se stesso è guidato da un asino” (S. Bernardo di Chiaravalle). Per cui, siccome “nessuno è buon giudice in causa propria” o “nessun medico sa incidere fino in fondo la sua piaga”, noi non riusciamo a vedere chiaramente i nostri difetti più fini tanto sono ben nascosti nelle pieghe più recondite della nostra personalità o nelle “profondità della nostra anima” (p. Reginaldo Garrigou-Lagrange). Quindi bisogna che chiediamo a Maria di voler estirpare dal nostro animo le erbe, che sembrano essere buone, ma in realtà sono cattive (come la zizzania del Vangelo la quale è molto somigliante al buon grano). Dio è venuto a noi facendosi uomo attraverso Maria e vuole che noi andiamo a Lui passando attraverso Maria, mediatrice universale e dispensatrice di tutte le grazie. Per cui chiediamo alla Madonna Santissima di voler purificarci da ogni attaccamento disordinato a noi stessi e quasi impercettibile o difficilmente discernibile.  “Per crucem ad lucem”. La via  regia  che porta in Paradiso è  quella del Calvario e Maria ci è stata data come nostra “madre spirituale” da Gesù sulla Croce nella persona di S. Giovanni ai quali il Salvatore prima di spirare disse: “Madre ecco tuo figlio, figlio ecco tua Madre”. 

● Gesù è il Verbo Incarnato (vero Dio e vero uomo) venuto in terra per fare la volontà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e non la sua volontà umana. Anzi, come rivela San Paolo: “Christus sibi non placuit” (Cristo non ha mai fatto ciò che gli piaceva). S. Alfonso de’ Liguori insegna che “un atto di perfetta uniformità al volere divino basta a fare un santo” (Uniformità alla volontà di Dio). Infatti colui che dona a Dio la propria volontà gli dà tutto se stesso, ancora di più di chi gli dà il corpo con il voto di castità, le robe con il voto di povertà. E Dio dice ad ognuno di noi: “Figlio, dammi il tuo cuore” (Prov. XXIII, 26). Per cui se vogliamo davvero piacere a Dio cerchiamo di ‘uniformare’ (ossia di “rendere una sola cosa”) la nostra alla sua volontà.

● La volontà di Dio si divide in “significata” (e sono i Dieci comandamenti) e “di beneplacito” (ossia ciò  che Dio permette che ci avvenga, in breve tutti gli avvenimenti e le circostanze della vita). Quindi dobbiamo fare sia l’una che l’altra. Per quanto riguarda i ‘Dieci Comandamenti’ ogni cristiano che ha studiato il Catechismo sa cosa occorre fare e cosa bisogna non fare. Ma la “volontà di beneplacito” è un po’ più difficile da discernere e da compiersi. L’essenziale consiste nell’accettare tutto ciò che ci capita sia di buono sia di sgradevole, come diceva Giobbe: “Dio ha dato, Dio ha tolto. Abbiamo ringraziato Dio nella prosperità, ringraziamolo anche nell’avversità. Sit nomen Domini benedictum”.

● Il difficile sta proprio nel fare la  volontà divina nelle cose che non ci piacciono o addirittura ci ripugnano. Tutti, anche i “pagani”, son capaci di fare la volontà di Dio nelle cose prospere. Il vero oro si vede nelle avversità: “vale più un solo ‘Dio sia benedetto’ nelle avversità che 3000 ringraziamenti nelle cose piacevoli” (S. Alfonso). Il più difficile e, quindi, il più perfetto consiste nel fare la volontà divina non solo nelle cose che ci vengono direttamente e sicuramente da Dio (malattie, morte…), ma anche e soprattutto in quelle che ci vengono per mezzo degli uomini (disprezzi, calunnie, torti, raggiri, scherni…). Certo Dio non vuole il peccato di colui che ci offende, ma lo permette per la nostra umiliazione e quindi santificazione. Infatti la vera umiltà nasce solo dalle umiliazioni e il fondamento della vita spirituale è la vera umiltà di cuore e non di bocca o di solo cervello “fatti e non parole” (S. Ignazio da Loyola). “Non casca foglia che Dio non voglia” dice il proverbio, ossia tutto ciò che accade avviene almeno col permesso di Dio se non con la sua volontà positiva, da Dio vengono  tutti i beni fisici e spirituali e da lui vengono almeno con permissione negativa (Dio non li impedisce) tutti i mali fisici, mai positivamente i mali morali ossia i peccati, che sono solo opera nostra nel loro disordine morale.

● Da ogni male Dio trae un bene maggiore. Quindi dobbiamo essere sicuri che le contrarietà Dio le permette o ce le invia positivamente per la salvezza della nostra anima (la cecità di Tobia, le disgrazie di Giobbe, la Croce di Gesù, il rinnegamento di S. Pietro). Anche dal peccato Dio sa trarre il bene, come avvenne a David o San Pietro e San Paolo, che dopo  aver sperimentato la loro nequizia si pentirono, vennero amaramente umiliati e si avvicinarono a Dio, il quale “esalta gli umili e disprezza i superbi”. Quindi anche se lo strumento di cui Dio si serve per umiliarci è umano (Assalonne che insultò Davide, i farisei che ingiuriarono Gesù…), dobbiamo  sapere che dietro di esso vi è la mano misericordiosamente giusta di Dio. Perciò non dobbiamo fermarci alle cause prossime o seconde, ma risalire alla Causa Prima che è Dio.

● Il frutto di questa uniformità alla divina volontà è la “pace dell’anima”, che è il tesoro più grande che si possa avere su questa terra, il quale è una sorta di avangusto della Beatitudine del Paradiso.  Chi ama Dio e fa sempre la sua volontà anche nell’avversità vive sempre contento poiché avendo uniformato, ossia  ‘fatto una sola cosa’ della sua volontà e della divina volontà, riceve tutto ciò che gli succede con piena accettazione e non solo sopportazione degli avvenimenti. Allora gli stessi travagli si convertono in piaceri spirituali (infatti la sensibilità ne risente sempre, ma l’intelligenza e la volontà li conoscono come di Dio e loro  e li amano come cosa “propria”), nei quali si scorge la mano di Dio e la bacia anche quando non carezza ma calca il peso, come quando occorre estrarre una spina, che si è conficcata nel nostro piede, la carne ne soffre, ma l’intelletto sa che occorre farlo per il bene di tutto il corpo e la volontà lo desidera ragionevolmente, nonostante le ripugnanze della sensibilità. È per questo che l’Ecclesiastico rivela: “l’uomo saggio è stabile  come il sole” (XXVII, 12), mentre lo stolto muta come la luna, che oggi cresce e poi viene meno e così via in un costante alternarsi di sbalzi ed umori “lunatici”. Se lasciamo dipendere la nostra contentezza o tristezza, e dunque la pace dell’anima, dalle circostanze esteriori, apparentemente favorevoli o contrarie, saremo costantemente incostanti, agitati, mutevoli, instabili e “lunatici” come il variar del mondo. Invece il saggio o ‘l’amico  di Dio’ (“idem velle idem nolle haec est vera amicitia”; volere la stessa cosa e non volere la stessa cosa questa è vera amicizia) è come il sole: sempre uguale, sorridente, stabile, caldo, acceso e “solare” almeno nella parte superiore dell’anima e non nella sensibilità. Anche Gesù nel Getsemani provò “paura, tedio e mestizia”, disse “l’anima mia è triste sino a morirne” e “sudò sangue” per l’angoscia sensibile, ma disse: “Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta!”. Così, con l’aiuto della grazia divina, che si ottiene con la meditazione, la preghiera, i Sacramenti, anche noi dobbiamo fare la  volontà di Dio ed anzi uni-formare o fare della nostra una sola cosa con la Sua, nonostante le ripugnanze “mortali”, che la parte sensibile della nostra personalità, in certe circostanze, può provare.

● Il padre Giovanni Taulero narra che un mendicante gli insegnò cosa fosse la vera vita spirituale. Un giorno incontrò un povero, lacero, piagato, scalzo e infreddolito ed avendo cercato di incoraggiarlo si sentì rispondere: “Padre, io non ho mai avuto un solo giorno cattivo, anzi sono sempre stato felice. Infatti quando ho fame, lodo Dio, quando nevica o piove lo lodo egualmente, se qualcuno mi disprezza e mi discaccia lo benedico, poiché vedo la mano di Dio dietro tutte questi avvenimenti. Io, aggiunse il mendicante, ho trovato Dio quando ho lasciato le creature e mi sento re. Infatti il mio regno sta nella mia anima - sottomessa a Dio, unita a Lui ed inabitata dalla SS. Trinità - che riesce così a dominare il corpo. Il mezzo che mi ha aiutato a giungere a questo stato è consistito nel parlare con Dio e tacere con gli uomini”. S. Bernardo di Chiaravalle esclamava: “o beata solitudo o sola beatitudo” (o felice solitudine o unica mia felicità). Se riempiamo la nostra vita di Dio, che è realmente presente nell’anima del giusto, e lo conosciamo, amiamo e gli parliamo, mentre lui per primo ci conosce, ama e parla, allora troveremo la pace e la felicità. Ma se non facciamo un po’ di silenzio nel nostro interno non riusciremo ad ascoltare la voce di Dio, che parla a tutti ma solo pochi sono nelle disposizioni di ascoltarlo poiché, nel loro interno, c’è il chiassoso disordine e non la pace ordinata. S. Agostino ci ammonisce: “silentium Christus est” (il silenzio ci unisce a Cristo), e S. Benedetto nel Sacro Speco di Subiaco “secum et cum Deo vivebat” (nella solitudine della grotta viveva con se stesso e Dio presente nella sua anima).  La vita cristiana, insegna S. Tommaso d’Aquino, consiste nella conoscenza ed amore mutui e reciproci tra Dio e l’uomo e nella convivenza dell’uomo con Dio. Il beato Arsenio, un padre del deserto, insegnava: “Fuge, tace et quiesce”, ossia fuggi il mondo, parla più con Dio che con gli uomini e riposerai in pace nel seno del Signore.

● È di fede che Dio vuole la salvezza di tutti (II Pt. III, 9) ed anche la nostra santificazione o perfezione: “siate perfetti come il Padre mio che è nei Cieli”. Quindi tutto ciò che Dio ci manda è finalizzato al bene della nostra anima e alla nostra salvezza eterna. Perciò di fronte alle “tribolazioni”, chiamate dai Santi “le carezze di Dio”, non dobbiamo scoraggiarci, benché la nostra parte sensile ne soffra. “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” rivela S. Paolo e S. Agostino commenta: “tutto, sovente anche i peccati di cui ci si pente”. Certamente Dio non vuole mai il peccato, ma certe volte lo permette e ne trae un bene spirituale maggiore (v. S. Pietro, S. Maria Maddalena, il Buon Ladrone). Perciò facciamo come ci consiglia l’Apostolo Pietro “gettiamo ogni nostra preoccupazione in Dio, poiché Egli si prende cura di noi” (I Pt. V, 7).

● La preghiera non deve essere fatta per chiedere a Dio che si compia ciò che desideriamo noi, quasi che Dio possa cambiare opinione, ma che ci dia la forza di innalzare la nostra mente e la nostra volontà al livello delle sua imperscrutabile Provvidenza, di modo che capiamo e facciamo liberamente e pienamente la sua volontà, la quale certamente è migliore della nostra anche quando non riusciamo a capirla e sembra crocifiggerci. La Provvidenza di Dio alcune volte può sembrarci “spietata” e perfino “crudele” (pensiamo alla Madonna i piedi della Croce), ma la realtà profonda ci è nascosta, sarebbe come voler capire il disegno di una magnifica vetrata di una cattedrale medievale dal di fuori, vedremmo soltanto uno scarabocchio, che sembra tale a noi poiché lo vediamo dal di fuori, se invece entriamo dentro la casa di Dio allora lo vediamo quale è realmente e non come ci appare, lo “capiamo” e lo amiamo in tutto il suo splendore e la sua bellezza. Così è la volontà divina, vista dal di fuori, ossia da questo mondo, è incomprensibile e può sembrarci assurda ed anche brutta, ma vista nel chiaro oscuro dell’occhio della Fede e poi nell’al di là è magnifica, fulgida e non possiamo non amarla. La giaculatoria che deve essere sempre sulle nostre labbra e nel nostro cuore sia: “fiat voluntas Dei!”. “Signore aiutami a fare la tua volontà”. Allora la nostra vita sarà una specie di Paradiso anticipato in cui si trovano ancora le croci dei sensi e già “ove lo spirto uman si purga” (Dante) prima di entrare, dopo il vero e proprio Purgatorio, definitivamente nel “luogo ove ci sono tutti i beni senza alcun male: il Paradiso” (Catechismo di S. Pio X). La meditazione, la preghiera, le comunioni e le confessioni debbono essere fatte con l’intenzione ultima di uniformare la nostra alla divina volontà. 

● Veniamo alla pratica (che vale più della grammatica): 1°) dobbiamo uniformarci nelle cose naturali che avvengono fuori di noi (caldo torrido, freddo glaciale, pioggia intensa…). S. Francesco Borgia giunse di notte in pieno inverno sotto la neve abbondante in un convento di gesuiti e bussò, ma nessuno lo sentì, allora passò la notte all’addiaccio vedendo, con lo sguardo della Fede, la mano di Dio che gli lanciava la neve addosso e - come S. Francesco d’Assisi - ripetè per tutta la notte “quivi è perfetta letizia” (I Fioretti). 2°)  Nelle cose materiali e spirituali che avvengono dentro di noi (fame, sete, povertà, malattie; desolazioni di spirito, umiliazioni, affronti). Ancora S. Francesco Borgia una notte si trovò a dover dormire in una camerata ove il vicino era un povero ammalato di bronchite, il quale pensando di essere rivolto verso il muro sputava continuamente…  in faccia al santo, che era l’ex vice re di Spagna... Egli accettò tutti gli sputi come venienti dalle mani di Dio. 3°) Nei difetti naturali di corpo o di anima (cattiva memoria, intelletto tardo, salute debole, poca abilità pratica) contentiamoci di quel che abbiamo, magari avendo avuto maggior bellezza, salute o forza ci saremmo potuti dannare. Per molti l’intelligenza troppo acuta è un occasione per inorgoglirsi e dannarsi. “Una sola cosa è necessaria, salvarsi l’anima”. Non è necessaria la fine intelligenza, la  forza, la bellezza, queste cose sono mezzi, che sono buoni “tanto quanto ci aiutano a santificarci né più né meno” (S. Ignazio da Loyola). Quindi soprattutto nelle malattie dobbiamo saper accettare le disposizioni della Provvidenza. Certamente dobbiamo prendere i rimedi ordinari per curarci, è un obbligo che ci viene dal ‘5° Comandamento’, ma se tutto ciò non basta uniamo  e uniformiamo la nostra volontà a quella  di Dio, che è molto più utile e benefacente della perfetta salute. Se ci viene il dubbio o la tentazione secondo la quale con maggior salute serviremmo meglio Dio, basta riflettere che se Dio permette tale infermità è per il bene della nostra anima e che il modo migliore per noi di servire Dio è proprio quello di fare la  sua volontà accettando quel che ci viene dalle sue mani. S. Francesco di Sales diceva: “si serve più Dio col patire che con l’agire”. Gesù ce ne ha dato l’esempio salvandoci con la crocifissione. Croce viene dal latino Crux/cruciari, ossia ‘essere tormentato’. S. Alfonso chiama il tempo dell’infermità “la pietra di paragone delle anime”, perché in quello si scopre con certezza la qualità spirituale dell’anima. Se non ci s’inquieta, non si perde la pace, non ci si dispera, ma se ne sta tranquilla, completamente rassegnata alla volontà divina, significa che in quell’anima vi è sostanza e non apparenza di virtù e di vera Carità. S. Francesco d’Assisi diceva: “tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è  diletto”. Questa vita è tempo e luogo di merito, onde si merita col patire. Solo il Cielo è luogo di felicità piena e perfetta. 

● Se commettiamo qualche mancanza, imperfezione o difetto non dobbiamo indispettirci con noi stessi, bisogna detestare l’offesa fatta a Dio più che la nostra deficienza. Se ci turba il fatto di aver mancato, significa che l’orgoglio alberga in noi. Infatti il proprio dell’uomo è il limite, la deficienza. Ora nello sbaglio dobbiamo soprattutto rimpiangere il dispiacere dato a Dio più che la nostra miseria, la quale attira la Misericordia, altrimenti ameremmo noi stessi più di Dio. “Come Dio per creare il mondo ha avuto bisogno del nulla, così per usarci misericordia ha bisogno della miseria” (p. Reginaldo Garrigou-Lagrange). “Abissus abissum invocat” (un abisso di miseria attira un abisso di Misericordia), recita il Salmo. Altrimenti più che Dio ameremmo noi stessi e ci dorremmo della nostra pochezza. Per cui perdere la pace di fronte alle nostre mancanze è segno di orgoglio. S. Alfonso ci consiglia di dire: “Signore questi sono i frutti del mio orto” e di mettere il nostro animo in pace con Dio chiedendogli perdono senza curarci del nostro amor proprio ferito.  Infatti “ogni albero dà il proprio frutto”, ora il nostro albero, ossia la nostra anima, ferita dal peccato originale, di “suo ha il male e la deficienza” e sarebbe strano se desse frutti buoni, i quali per S. Tommaso  sono causati in primo luogo da Dio e solo in secondo luogo dalla nostra libera cooperazione alla sua grazia, come un carro trainato da un cavallo (“pre-mozione fisica”). Invece per Suarez e Molina le nostre buone azioni vengono alla pari da Dio e da noi (“concorso simultaneo”), come un cargo che è trainato contemporaneamente e parallelamente (“cum-currere”) da due navi. S. Giovanni Crisostomo ci insegna che “come i fiori hanno bisogno del letame per essere concimati e nascere”, così “certe volte Dio si serve delle nostre miserie per far nascere il bel fiore della vera umiltà”, dalla quale emanano tutte le virtù cristiane con il loro profumo e la loro bellezza.

● La conclusione è questa: in tutte le cose che ci accadono dobbiamo saper scorgere la dolce mano di Dio, che è soave anche quando impone un giogo alle nostre spalle. “Imparate da Me che sono mite e umile di cuore e troverete pace per le vostre anime. Infatti il mio giogo è soave e il mio peso è leggero”. Come Gesù ha voluto essere aiutato dal Cireneo a portare la sua croce, così ci insegna che non siamo soli a portare la nostra, ma Lui la porta assieme a noi e più ancora di noi.
d. CURZIO NITOGLIA

22 febbraio 2012

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