Fu evento storico più importante nei modi che nei testi
prodotti Continuità o rottura? E’ forse giunto il momento di uscire
dalla gabbia ermeneutica in cui si dibattono gli studiosi del Concilio
Vaticano II. Tutti coloro che affrontano la discussione storiografica
sul Concilio, mettendone in luce, da diverse angolature, gli elementi di
oggettiva “svolta” con l’epoca precedente, vengono infatti
sbrigativamente etichettati come sostenitori dell’“ermeneutica della
discontinuità”, in contrasto con il magistero di Benedetto XVI e dei
suoi predecessori.
Questo è ad esempio il sovrano metro di giudizio di monsignor Agostino Marchetto, nel suo recente volume Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (Libreria Editrice Vaticana, 2012) come lo era stato del resto nel suo precedente studio Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia (Libreria Editrice Vaticana, 2005).
In questi due libri più che storico, monsignor Marchetto si dimostra attento recensore di tutto ciò che nell’ultimo decennio è stato pubblicato in tema di Vaticano II. Non è questo necessariamente un limite. Il limite è quello di lanciare sugli autori recensiti, a destra e a sinistra, accuse di “discontinuismo”, facendosi scudo di un presunto magistero a questo riguardo per coprire una sostanziale debolezza argomentativa. Benedetto XVI però, nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ha dichiarato che all’ermeneutica della discontinuità non si oppone un’ermeneutica della continuità tout court, ma un’“ermeneutica della riforma” la cui vera natura consiste in un “insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”. Forse è proprio dalla constatazione dell’esistenza di livelli diversi di continuità e di discontinuità che bisognerebbe procedere.
Continuità o discontinuità del Vaticano II nei confronti della chiesa precedente che può essere considerata sotto due aspetti: la dimensione storica e umana della chiesa e la sua dimensione ontologica, che si esprime nella immutabilità della sua Tradizione. Una distinzione che corrisponde alla duplice natura della chiesa, umana e divina e che rende il discorso ben più articolato e ricco di sfumature di quanto monsignor Marchetto e altri autori vorrebbero. Il primo livello di indagine spetta allo storico, che ha come criterio veritativo quello dell’accertamento e della valutazione dei fatti. Il secondo livello appartiene al teologo, al pastore e, in ultima istanza, al Sommo Pontefice, supremo custode delle verità di fede e di morale. Si tratta di due piani distinti, ma connessi e interdipendenti, come lo sono l’anima e il corpo nell’organismo umano. Ma è solo dopo la ricostruzione storica, non prima, che intervengono i pastori, per formulare i loro giudizi
teologici e morali.
I due livelli, quello storico e quello ermeneutico non si possono confondere, a meno di non ritenere che la storia coincida con la sua interpretazione. Ciò significa che il Concilio Vaticano II deve essere affrontato non solo sul piano teologico, ma innanzitutto, sul piano storico come evento. Il teologo eserciterà la sua riflessione sui testi, lo storico, senza trascurare i testi, riserverà la sua attenzione soprattutto alla loro genesi, alle loro conseguenze, al contesto in cui essi si situano. Sia lo storico che il teologo cercano la verità, che è la medesima, ma vi arrivano per vie diverse, non contrapposte.
Sembra che sia stato il cardinale Ruini ad affidare a Marchetto il compito di contrastare l’opera storica, di segno ultraprogressista, di Giuseppe Alberigo e della sua “scuola di Bologna”. Ma contro la storia tendenziosa di Alberigo e dei suoi continuatori non è sufficiente affermare che i documenti del Concilio devono essere letti in continuità e non in rottura con la Tradizione.
Quando nel 1619 Paolo Sarpi scrisse una storia eterodossa del Concilio di Trento, non gli furono contrapposte le formule dogmatiche di Trento, ma gli fu opposta una storia diversa, la celebre Storia del Concilio di Trento scritta per ordine del Papa Innocenzo X dal cardinale Pietro Sforza Pallavicino (1656-1657): la storia infatti si combatte con la storia, non con le affermazioni teologiche. E’ questo il motivo per cui le critiche che Marchetto rivolge al mio studio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau, 2011), sono pallottole a salve fuori bersaglio. Non sono infatti né un “discontinuista”, come Marchetto si ostina a ripetere, né un “continuista”, perché giudico questo termine altrettanto privo di significato del precedente.
Sono più semplicemente uno storico che si propone di raccontare in maniera vera e oggettiva quanto è accaduto, non solo nei tre anni in cui si svolse il Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, ma negli anni che lo precedettero e in quelli che a esso immediatamente seguirono, l’epoca del cosiddetto “postconcilio”. Faccio mio l’auspicio che il cardinale Ruini rivolgeva il 22 giugno 2005 all’impresa di monsignor Marchetto (“è tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”) ma non credo che sia produttivo nascondere la verità storica dietro il velo di una malintesa “ermeneutica della continuità” Discordo radicalmente dalla lettura del Concilio che lo storico di Bologna Giuseppe Ruggieri propone nel suo recente Ritrovare il concilio (Einaudi, 2012), ma non posso dargli torto quando afferma che il compito dello storico consiste “nel conoscere, a partire dalle fonti, cosa sia veramente accaduto e nel comprendere il significato effettivo di ciò che è veramente accaduto” e spiega perché il Concilio Vaticano non è riducibile alle sue decisioni (pp. 7-11).
Ho già avuto occasione di scriverlo: i Concili possono promulgare dogmi, verità, decreti, canoni, che sono emanati dal Concilio, ma che non sono il Concilio. Il Concilio è diverso dalle sue decisioni, che solo quando sono infallibilmente promulgate entrano a far parte della Tradizione (Apologia della Tradizione. Poscritto a Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta). Come negare che il Concilio Vaticano II abbia avuto una sua “specificità” rispetto ad altri eventi storici e che abbia rappresentato, per molti aspetti, una “Rivoluzione”? Lo attestano le testimonianze che in occasione dei cinquant’anni dell’apertura del Concilio ha raccolto Avvenire, come quella del sociologo canadese Charles Taylor, che ricorda l’evento con queste parole: “Era come la caduta di Gerico” (Avvenire, 26 luglio 2012).
La principale novità del Vaticano II fu la sua natura pastorale. Il cardinale Walter Brandmüller lo ha spiegato bene. I Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e legislatori in materia di diritto e di disciplina della chiesa, ma il Vaticano II, al contrario dei precedenti Concili, “non ha esercitato la giurisdizione né legiferato, né deliberato su questioni di fede in via definitiva. Esso è stato piuttosto un nuovo tipo di Concilio, in quanto si è concepito come Concilio pastorale, che voleva spiegare al mondo di oggi la dottrina e gli insegnamenti del Vangelo in un modo più attraente e istruttivo. In particolare non ha pronunciato alcuna censura dottrinale. […] Invece il timore di pronunciare sia censure dottrinali che definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine emergessero pronunciamenti conciliari il cui grado di autenticità e dunque di obbligatorietà fu assolutamente vario. (…)
Ogni testo conciliare ha un differente grado di cogenza. Anche questo è un aspetto totalmente nuovo nella storia dei Concili” (Walter Brandmüller, Il Vaticano II nel contesto della storia conciliare, in Aa. Vv., Le “chiavi” di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II, Cantagalli, 2012, pp. 54-55). Gli studi di monsignor Brunero Gherardini (l’ultimo è Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau, 2012) restano il punto di riferimento fondamentale per una valutazione del grado di cogenza di questi insegnamenti per lo più pastorali. Caratteristica sorprendente quella della pastoralità perché in tutti i venti Concili universali precedenti, la forma è sempre dogmatica e normativa. Quella definitoria, come osserva Enrico Maria Radaelli, in un suo acuto studio sul linguaggio del Vaticano II, è “la forma naturale del linguaggio della chiesa” (Il domani – terribile o radioso – del dogma, edizione pro manuscripto, 2012).
La pastoralità non fu solo un “fatto”, ovvero la naturale esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio nei modi adatti ai tempi, come era sempre stato. Né il Concilio Vaticano I, né quello di Trento erano infatti privi di dimensione pastorale. La “pastoralità” fu invece elevata a principio alternativo alla “dogmaticità”, sottintendendo una priorità della prima sulla seconda. La dimensione pastorale, per sé accidentale e secondaria rispetto a quella dottrinale, divenne nei fatti prioritaria, operando una rivoluzione nel linguaggio e nella mentalità. Un autore non appartenente alla scuola di Bologna, il padre John O’Malley della Georgetown University, ha definito il Vaticano II come “un evento linguistico”, spiegando come alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che egli chiama “epidittico”, ovvero discorsivo (Che cosa è successo nel Vaticano II, tr. it. Vita e Pensiero, 2010, pp. 45-54).
La chiesa si spogliò della sua veste dogmatica per indossare un nuovo abito pastorale ed esortativo, non più obbligatorio e definitivo. Ma esprimersi in termini diversi dal passato, significa compiere una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso e il modo con cui ci si presenta rivelano infatti un modo di essere e di pensare: lo stile, ricorda O’Malley, è l’espressione ultima del significato. Si può aggiungere che la rivoluzione nel linguaggio non consiste solo nel cambiare il significato delle parole, ma anche nell’omettere alcuni termini e concetti. Si potrebbero fare molti esempi: affermare che l’inferno è vuoto, cosa che il Concilio non fece, è certamente una proposizione temeraria, se non eretica.
Omettere, o limitare al massimo, ogni riferimento all’inferno come il Concilio fece, non formula nessuna proposizione erronea, ma costituisce un’omissione che prepara la strada a un errore ancora più grave dell’inferno vuoto: l’idea che l’inferno non esiste, perché non se ne parla, e ciò che è ignorato è come se non esistesse. Questo linguaggio però non si è rivelato adeguato a esprimere efficacemente il messaggio religioso e morale del Vangelo. Rinunciando a esprimere il suo insegnamento in maniera autoritativa e veritativa, la chiesa ha anche rinunziato a scegliere tra il sì e il no, tra il bianco e il nero, aprendo ampie zone di equivocità.
La principale caratteristica dei testi conciliari è non a caso l’ambiguità. Romano Amerio fu il primo a mettere in evidenza “il carattere anfibologico dei testi conciliari” (Iota Unum, Lindau, 2010), ovvero la loro equivocità di fondo, che permette di leggerli in continuità o in discontinuità con la Tradizione precedente. Un documento ambiguo può essere esplicitato nel senso della continuità, come si sforza di fare Benedetto
XVI, o in quello della discontinuità, come fa la teologia progressista, ma non ha mai la limpidezza e il nitore che hanno i grandi testi conciliari da Nicea al Vaticano I ai quali non si sbaglia mai nel richiamarsi.
Secondo la scuola di Bologna la dimensione pastorale va considerata come una novità dottrinale implicita nel discorso di apertura di Giovanni XXIII che presentava il Concilio come un “balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e formazione delle coscienze”; si trattava, afferma Ruggieri, di “un nuovo orientamento dottrinale, consistente soprattutto nella reinterpretazione della sostanza viva del Vangelo nel linguaggio che la storia attuale degli uomini e delle donne esige…”. La rottura apparentemente solo linguistica fu, secondo i bolognesi, in realtà dottrinale e questo perché, per essi, il modo in cui si parla e agisce è dottrina che si fa prassi. Come non
vedere in questa convinzione, che fu allora di Dossetti, ed è oggi dei suoi eredi, attraverso
Alberigo, la trascrizione all’interno della chiesa della categoria gramsciana di prassi in voga negli anni Sessanta?
La prassi era il modo di rapportarsi della chiesa con il mondo, che in quegli anni effettivamente mutò, abbandonando, ad esempio, come ben sottolineano Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, la lingua latina, la predicazione apologetica per il popolo e lo stile definitorio e giuridico (La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi Editore, 2011). Il Vaticano II non ne deliberò in modo esplicito e solenne la rimozione e tuttavia il vento del Concilio spazzò via questi tre pilastri della comunicazione cattolica, sostituendoli con un nuovo modo di esprimersi e di parlare ai fedeli. Una volta accettato il primato della prassi si arrivò all’assunzione di criteri massmediatici, come vere e proprie categorie ecclesiali.
La assunzione del linguaggio mediatico, proprio del mondo, costrinse a sottomettersi alle sue regole. Ciò spiega il ruolo di quel “paraconcilio” a cui si sono volute attribuire responsabilità che però scaturivano dallo stesso evento conciliare (don Enrico Finotti, Vaticano II 50 anni dopo, Fede & Cultura, 2012, pp. 81-104). L’errore della scuola di Bologna non è quello di mettere in luce la portata della rivoluzione pastorale, che i teologi e gli storici “continuisti” pretendono minimizzare, ma di presentarla come una “nuova Pentecoste” per la chiesa, tacendone le catastrofiche conseguenze. Il loro errore non sta nella ricostruzione storica, generalmente corretta, pur nelle forzature, ma nella pretesa, tipica dell’immanentismo modernista, di fare della storia un locus teologico.
L’“ascolto della Parola di Dio” diviene per essi l’ascolto del Verbo che si autorivela nel divenire storico. Per Ruggieri, l’espressione più vera di questa ermeneutica storica sarebbe la costituzione Dei Verbum, laddove soprattutto nel proemio e al n. 2, “essa non separa la rivelazione dall’evento del suo ascolto e introduce così la storia stessa come elemento costitutivo dell’autocomunicazione”. Anche se l’espressione più diretta di questa ermeneutica storica è certamente Gaudium et spes, perché nella redazione della costituzione l’orientamento fondamentale fu quello di uno sguardo recettivo nei confronti della storia, come luogo nel quale avviene l’interpellazione attuale di Dio, con il riconoscimento esplicito che “la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano” (GS, 44)”.
La strada da seguire non è segnata dall’orientamento che propone Giuseppe Ruggieri né da quello che indica monsignor Marchetto, ma dal ritorno alla grande tradizione storiografica della chiesa. L’ermeneutica biblica contemporanea postula l’uso di una strumentazione storicocritica per analizzare la dimensione umana della Sacra Scrittura, e portarne alla luce la verità oltre le ingenuità apologetiche. Ma se, come affermano gli esegeti à la page, la via maestra per avvicinarsi alle Sacre Scritture è il metodo storico-critico, non si comprende perché lo stesso tipo di indagine non possa essere applicato a un evento storico quale fu il Concilio Vaticano II. Sembra curioso, il tentativo di demitizzare la Scrittura, arrivando a negare dogmi centrali della Fede cattolica, e di divinizzare invece il Vaticano II, facendone un “superdogma”, che non ammette critiche o revisioni di alcun genere.
Il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze storiche, ha promosso nel 2012 alcuni seminari di studio sul Vaticano II, tra studiosi di differenti tendenze. Questi colloqui, sono stati un’utile occasione per togliere al Vaticano II quel velo di “intoccabilità” che impedisce ogni serio approfondimento e farlo oggetto di una pacata analisi tesa a collocarlo, all’interno della storia della chiesa, come non il primo né l’ultimo, ma il ventunesimo Concilio ecumenico della chiesa. C’è da augurarsi che l’Anno della Fede inaugurato da Benedetto XVI contribuisca a questa opera di rivisitazione storica, così importante per comprendere le cause della crisi religiosa e morale contemporanea.
(di Roberto de Mattei su Il Fogliodel 09-10-2012)
http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/10/09/quando-la-tradizione-fu-opacizzata/
Questo è ad esempio il sovrano metro di giudizio di monsignor Agostino Marchetto, nel suo recente volume Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (Libreria Editrice Vaticana, 2012) come lo era stato del resto nel suo precedente studio Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia (Libreria Editrice Vaticana, 2005).
In questi due libri più che storico, monsignor Marchetto si dimostra attento recensore di tutto ciò che nell’ultimo decennio è stato pubblicato in tema di Vaticano II. Non è questo necessariamente un limite. Il limite è quello di lanciare sugli autori recensiti, a destra e a sinistra, accuse di “discontinuismo”, facendosi scudo di un presunto magistero a questo riguardo per coprire una sostanziale debolezza argomentativa. Benedetto XVI però, nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ha dichiarato che all’ermeneutica della discontinuità non si oppone un’ermeneutica della continuità tout court, ma un’“ermeneutica della riforma” la cui vera natura consiste in un “insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”. Forse è proprio dalla constatazione dell’esistenza di livelli diversi di continuità e di discontinuità che bisognerebbe procedere.
Continuità o discontinuità del Vaticano II nei confronti della chiesa precedente che può essere considerata sotto due aspetti: la dimensione storica e umana della chiesa e la sua dimensione ontologica, che si esprime nella immutabilità della sua Tradizione. Una distinzione che corrisponde alla duplice natura della chiesa, umana e divina e che rende il discorso ben più articolato e ricco di sfumature di quanto monsignor Marchetto e altri autori vorrebbero. Il primo livello di indagine spetta allo storico, che ha come criterio veritativo quello dell’accertamento e della valutazione dei fatti. Il secondo livello appartiene al teologo, al pastore e, in ultima istanza, al Sommo Pontefice, supremo custode delle verità di fede e di morale. Si tratta di due piani distinti, ma connessi e interdipendenti, come lo sono l’anima e il corpo nell’organismo umano. Ma è solo dopo la ricostruzione storica, non prima, che intervengono i pastori, per formulare i loro giudizi
teologici e morali.
I due livelli, quello storico e quello ermeneutico non si possono confondere, a meno di non ritenere che la storia coincida con la sua interpretazione. Ciò significa che il Concilio Vaticano II deve essere affrontato non solo sul piano teologico, ma innanzitutto, sul piano storico come evento. Il teologo eserciterà la sua riflessione sui testi, lo storico, senza trascurare i testi, riserverà la sua attenzione soprattutto alla loro genesi, alle loro conseguenze, al contesto in cui essi si situano. Sia lo storico che il teologo cercano la verità, che è la medesima, ma vi arrivano per vie diverse, non contrapposte.
Sembra che sia stato il cardinale Ruini ad affidare a Marchetto il compito di contrastare l’opera storica, di segno ultraprogressista, di Giuseppe Alberigo e della sua “scuola di Bologna”. Ma contro la storia tendenziosa di Alberigo e dei suoi continuatori non è sufficiente affermare che i documenti del Concilio devono essere letti in continuità e non in rottura con la Tradizione.
Quando nel 1619 Paolo Sarpi scrisse una storia eterodossa del Concilio di Trento, non gli furono contrapposte le formule dogmatiche di Trento, ma gli fu opposta una storia diversa, la celebre Storia del Concilio di Trento scritta per ordine del Papa Innocenzo X dal cardinale Pietro Sforza Pallavicino (1656-1657): la storia infatti si combatte con la storia, non con le affermazioni teologiche. E’ questo il motivo per cui le critiche che Marchetto rivolge al mio studio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau, 2011), sono pallottole a salve fuori bersaglio. Non sono infatti né un “discontinuista”, come Marchetto si ostina a ripetere, né un “continuista”, perché giudico questo termine altrettanto privo di significato del precedente.
Sono più semplicemente uno storico che si propone di raccontare in maniera vera e oggettiva quanto è accaduto, non solo nei tre anni in cui si svolse il Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, ma negli anni che lo precedettero e in quelli che a esso immediatamente seguirono, l’epoca del cosiddetto “postconcilio”. Faccio mio l’auspicio che il cardinale Ruini rivolgeva il 22 giugno 2005 all’impresa di monsignor Marchetto (“è tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”) ma non credo che sia produttivo nascondere la verità storica dietro il velo di una malintesa “ermeneutica della continuità” Discordo radicalmente dalla lettura del Concilio che lo storico di Bologna Giuseppe Ruggieri propone nel suo recente Ritrovare il concilio (Einaudi, 2012), ma non posso dargli torto quando afferma che il compito dello storico consiste “nel conoscere, a partire dalle fonti, cosa sia veramente accaduto e nel comprendere il significato effettivo di ciò che è veramente accaduto” e spiega perché il Concilio Vaticano non è riducibile alle sue decisioni (pp. 7-11).
Ho già avuto occasione di scriverlo: i Concili possono promulgare dogmi, verità, decreti, canoni, che sono emanati dal Concilio, ma che non sono il Concilio. Il Concilio è diverso dalle sue decisioni, che solo quando sono infallibilmente promulgate entrano a far parte della Tradizione (Apologia della Tradizione. Poscritto a Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta). Come negare che il Concilio Vaticano II abbia avuto una sua “specificità” rispetto ad altri eventi storici e che abbia rappresentato, per molti aspetti, una “Rivoluzione”? Lo attestano le testimonianze che in occasione dei cinquant’anni dell’apertura del Concilio ha raccolto Avvenire, come quella del sociologo canadese Charles Taylor, che ricorda l’evento con queste parole: “Era come la caduta di Gerico” (Avvenire, 26 luglio 2012).
La principale novità del Vaticano II fu la sua natura pastorale. Il cardinale Walter Brandmüller lo ha spiegato bene. I Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e legislatori in materia di diritto e di disciplina della chiesa, ma il Vaticano II, al contrario dei precedenti Concili, “non ha esercitato la giurisdizione né legiferato, né deliberato su questioni di fede in via definitiva. Esso è stato piuttosto un nuovo tipo di Concilio, in quanto si è concepito come Concilio pastorale, che voleva spiegare al mondo di oggi la dottrina e gli insegnamenti del Vangelo in un modo più attraente e istruttivo. In particolare non ha pronunciato alcuna censura dottrinale. […] Invece il timore di pronunciare sia censure dottrinali che definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine emergessero pronunciamenti conciliari il cui grado di autenticità e dunque di obbligatorietà fu assolutamente vario. (…)
Ogni testo conciliare ha un differente grado di cogenza. Anche questo è un aspetto totalmente nuovo nella storia dei Concili” (Walter Brandmüller, Il Vaticano II nel contesto della storia conciliare, in Aa. Vv., Le “chiavi” di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II, Cantagalli, 2012, pp. 54-55). Gli studi di monsignor Brunero Gherardini (l’ultimo è Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau, 2012) restano il punto di riferimento fondamentale per una valutazione del grado di cogenza di questi insegnamenti per lo più pastorali. Caratteristica sorprendente quella della pastoralità perché in tutti i venti Concili universali precedenti, la forma è sempre dogmatica e normativa. Quella definitoria, come osserva Enrico Maria Radaelli, in un suo acuto studio sul linguaggio del Vaticano II, è “la forma naturale del linguaggio della chiesa” (Il domani – terribile o radioso – del dogma, edizione pro manuscripto, 2012).
La pastoralità non fu solo un “fatto”, ovvero la naturale esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio nei modi adatti ai tempi, come era sempre stato. Né il Concilio Vaticano I, né quello di Trento erano infatti privi di dimensione pastorale. La “pastoralità” fu invece elevata a principio alternativo alla “dogmaticità”, sottintendendo una priorità della prima sulla seconda. La dimensione pastorale, per sé accidentale e secondaria rispetto a quella dottrinale, divenne nei fatti prioritaria, operando una rivoluzione nel linguaggio e nella mentalità. Un autore non appartenente alla scuola di Bologna, il padre John O’Malley della Georgetown University, ha definito il Vaticano II come “un evento linguistico”, spiegando come alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che egli chiama “epidittico”, ovvero discorsivo (Che cosa è successo nel Vaticano II, tr. it. Vita e Pensiero, 2010, pp. 45-54).
La chiesa si spogliò della sua veste dogmatica per indossare un nuovo abito pastorale ed esortativo, non più obbligatorio e definitivo. Ma esprimersi in termini diversi dal passato, significa compiere una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso e il modo con cui ci si presenta rivelano infatti un modo di essere e di pensare: lo stile, ricorda O’Malley, è l’espressione ultima del significato. Si può aggiungere che la rivoluzione nel linguaggio non consiste solo nel cambiare il significato delle parole, ma anche nell’omettere alcuni termini e concetti. Si potrebbero fare molti esempi: affermare che l’inferno è vuoto, cosa che il Concilio non fece, è certamente una proposizione temeraria, se non eretica.
Omettere, o limitare al massimo, ogni riferimento all’inferno come il Concilio fece, non formula nessuna proposizione erronea, ma costituisce un’omissione che prepara la strada a un errore ancora più grave dell’inferno vuoto: l’idea che l’inferno non esiste, perché non se ne parla, e ciò che è ignorato è come se non esistesse. Questo linguaggio però non si è rivelato adeguato a esprimere efficacemente il messaggio religioso e morale del Vangelo. Rinunciando a esprimere il suo insegnamento in maniera autoritativa e veritativa, la chiesa ha anche rinunziato a scegliere tra il sì e il no, tra il bianco e il nero, aprendo ampie zone di equivocità.
La principale caratteristica dei testi conciliari è non a caso l’ambiguità. Romano Amerio fu il primo a mettere in evidenza “il carattere anfibologico dei testi conciliari” (Iota Unum, Lindau, 2010), ovvero la loro equivocità di fondo, che permette di leggerli in continuità o in discontinuità con la Tradizione precedente. Un documento ambiguo può essere esplicitato nel senso della continuità, come si sforza di fare Benedetto
XVI, o in quello della discontinuità, come fa la teologia progressista, ma non ha mai la limpidezza e il nitore che hanno i grandi testi conciliari da Nicea al Vaticano I ai quali non si sbaglia mai nel richiamarsi.
Secondo la scuola di Bologna la dimensione pastorale va considerata come una novità dottrinale implicita nel discorso di apertura di Giovanni XXIII che presentava il Concilio come un “balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e formazione delle coscienze”; si trattava, afferma Ruggieri, di “un nuovo orientamento dottrinale, consistente soprattutto nella reinterpretazione della sostanza viva del Vangelo nel linguaggio che la storia attuale degli uomini e delle donne esige…”. La rottura apparentemente solo linguistica fu, secondo i bolognesi, in realtà dottrinale e questo perché, per essi, il modo in cui si parla e agisce è dottrina che si fa prassi. Come non
vedere in questa convinzione, che fu allora di Dossetti, ed è oggi dei suoi eredi, attraverso
Alberigo, la trascrizione all’interno della chiesa della categoria gramsciana di prassi in voga negli anni Sessanta?
La prassi era il modo di rapportarsi della chiesa con il mondo, che in quegli anni effettivamente mutò, abbandonando, ad esempio, come ben sottolineano Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, la lingua latina, la predicazione apologetica per il popolo e lo stile definitorio e giuridico (La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi Editore, 2011). Il Vaticano II non ne deliberò in modo esplicito e solenne la rimozione e tuttavia il vento del Concilio spazzò via questi tre pilastri della comunicazione cattolica, sostituendoli con un nuovo modo di esprimersi e di parlare ai fedeli. Una volta accettato il primato della prassi si arrivò all’assunzione di criteri massmediatici, come vere e proprie categorie ecclesiali.
La assunzione del linguaggio mediatico, proprio del mondo, costrinse a sottomettersi alle sue regole. Ciò spiega il ruolo di quel “paraconcilio” a cui si sono volute attribuire responsabilità che però scaturivano dallo stesso evento conciliare (don Enrico Finotti, Vaticano II 50 anni dopo, Fede & Cultura, 2012, pp. 81-104). L’errore della scuola di Bologna non è quello di mettere in luce la portata della rivoluzione pastorale, che i teologi e gli storici “continuisti” pretendono minimizzare, ma di presentarla come una “nuova Pentecoste” per la chiesa, tacendone le catastrofiche conseguenze. Il loro errore non sta nella ricostruzione storica, generalmente corretta, pur nelle forzature, ma nella pretesa, tipica dell’immanentismo modernista, di fare della storia un locus teologico.
L’“ascolto della Parola di Dio” diviene per essi l’ascolto del Verbo che si autorivela nel divenire storico. Per Ruggieri, l’espressione più vera di questa ermeneutica storica sarebbe la costituzione Dei Verbum, laddove soprattutto nel proemio e al n. 2, “essa non separa la rivelazione dall’evento del suo ascolto e introduce così la storia stessa come elemento costitutivo dell’autocomunicazione”. Anche se l’espressione più diretta di questa ermeneutica storica è certamente Gaudium et spes, perché nella redazione della costituzione l’orientamento fondamentale fu quello di uno sguardo recettivo nei confronti della storia, come luogo nel quale avviene l’interpellazione attuale di Dio, con il riconoscimento esplicito che “la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano” (GS, 44)”.
La strada da seguire non è segnata dall’orientamento che propone Giuseppe Ruggieri né da quello che indica monsignor Marchetto, ma dal ritorno alla grande tradizione storiografica della chiesa. L’ermeneutica biblica contemporanea postula l’uso di una strumentazione storicocritica per analizzare la dimensione umana della Sacra Scrittura, e portarne alla luce la verità oltre le ingenuità apologetiche. Ma se, come affermano gli esegeti à la page, la via maestra per avvicinarsi alle Sacre Scritture è il metodo storico-critico, non si comprende perché lo stesso tipo di indagine non possa essere applicato a un evento storico quale fu il Concilio Vaticano II. Sembra curioso, il tentativo di demitizzare la Scrittura, arrivando a negare dogmi centrali della Fede cattolica, e di divinizzare invece il Vaticano II, facendone un “superdogma”, che non ammette critiche o revisioni di alcun genere.
Il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze storiche, ha promosso nel 2012 alcuni seminari di studio sul Vaticano II, tra studiosi di differenti tendenze. Questi colloqui, sono stati un’utile occasione per togliere al Vaticano II quel velo di “intoccabilità” che impedisce ogni serio approfondimento e farlo oggetto di una pacata analisi tesa a collocarlo, all’interno della storia della chiesa, come non il primo né l’ultimo, ma il ventunesimo Concilio ecumenico della chiesa. C’è da augurarsi che l’Anno della Fede inaugurato da Benedetto XVI contribuisca a questa opera di rivisitazione storica, così importante per comprendere le cause della crisi religiosa e morale contemporanea.
(di Roberto de Mattei su Il Fogliodel 09-10-2012)
http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/10/09/quando-la-tradizione-fu-opacizzata/
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