L'ex maggiordomo di Benedetto XVI ha agito da solo. Non ha copiato e divulgato le carte segrete per avidità, ma perché voleva «aiutare il Papa» e questo suo convincimento, «sia pure erroneo», come si legge nel dispositivo della sentenza, è stato ritenuto credibile dai giudici. È la prima verità processuale sui Vatileaks, ma altri risvolti della vicenda restano ancora aperti.
L’ informaticoSi svolgerà dopo la conclusione del Sinodo, dunque a fine ottobre, il processo per favoreggiamento che vede imputato il tecnico informatico della Segreteria di Stato Claudio Sciarpelletti. Il cittadino italiano finito in cella Oltretevere per una notte era in contatto con Gabriele, e nella sua scrivania è stata trovata una busta con il materiale sulla Gendarmeria poi pubblicato nel libro di Gianluigi Nuzzi. Il tecnico ha cambiato versione nel corso degli interrogatori su chi gli avrebbe consegnato quella busta, facendo anche il nome di monsignor Carlo Polvani, nipote dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò. Al processo sarà chiamato a testimoniare anche Gabriele, e dovrebbe entrare in quel procedimento il contenuto dei supporti informatici – penne usb, computer portatili – sequestrati al maggiordomo.
Quali documenti?
In aula è stato chiarito che i gendarmi vaticani durante la perquisizione nell’abitazione del maggiordomo hanno prelevato 82 scatoloni di materiale, ma che i documenti rilevanti erano un migliaio: per il resto si trattava di articoli di giornale, libri, testi tratti dal web. Gabriele aveva detto di aver tenuto in casa dei «rimasugli» delle carte passate a Nuzzi. Non è stato chiarito quante esattamente fossero. Il segretario del Papa, Georg Gänswein, il quale era stato chiamato dalla Gendarmeria a esaminare l’archivio sequestrato al maggiordomo, ha dichiarato di aver visto anche documenti in originale. Mentre Cristiana Arru, l’avvocato di Gabriele, ieri ha sostenuto che non c’erano originali, ma delle «fotocopie a colori».
Il «memo» dello Ior
Nell’archivio di Gabriele è stata trovata copia anche del «memo» anonimo nel quale si affermava che la banca vaticana si sottraeva ai controlli dell’Air (Autorità d’informazione finanziaria presieduta dal cardinale Attilio Nicora) per il periodo precedente all’aprile 2011. L’assenza di spiegazioni su come il documento fosse finito sui giornali e in Tv era stata una delle motivazioni del clamoroso licenziamento del presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, lasciando intendere un qualche suo ruolo nella divulgazione. La presenza di quel «memo» in casa del maggiordomo sembra però smentire, su questo punto, la ricostruzione del board che ha messo alla porta il banchiere piacentino.
Pepite e assegni
Il fatto che a casa Gabriele siano stati sequestrati anche un assegno da centomila euro intestato al Papa, una pepita (forse) d’oro e un libro del Cinquecento non ha avuto grande rilevanza nel processo. L’assenza di fotografie e di testimonianze concordanti su chi, dove e come avesse trovato questa «refurtiva» ha fatto tramontare l’idea di insistere sul movente dell’avidità.
Gli «ispiratori»
Paolo Gabriele ha parlato di diverse persone con cui era in contatto, tra queste anche due cardinali, Angelo Comastri e Paolo Sardi, come pure la professoressa Ingrid Stampa, l’ex governante di Ratzinger che ancora lavora all’editing dei libri del Papa. Ieri è stato reso noto anche il nome del confessore di «Paoletto», padre Giovanni Luzi, che ricevette copia dei documenti raccontando però di averli bruciati. L’accusa ha chiarito che non sono emerse prove a carico di possibili ispiratori. Gabriele sarebbe stato sì suggestionato da un ambiente attraversato da tensioni, invidie e anche lotte di potere, ma nessuno gli avrebbe suggerito di fare ciò che ha fatto né era a conoscenza della sua decisione. Le ferite rimaste aperte Oltretevere – quella tra il segretario del Pontefice don Georg e il vecchio entourage tedesco di Ratzinger, quella tra i critici e i sostenitori del Segretario di Stato Tarcisio Bertone, quella sul ruolo della Gendarmeria oggetto di un capitolo del libro di Nuzzi – non si rimarginano certo con la sentenza pronunciata ieri.
Le altre inchieste
I giudici hanno creduto nel racconto di Paolo Gabriele, escludendo, almeno nel processo per furto, il coinvolgimento attivo di altre persone. Resta però aperta l’altra indagine, che ha come oggetto reati ben più gravi, come la divulgazione di segreti di Stato e l’attentato contro la sicurezza dello Stato. Fintanto che questa non sarà conclusa, non si potrà mettere la parola «fine» al caso Vatileaks. Resta poi aperto il procedimento per i presunti maltrattamenti subiti da Gabriele nelle prime due settimane di reclusione, che la Gendarmeria ha smentito con forza.
Andrea Tornielli Città del Vaticano
A tribunale chiuso. Vatileaks, sentenza tra macerie e misteri
Il Fatto Quotidiano - Spogli
(Marco Politi) Un processo-teatro. In cui ognuno ha giocato la sua parte. La Difesa non
ha disturbato la Corte, evocando maltrattamenti e irregolarità
solamente in zona Cesarini, giusto per ottenere le attenuanti. L’Accusa
ha proclamato che dall’“indagine istruttoria manca la prova di qualsiasi
correità o complicità con Paolo Gabriele”.
La Corte queste prove non si è mai affannata a cercarle, lasciando accuratamente fuori campo connessioni, complicità, retroscena che avrebbero potuto spiegare i motivi di un’azione di sabotaggio prolungata e pianificata. Anche l’Imputato ha dato il suo contributo alla rappresentazione. Ha recitato la parte del colpevole, addossandosi ogni responsabilità e informando il mondo intero del suo amore sviscerato per la Chiesa ed il Papa. Come da copione.
IL PROCESSO si chiude così, con la Difesa che osanna la sentenza come “buona ed equilibrata”. Un’operazione lampo, realizzata in due udienze soltanto. Tolta la prima, dedicata a questioni procedurali, e l’ultima riservata a veloci arringhe, una telegrafica comunicazione di Paolo Gabriele e la sentenza. Il Vaticano voleva chiudere rapidamente il procedimento anche per cancellare l’immagine di una Curia nido di vespe, il giudice Giuseppa Dalla Torre ha centrato l’obiettivo. Ha agito in piena indipendenza, assicura il portavoce papale Lombardi. Excusatio non petita. Ma non c’è da dubitarne. Quando si agisce ispirati dalla “Santissima Trinità” e in nome del pontefice “gloriosamente regnante”, si sa bene come muoversi.
C’è un solo neo. Nella platea dei giornalisti di tutto il mondo, che attendevano l’esito del procedimento, non c’è n’è uno – tranne i coreuti della “Chiesa ha sempre ragione” – che creda alla favola del maggiordomo regista solitario della più grande operazione di scardinamento dell’immagine della Curia degli ultimi secoli.
Messo il coperchio sulla pentola, il Vaticano non può cancellare ciò che Vatileaks ha portato alla luce. Un Segretario di Stato come Tarcisio Bertone, che invece di guidare con mano ferma e diplomatica la Curia, entra in conflitto con cardinali di primo rango come Nicora e Tettamanzi. Un pontefice, che assiste impotente e non ha la prontezza (o il temperamento di governante) di ordinare un’inchiesta indipendente sulla corruzione negli appalti vaticani. Quel presepe natalizio che con Viganò costa improvvisamente centocinquantamila euro di meno, non è l’invenzione di un visionario. É una prova ingombrante. Egualmente resta ingombrante il “ripassi l’anno prossimo” che Moneyval ha rivolto a luglio alla Santa Sede a proposito della banca vaticana, giudicata non sufficientemente trasparente e per la quale le autorità finanziarie europee richiedono urgentemente un “supervisore indipendente”. Richieste come un macigno. Benedetto XVI, che nel dicembre 2010, aveva decretato che qualsiasi operazione finanziaria degli uffici della Santa Sede potesse essere sottoposta all’ispezione di un’autorità di controllo nuova di zecca (l’Autorità di informazione finanziaria), ha accettato impotente che otto mesi dopo il cardinale Bertone tagliasse le unghie ai controllori. Sono fatti che rimangono.
RESTANO APERTI molti misteri di questa congiura. Anzitutto la sproporzione tra la massa di documenti raccolti dal maggiordomo e i testi pubblicati dal Fatto Quotidiano o contenuti nel libro di Nuzzi o usciti da uffici diversi dalla segreteria papale. Nessuno può garantire che delle copie non siano ancora riposte in qualche nascondiglio. Inoltre il maggiordomo ha iniziato a raccogliere materiale scottante già nel 2006, appena entrato in carica. Dunque vacilla la tesi dell’indignazione scatenata dalla vicenda Viganò (come da lui dichiarato). “Manipolabile e suggestionabile” è stato definito Gabriele in una delle perizie psichiatriche. Se agenti manipolatori ci sono, rimangono tuttora nell’ombra.Come nei gialli l’ultima parola la pronuncia il maggiordomo: “Alla tavola del Santo Padre mi sono convinto quanto sia facile manipolare una persona, che ha in mano il potere decisionale”.
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La Corte queste prove non si è mai affannata a cercarle, lasciando accuratamente fuori campo connessioni, complicità, retroscena che avrebbero potuto spiegare i motivi di un’azione di sabotaggio prolungata e pianificata. Anche l’Imputato ha dato il suo contributo alla rappresentazione. Ha recitato la parte del colpevole, addossandosi ogni responsabilità e informando il mondo intero del suo amore sviscerato per la Chiesa ed il Papa. Come da copione.
IL PROCESSO si chiude così, con la Difesa che osanna la sentenza come “buona ed equilibrata”. Un’operazione lampo, realizzata in due udienze soltanto. Tolta la prima, dedicata a questioni procedurali, e l’ultima riservata a veloci arringhe, una telegrafica comunicazione di Paolo Gabriele e la sentenza. Il Vaticano voleva chiudere rapidamente il procedimento anche per cancellare l’immagine di una Curia nido di vespe, il giudice Giuseppa Dalla Torre ha centrato l’obiettivo. Ha agito in piena indipendenza, assicura il portavoce papale Lombardi. Excusatio non petita. Ma non c’è da dubitarne. Quando si agisce ispirati dalla “Santissima Trinità” e in nome del pontefice “gloriosamente regnante”, si sa bene come muoversi.
C’è un solo neo. Nella platea dei giornalisti di tutto il mondo, che attendevano l’esito del procedimento, non c’è n’è uno – tranne i coreuti della “Chiesa ha sempre ragione” – che creda alla favola del maggiordomo regista solitario della più grande operazione di scardinamento dell’immagine della Curia degli ultimi secoli.
Messo il coperchio sulla pentola, il Vaticano non può cancellare ciò che Vatileaks ha portato alla luce. Un Segretario di Stato come Tarcisio Bertone, che invece di guidare con mano ferma e diplomatica la Curia, entra in conflitto con cardinali di primo rango come Nicora e Tettamanzi. Un pontefice, che assiste impotente e non ha la prontezza (o il temperamento di governante) di ordinare un’inchiesta indipendente sulla corruzione negli appalti vaticani. Quel presepe natalizio che con Viganò costa improvvisamente centocinquantamila euro di meno, non è l’invenzione di un visionario. É una prova ingombrante. Egualmente resta ingombrante il “ripassi l’anno prossimo” che Moneyval ha rivolto a luglio alla Santa Sede a proposito della banca vaticana, giudicata non sufficientemente trasparente e per la quale le autorità finanziarie europee richiedono urgentemente un “supervisore indipendente”. Richieste come un macigno. Benedetto XVI, che nel dicembre 2010, aveva decretato che qualsiasi operazione finanziaria degli uffici della Santa Sede potesse essere sottoposta all’ispezione di un’autorità di controllo nuova di zecca (l’Autorità di informazione finanziaria), ha accettato impotente che otto mesi dopo il cardinale Bertone tagliasse le unghie ai controllori. Sono fatti che rimangono.
RESTANO APERTI molti misteri di questa congiura. Anzitutto la sproporzione tra la massa di documenti raccolti dal maggiordomo e i testi pubblicati dal Fatto Quotidiano o contenuti nel libro di Nuzzi o usciti da uffici diversi dalla segreteria papale. Nessuno può garantire che delle copie non siano ancora riposte in qualche nascondiglio. Inoltre il maggiordomo ha iniziato a raccogliere materiale scottante già nel 2006, appena entrato in carica. Dunque vacilla la tesi dell’indignazione scatenata dalla vicenda Viganò (come da lui dichiarato). “Manipolabile e suggestionabile” è stato definito Gabriele in una delle perizie psichiatriche. Se agenti manipolatori ci sono, rimangono tuttora nell’ombra.Come nei gialli l’ultima parola la pronuncia il maggiordomo: “Alla tavola del Santo Padre mi sono convinto quanto sia facile manipolare una persona, che ha in mano il potere decisionale”.
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