ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 3 giugno 2012

DALLA SECOLARIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ A QUELLA DELLA LITURGIA



Liturgie sacre e liturgie profane - La liturgia riguarda la vita della Chiesa, dunque coinvolge non solo il clero ma anche il laicato. Pertanto i laici possono ed anzi debbono interessarsi della liturgia e preoccuparsi della sua crisi attuale. Inoltre, come insegnava Leone XIII, la società non può disinteressarsi del modo in cui viene onorato e celebrato nella vita pubblica quel Dio, che è Creatore, Legislatore e Santificatore della natura sociale dell’uomo e quindi della società stessa. La motivazione di questo interesse ha una radice storica nell’originario significato della parola liturgia. Nel Cristianesimo, essa indica il culto pubblico ufficiale reso all’unico vero Dio dalla Chiesa universale per mezzo del clero. Ma in origine, nell’antica Grecia, per liturgia s’intendeva il servizio pubblico (fastoso e dunque costoso) svolto da privati per conto e a beneficio della comunità, in specie il servizio cultuale rivolto alle divinità patrone e protettrici della polis. Usata in senso  esteso, quindi, la parola liturgia può significare un rituale pubblico mediante il quale le persone, le azioni e le cose vengono offerte alla Divinità e poste al Suo servizio. In tal modo la società, per mezzo delle sue autorità, ordina le attività civili secondo “numero, peso e misura”, come esige la Bibbia; in tal modo si riconosce che le cose temporali e terrene debbono imitare l’ordinamento eterno e ultraterreno, le cose umane l’ordinamento divino, la città terrena la Città celeste. In questi casi si tratta di liturgie non sacre ma “profane”, secondo l’originario significato di pro-fanum, che indicava non ciò che si oppone al sacro ma ciò che imita e lo favorisce; si tratta di liturgie civili che potremmo chiamare “laiche”, se non fosse che questo irrecuperabile termine ormai indica il disinteresse e l’emarginazione della Religione.
Siano esse sacre o profane, ecclesiali o civili, le liturgie hanno la stessa motivazione: esse aspirano ad onorare Dio mediante una pallida imitazione terrena della “celeste liturgia” resagli dai Suoi Angeli nell’Empireo. Pur essendo “profane”, le liturgie civili hanno anch’esse un significato e un fine implicitamente religiosi, perché con esse la comunità rende omaggio alla divina sovranità e tenta di armonizzare la vita sociale con quella ecclesiale, a maggior gloria di Dio. Questo ci è stato insegnato da una lunga tradizione ecclesiastica che da san Dionigi Areopagita e san Massimo, attraverso san Tommaso e il ven. padre De la Puente, arriva fino a dom Guéranger e al padre Bouyer.



La testimonianza della società cristiana
Ciò non deve meravigliare. La storia ci ricorda che – lungo i millenni e fino a qualche tempo fa – la maggioranza delle attività e istituzioni civili ha avuto un fondamento religioso che si manifestava anche in un carattere liturgico che le ordinava all’Assoluto mediante riti spirituali, belli, solenni, fastosi, talvolta trionfali, che ritmavano e orientavano la sua vita politica e sociale. Basti pensare ad alcune cerimonie politiche, come la consacrazione e la intronizzazione di un Re, il giuramento di un’autorità civile, l’insediamento di un senato o di una magistratura, la consegna della bandiera a un esercito; basti pensare ad alcune cerimonie sociali, come l’apertura di un anno accademico universitario, la consegna di una onorificenza, la processione di una corporazione delle arti e dei mestieri, la commemorazione degli eroi defunti, o anche semplicemente le usanze rituali della quotidiana vita familiare.
Queste cerimonie civili manifestavano che la società non solo deve realizzare il bene comune terreno, ma mediante questo deve tendere a quel summum Bonum commune che è Dio. Manifestavano che l’unità, il prestigio, la moralità e perfino la prosperità di un popolo dipendevano anche dalle cerimonie pubbliche, sia sacre che profane. Manifestavano che le autorità ad ogni livello – il Re, il senatore, il magistrato, il generale, il docente, il padrone, il padre di famiglia – sono tutte degne di onore e di rispetto, se e in quanto sono disposte da Dio a Sua immagine e somiglianza e quindi partecipano della Sua autorità e rappresentano la divina Provvidenza nel loro settore della vita civile. Ciò era talmente avvertito che, anche se avevano perso una guerra o un dominio o un titolo, un popolo e il suo legittimo sovrano potevano salvarsi grazie all’aura religiosa che li circondava, contribuendo ad assicurargli il prestigio, il rispetto e l’affetto universali.
Va ricordato al riguardo un signfiicativo caso storico avvenuto nel 1805. Pur essendo stato pesantemente sconfitto e umiliato da Napoleone I, che l’aveva costretto a rinunciare al titolo di “sacro romano imperatore”, al suo ritorno a Vienna Francesco II d’Asburgo venne ugualmente accolto dal suo popolo con affettuosi festeggiamenti, suscitando questo amaro commento del despota francese: “Se una tal sconfitta accadesse a me, il popolo parigino mi accoglierebbe in modo opposto!” Ciò era dovuto al fatto che il debole e sconfitto Francesco II aveva un prestigio religioso che mancava al forte e vincitore Napoleone I: il prestigio di quella legittima autorità che il francese aveva vanamente cercato di usurpare con cerimonie che pretendevano d’imitare quelle del Sacro Romano Impero.
La secolarizzazione della politica e delle sue liturgie
Negli ultimi tempi, la secolarizzazione della società e delle istituzioni politiche e civili – avviata dalla rivoluzione protestante e sancita dalle rivoluzione liberale del 1789 – ha messo in crisi questo aspetto religioso e liturgico della vita sociale, in nome della semplificazione, della uguaglianza, della socializzazione e della democratizzazione. Perfino la cerimonia del giuramento civile, che manifestava l’adesione del cittadino a un ordinamento sociale “non negoziabile”, è oggi diventato una mera formalità priva di significato e di obblighi. Del resto, non c’è davvero motivo di celebrare la vita civile con cerimonie rituali, da quando le società sono state ridotte a mere convenzioni umane finalizzate ad utilità terrene, le istituzioni a mere costruzioni di potere, le autorità a meri delegati del popolo arbitrariamente scelti.
Questa secolarizzazione politica ha creato un “vuoto di senso” e di autorevolezza che non poteva essere efficacdemente riempito dalle istituzioni liberali o democratiche. Di conseguenza, esso è stato talvolta riempito da surrogati pervertiti e caricaturali dalle rovinose conseguenze. Infatti, quando la società ha ricuperato una certa quale aspirazione religiosa all’Assoluto, esprimendola in liturgie civili, lo ha fatto in una versione immanentizzata e laicizzata, una imitazione blasfema e demoniaca, com’è accaduto con le ideologie totalitarie e le cerimonie di massa rese famose dal comunismo, dal fascismo e dal nazismo.
L’esperienza storica ci conferma quindi una convinzione dottrinale: ossia che non può esistere, o almeno non può durare a lungo, una società “laica” nel senso di meramente profana, indifferente alla Religione, neutrale alla Fede, estranea al “sacro”. Se non si fonda su una “teologia politica” vera, cristiana, la società cercherà prima o poi di fondarsi su una falsa, anticristiana. La stessa democrazia contemporanea ce lo conferma, nel suo tentativo di sacralizzare la “sovranità popolare” esprimendola nelle para-liturgie del “consenso” e della “partecipazione” di massa. Anche qui come dovunque, le soluzioni intermedie non funzionano e favoriscono la causa dei più furbi o violenti.
Ripercussioni liturgiche della secolarizzazione politica
La seco,larizzazione politica ha provocato gravi conseguenze nella vita della Chiesa. Essa infatti non giace sulle nuvole ma cammina sulla terra e nelle società umane, per cui i suoi risultati religiosi dipendono anche del clima spirituale e morale che respira nella vita civile, come ha insegnato Pio XII. Col tempo, la secolarizzazione della vita sociale ha favorito la secolarizzazione della vita religiosa, e la perdita della ritualità politica ha favorito la crisi della ritualità ecclesiale. Questo declino è gradualmente avvenuto in Occidente lungo il XX secolo ed è culminato col “riformismo” neo-modernista dominante nel periodo postconciliare.
Tale degrado liturgico ha avuto i suoi agenti principali all’interno della Chiesa stessa. Essendo stata smascherata e sconfitta nel campo dogmatico e morale, l’eresia modernista ha cercato una rivincita in quello spirituale, sociale e soprattutto liturgico. Eludendo le condanne dottrinali subìte da san Pio X, fin dagli anni Venti il modernismo ha riproposto il suo vecchio metodo del “primato della prassi” sulla teoria, della “esperienza vitale” sulla dottrina, presentato però ai fedeli in una nuova e più morbida formula: il “primato della pastorale” sul dogma. Questa nuova “pastorale” pragmatica, latitudinaria e implicitamente relativistica era orientata a realizzare un’ actuosa participatio, una “partecipazione attiva” dei fedeli – ma solo quelli “adulti”! – non solo all’apostolato gerarchico (nel caso dell’Azione Cattolica) ma anche al governo ecclesiale e alla formulazione dottrinale, in modo da trasformare la Chiesa intera da società dogmatica e gerarchica in una carismatica e democratica “comunità di popolo in cammino” verso una nuova terra promessa (mondana come quell’antica degli Ebrei).
Questa trasformazione neo-modernistica della mentalità e della sensibilità ecclesiali poteva realizzarsi pienamente solo mediante una nuova liturgia. Se si fa evolvere la prassi liturgica, con essa si evolve anche la vita della Chiesa, il sensus Ecclesiae e infine la concezione stessa della Chiesa, col grande vantaggio che i fedeli non se ne accorgono, o se ne accorgono quando è troppo tardi. In questo modo, la Chiesa poteva finalmente “porsi al ritmo dei tempi”, “adeguarsi al mondo che cambia”, “diventare dialogo”, “farsi comunità”, rendersi democratica, pluralistica e policentrica, come auspicavano alcuni noti esperti molto ascoltati nel Concilio Vaticano II.
Pertanto, la fazione neo-modernista del vecchio e glorioso movimento liturgico ha preteso di realizzare una “inculturazione” della liturgia che rendesse la Fede comprensibile e accettabile all’ “uomo moderno”; i riti cattolici sono stati così adeguati alle esigenze dei tempi e dei luoghi, ossia alla sensibilità, alla mentalità e alle usanze dei popoli, delle comunità e perfino delle tribù. Questa operazione a tavolino ha coinvolto l’intera liturgia nella “svolta antropologica” (antropologische Wende) auspicata dal noto guru conciliare Kark Rahner. Si è così realizzata una graduale ma progressiva immanentizzazione e secolarizzazione del rito: la dimensione verticale si è appiattita in quella orizzontale, il culto di Dio si è ridotto al culto dell’Uomo e del suo mondo, evolvendosi quindi appresso a loro. Possiamo dire che si è realizzato anche in questo campo l’infausto trinomio della Rivoluzione francese: libertè, ossia libera creatività liturgica; égalité, ossia parificazione del clero al laicato nella gestione del culto; fraternité, ossia creazione di una nuova comunità eccesiale mediante la prassi liturgica.
Conseguenze, rimedi e speranze
Si è realizzata quindi non una riforma ma una rivoluzione liturgica che ha provocato “una devastazione” e “una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano essere solo tragiche”, come ammise fin dal 1985 l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel suo celebre libro-intervista. Oggi tutti possono constatare che non solo la qualità, ma anche il semplice decoro e perfino la dovuta ortoprassi delle celebrazioni liturgiche sono arrivati quasi dovunque al più basso livello mai raggiunto nella storia della Chiesa. Il fatto stesso che Benedetto XVI senta l’esigenza di riallacciare la continuità liturgica allo scopo di ricomporre l’unità ecclesiale, vuol dire ammettere implicitamente che tale continuità e tale unità sono state rotte, o perlomeno gravemente compromesse, durante l’avventurosa sperimentazione postconciliare.
C’è quindi da meravigliarsi se oggi i fedeli si sentono a disagio in questa liturgia mondanizzata, se i giovani le preferiscono ben altre “liturgie” dai caratteri più sfacciatamente mondani e secolari? Com’è noto, la frequenza italiana alla Messa è scesa ai minimi livelli storici; recenti statistiche del CENSIS ci rivelano che, sebbene l'85% degl'Italiani si dichiari tuttora cristiano cattolico e il 92% degli studenti scelga l’insegnamento religioso, solo il 21,4% di loro va regolarmente alle funzioni liturgiche ecclesiali; inoltre, molti altri ci vanno solo saltuariamente perché «si annoiano» e «non avvertono un clima spirituale». Un risultato davvero fallimentare, per una riforma liturgica che pretendeva di coinvolgere e responsabilizzare al massimo il pubblico mediante celebrazioni comprensibili ed attraenti! Questi risultati, sia qualitativi che quantitativi, manifestano la gravissima crisi del liturgismo progressista, razionalista e secolarizzatore, e forse ne annunciano la prossima fine a vantaggio di una ripresa del sacro liturgico.
Infatti da tempo si avverte nell’aria una novità: “la marea è cambiata”. A conferma del celebre detto secondo cui, se l’uomo propone, è però Dio che dispone per il futuro, oggi le cose stanno evolvendosi diversamente da come avevano previsto i pretesi “profeti” conciliari e avevano programmato i pretesi “esperti” postconciliari. Proprio il dilagare dei fattori dissolutivi in seno alla Chiesa ha finito col rompere l’incantesimo, ossia il pericolosissimo processo di lenta e indolore sparizione della liturgia tradizionale, e ha favorito una crisi che ha creato discontinuità, divisioni e rotture, ma che ha anche risvegliato la vigilanza dei buoni e suscitato la reazione dei migliori. Il malessere per il degrado subìto dal nuovo rito ha favorito un certo ritorno d’interesse e di stima per quello vecchio, specialmente fra i giovani. Basti pensare che oggi i “centri di Messa tradizionale” sono molto più numerosi di quanto lo erano all’epoca di Paolo VI, e che questa rinascita è avvenuta, paradossalmente, proprio nelle nazioni più colpite dal degrado liturgico: non solo la Francia, la Germania e i Paesi Bassi, ma anche l’Inghilterra, l'Australia e soprattutto gli Stati Uniti.
La piena riabilitazione e liberalizzazione del Rito Romano tradizionale detto di san Pio V, il più antico, santo e fecondo della Chiesa universale, è una riconquista che va accolta con gioia, riconoscenza, speranza e impegno; soprattutto con impegno, per far sì che questa occasione storica, ben lungi dal contribuire alla dominante confusione “pluralistica”, segni l’inizio del tanto sospirato risanamento liturgico e, con esso, anche della riscossa della Chiesa.
Guido Vignelli

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