Liturgie sacre e liturgie profane - La liturgia riguarda la vita della Chiesa, dunque
coinvolge non solo il clero ma anche il laicato. Pertanto i laici possono ed
anzi debbono interessarsi della liturgia e preoccuparsi della sua crisi
attuale. Inoltre, come insegnava Leone XIII, la società non può disinteressarsi
del modo in cui viene onorato e celebrato nella vita pubblica quel Dio, che è
Creatore, Legislatore e Santificatore della natura sociale dell’uomo e quindi
della società stessa. La motivazione di questo interesse ha una radice storica
nell’originario significato della parola liturgia. Nel Cristianesimo, essa
indica il culto pubblico ufficiale reso all’unico vero Dio dalla Chiesa
universale per mezzo del clero. Ma in origine, nell’antica Grecia, per liturgia
s’intendeva il servizio pubblico (fastoso e dunque costoso) svolto da privati
per conto e a beneficio della comunità, in specie il servizio cultuale rivolto
alle divinità patrone e protettrici della polis. Usata in senso esteso, quindi, la parola liturgia può significare un
rituale pubblico mediante il quale le persone, le azioni e le cose vengono
offerte alla Divinità e poste al Suo servizio. In tal modo la società, per
mezzo delle sue autorità, ordina le attività civili secondo “numero, peso e
misura”, come esige la Bibbia; in tal modo si riconosce che le cose temporali e
terrene debbono imitare l’ordinamento eterno e ultraterreno, le cose umane
l’ordinamento divino, la città terrena la Città celeste. In questi casi si
tratta di liturgie non sacre ma “profane”, secondo l’originario significato di
pro-fanum, che indicava non ciò che si oppone al sacro ma ciò che imita e lo
favorisce; si tratta di liturgie civili che potremmo chiamare “laiche”, se non
fosse che questo irrecuperabile termine ormai indica il disinteresse e
l’emarginazione della Religione.
Siano esse sacre o profane, ecclesiali o civili, le liturgie
hanno la stessa motivazione: esse aspirano ad onorare Dio mediante una pallida
imitazione terrena della “celeste liturgia” resagli dai Suoi Angeli
nell’Empireo. Pur essendo “profane”, le liturgie civili hanno anch’esse un
significato e un fine implicitamente religiosi, perché con esse la comunità
rende omaggio alla divina sovranità e tenta di armonizzare la vita sociale con
quella ecclesiale, a maggior gloria di Dio. Questo ci è stato insegnato da una
lunga tradizione ecclesiastica che da san Dionigi Areopagita e san Massimo,
attraverso san Tommaso e il ven. padre De la Puente, arriva fino a dom
Guéranger e al padre Bouyer.
La testimonianza della società cristiana
Ciò non deve meravigliare. La storia ci ricorda che – lungo i
millenni e fino a qualche tempo fa – la maggioranza delle attività e
istituzioni civili ha avuto un fondamento religioso che si manifestava anche in
un carattere liturgico che le ordinava all’Assoluto mediante riti spirituali,
belli, solenni, fastosi, talvolta trionfali, che ritmavano e orientavano la sua
vita politica e sociale. Basti pensare ad alcune cerimonie politiche, come la
consacrazione e la intronizzazione di un Re, il giuramento di un’autorità
civile, l’insediamento di un senato o di una magistratura, la consegna della
bandiera a un esercito; basti pensare ad alcune cerimonie sociali, come
l’apertura di un anno accademico universitario, la consegna di una
onorificenza, la processione di una corporazione delle arti e dei mestieri, la
commemorazione degli eroi defunti, o anche semplicemente le usanze rituali
della quotidiana vita familiare.
Queste cerimonie civili manifestavano che la società non solo
deve realizzare il bene comune terreno, ma mediante questo deve tendere a quel
summum Bonum commune che è Dio. Manifestavano che l’unità, il prestigio, la
moralità e perfino la prosperità di un popolo dipendevano anche dalle cerimonie
pubbliche, sia sacre che profane. Manifestavano che le autorità ad ogni livello
– il Re, il senatore, il magistrato, il generale, il docente, il padrone, il
padre di famiglia – sono tutte degne di onore e di rispetto, se e in quanto
sono disposte da Dio a Sua immagine e somiglianza e quindi partecipano della
Sua autorità e rappresentano la divina Provvidenza nel loro settore della vita
civile. Ciò era talmente avvertito che, anche se avevano perso una guerra o un
dominio o un titolo, un popolo e il suo legittimo sovrano potevano salvarsi
grazie all’aura religiosa che li circondava, contribuendo ad assicurargli il
prestigio, il rispetto e l’affetto universali.
Va ricordato al riguardo un signfiicativo caso storico avvenuto
nel 1805. Pur essendo stato pesantemente sconfitto e umiliato da Napoleone I,
che l’aveva costretto a rinunciare al titolo di “sacro romano imperatore”, al
suo ritorno a Vienna Francesco II d’Asburgo venne ugualmente accolto dal suo
popolo con affettuosi festeggiamenti, suscitando questo amaro commento del
despota francese: “Se una tal sconfitta accadesse a me, il popolo parigino mi
accoglierebbe in modo opposto!” Ciò era dovuto al fatto che il debole e
sconfitto Francesco II aveva un prestigio religioso che mancava al forte e
vincitore Napoleone I: il prestigio di quella legittima autorità che il francese
aveva vanamente cercato di usurpare con cerimonie che pretendevano d’imitare
quelle del Sacro Romano Impero.
La secolarizzazione della politica e delle sue liturgie
Negli ultimi tempi, la secolarizzazione della società e delle
istituzioni politiche e civili – avviata dalla rivoluzione protestante e
sancita dalle rivoluzione liberale del 1789 – ha messo in crisi questo aspetto
religioso e liturgico della vita sociale, in nome della semplificazione, della
uguaglianza, della socializzazione e della democratizzazione. Perfino la
cerimonia del giuramento civile, che manifestava l’adesione del cittadino a un
ordinamento sociale “non negoziabile”, è oggi diventato una mera formalità
priva di significato e di obblighi. Del resto, non c’è davvero motivo di celebrare
la vita civile con cerimonie rituali, da quando le società sono state ridotte a
mere convenzioni umane finalizzate ad utilità terrene, le istituzioni a mere
costruzioni di potere, le autorità a meri delegati del popolo arbitrariamente
scelti.
Questa secolarizzazione politica ha creato un “vuoto di senso” e
di autorevolezza che non poteva essere efficacdemente riempito dalle
istituzioni liberali o democratiche. Di conseguenza, esso è stato talvolta
riempito da surrogati pervertiti e caricaturali dalle rovinose conseguenze.
Infatti, quando la società ha ricuperato una certa quale aspirazione religiosa
all’Assoluto, esprimendola in liturgie civili, lo ha fatto in una versione
immanentizzata e laicizzata, una imitazione blasfema e demoniaca, com’è accaduto
con le ideologie totalitarie e le cerimonie di massa rese famose dal comunismo,
dal fascismo e dal nazismo.
L’esperienza storica ci conferma quindi una convinzione
dottrinale: ossia che non può esistere, o almeno non può durare a lungo, una
società “laica” nel senso di meramente profana, indifferente alla Religione,
neutrale alla Fede, estranea al “sacro”. Se non si fonda su una “teologia
politica” vera, cristiana, la società cercherà prima o poi di fondarsi su una
falsa, anticristiana. La stessa democrazia contemporanea ce lo conferma, nel
suo tentativo di sacralizzare la “sovranità popolare” esprimendola nelle
para-liturgie del “consenso” e della “partecipazione” di massa. Anche qui come
dovunque, le soluzioni intermedie non funzionano e favoriscono la causa dei più
furbi o violenti.
Ripercussioni liturgiche della secolarizzazione politica
La seco,larizzazione politica ha provocato gravi conseguenze
nella vita della Chiesa. Essa infatti non giace sulle nuvole ma cammina sulla
terra e nelle società umane, per cui i suoi risultati religiosi dipendono anche
del clima spirituale e morale che respira nella vita civile, come ha insegnato
Pio XII. Col tempo, la secolarizzazione della vita sociale ha favorito la
secolarizzazione della vita religiosa, e la perdita della ritualità politica ha
favorito la crisi della ritualità ecclesiale. Questo declino è gradualmente
avvenuto in Occidente lungo il XX secolo ed è culminato col “riformismo”
neo-modernista dominante nel periodo postconciliare.
Tale degrado liturgico ha avuto i suoi agenti principali
all’interno della Chiesa stessa. Essendo stata smascherata e sconfitta nel
campo dogmatico e morale, l’eresia modernista ha cercato una rivincita in
quello spirituale, sociale e soprattutto liturgico. Eludendo le condanne dottrinali
subìte da san Pio X, fin dagli anni Venti il modernismo ha riproposto il suo
vecchio metodo del “primato della prassi” sulla teoria, della “esperienza
vitale” sulla dottrina, presentato però ai fedeli in una nuova e più morbida
formula: il “primato della pastorale” sul dogma. Questa nuova “pastorale”
pragmatica, latitudinaria e implicitamente relativistica era orientata a
realizzare un’ actuosa participatio, una “partecipazione attiva” dei fedeli –
ma solo quelli “adulti”! – non solo all’apostolato gerarchico (nel caso
dell’Azione Cattolica) ma anche al governo ecclesiale e alla formulazione
dottrinale, in modo da trasformare la Chiesa intera da società dogmatica e
gerarchica in una carismatica e democratica “comunità di popolo in cammino”
verso una nuova terra promessa (mondana come quell’antica degli Ebrei).
Questa trasformazione neo-modernistica della mentalità e della
sensibilità ecclesiali poteva realizzarsi pienamente solo mediante una nuova
liturgia. Se si fa evolvere la prassi liturgica, con essa si evolve anche la
vita della Chiesa, il sensus Ecclesiae e infine la concezione stessa della
Chiesa, col grande vantaggio che i fedeli non se ne accorgono, o se ne
accorgono quando è troppo tardi. In questo modo, la Chiesa poteva finalmente
“porsi al ritmo dei tempi”, “adeguarsi al mondo che cambia”, “diventare dialogo”,
“farsi comunità”, rendersi democratica, pluralistica e policentrica, come
auspicavano alcuni noti esperti molto ascoltati nel Concilio Vaticano II.
Pertanto, la fazione neo-modernista del vecchio e glorioso
movimento liturgico ha preteso di realizzare una “inculturazione” della
liturgia che rendesse la Fede comprensibile e accettabile all’ “uomo moderno”;
i riti cattolici sono stati così adeguati alle esigenze dei tempi e dei luoghi,
ossia alla sensibilità, alla mentalità e alle usanze dei popoli, delle comunità
e perfino delle tribù. Questa operazione a tavolino ha coinvolto l’intera
liturgia nella “svolta antropologica” (antropologische Wende) auspicata dal
noto guru conciliare Kark Rahner. Si è così realizzata una graduale ma
progressiva immanentizzazione e secolarizzazione del rito: la dimensione
verticale si è appiattita in quella orizzontale, il culto di Dio si è ridotto
al culto dell’Uomo e del suo mondo, evolvendosi quindi appresso a loro.
Possiamo dire che si è realizzato anche in questo campo l’infausto trinomio
della Rivoluzione francese: libertè, ossia libera creatività liturgica;
égalité, ossia parificazione del clero al laicato nella gestione del culto;
fraternité, ossia creazione di una nuova comunità eccesiale mediante la prassi
liturgica.
Conseguenze, rimedi e speranze
Si è realizzata quindi non una riforma ma una rivoluzione
liturgica che ha provocato “una devastazione” e “una rottura nella storia della
liturgia, le cui conseguenze potevano essere solo tragiche”, come ammise fin
dal 1985 l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel suo celebre libro-intervista.
Oggi tutti possono constatare che non solo la qualità, ma anche il semplice
decoro e perfino la dovuta ortoprassi delle celebrazioni liturgiche sono
arrivati quasi dovunque al più basso livello mai raggiunto nella storia della
Chiesa. Il fatto stesso che Benedetto XVI senta l’esigenza di riallacciare la
continuità liturgica allo scopo di ricomporre l’unità ecclesiale, vuol dire
ammettere implicitamente che tale continuità e tale unità sono state rotte, o
perlomeno gravemente compromesse, durante l’avventurosa sperimentazione
postconciliare.
C’è quindi da meravigliarsi se oggi i fedeli si sentono a
disagio in questa liturgia mondanizzata, se i giovani le preferiscono ben altre
“liturgie” dai caratteri più sfacciatamente mondani e secolari? Com’è noto, la
frequenza italiana alla Messa è scesa ai minimi livelli storici; recenti
statistiche del CENSIS ci rivelano che, sebbene l'85% degl'Italiani si dichiari
tuttora cristiano cattolico e il 92% degli studenti scelga l’insegnamento
religioso, solo il 21,4% di loro va regolarmente alle funzioni liturgiche
ecclesiali; inoltre, molti altri ci vanno solo saltuariamente perché «si
annoiano» e «non avvertono un clima spirituale». Un risultato davvero
fallimentare, per una riforma liturgica che pretendeva di coinvolgere e
responsabilizzare al massimo il pubblico mediante celebrazioni comprensibili ed
attraenti! Questi risultati, sia qualitativi che quantitativi, manifestano la
gravissima crisi del liturgismo progressista, razionalista e secolarizzatore, e
forse ne annunciano la prossima fine a vantaggio di una ripresa del sacro
liturgico.
Infatti da tempo si avverte nell’aria una novità: “la marea è
cambiata”. A conferma del celebre detto secondo cui, se l’uomo propone, è però
Dio che dispone per il futuro, oggi le cose stanno evolvendosi diversamente da
come avevano previsto i pretesi “profeti” conciliari e avevano programmato i
pretesi “esperti” postconciliari. Proprio il dilagare dei fattori dissolutivi
in seno alla Chiesa ha finito col rompere l’incantesimo, ossia il
pericolosissimo processo di lenta e indolore sparizione della liturgia
tradizionale, e ha favorito una crisi che ha creato discontinuità, divisioni e
rotture, ma che ha anche risvegliato la vigilanza dei buoni e suscitato la
reazione dei migliori. Il malessere per il degrado subìto dal nuovo rito ha
favorito un certo ritorno d’interesse e di stima per quello vecchio,
specialmente fra i giovani. Basti pensare che oggi i “centri di Messa tradizionale”
sono molto più numerosi di quanto lo erano all’epoca di Paolo VI, e che questa
rinascita è avvenuta, paradossalmente, proprio nelle nazioni più colpite dal
degrado liturgico: non solo la Francia, la Germania e i Paesi Bassi, ma anche
l’Inghilterra, l'Australia e soprattutto gli Stati Uniti.
La piena riabilitazione e liberalizzazione del Rito Romano
tradizionale detto di san Pio V, il più antico, santo e fecondo della Chiesa
universale, è una riconquista che va accolta con gioia, riconoscenza, speranza
e impegno; soprattutto con impegno, per far sì che questa occasione storica,
ben lungi dal contribuire alla dominante confusione “pluralistica”, segni
l’inizio del tanto sospirato risanamento liturgico e, con esso, anche della
riscossa della Chiesa.
Guido Vignelli
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