Il successo della psicanalisi nasce dal fatto che il «confessore» non giudica
Da
quando è nata, poco più d’un secolo fa, la psicanalisi ha praticamente
conquistato il mondo e si è imposta come il vero sostituto del
cristianesimo, specialmente per quanto riguarda il sacramento della
Riconciliazione.
Invece
di entrare nel confessionale, ci si stende sul divano dello
psicanalista; invece di fare appello al proprio bisogno di espiazione,
ci si affida alle arti di un sedicente medico; invece di riconciliarsi
con Dio e con se stessi, si riassetta il proprio “equilibrio” psichico,
come se ciò eliminasse ogni problema e garantisse una vita liberata dal
male della nevrosi.
La
nevrosi, però - lo ammettono perfino gli stessi psicanalisti - non è il
male, è solo un sintomo; il male è qualcosa di più profondo: se non lo
si individua, perdura, magari nascosto nelle pieghe più profonde
dell’anima, pronto a riemergere con rinnovata virulenza.
Jules
Michelet deprecava quel «lugubre armadio di quercia» in cui il prete,
carpendo i segreti delle donne, ricattava e teneva in pugno la società
dell’Ancien Régime; oggi si è abolito il confessionale, ma è rimasta la
confessione, trasformata però in un rito laico, e alquanto costoso, ove
il nuovo Dio, la Scienza, libera l’uomo dalle sue sofferenze e lo
restituisce a una nuova vita.
Il
vantaggio, se tale lo si può considerare, consiste essenzialmente nel
fatto che lo psicanalista, a differenza del prete, non giudica; e non
giudica perché non parla più del bene e del male, non ha alcuna opinione
in merito, e se anche l’avesse, la terrebbe per sé; sacerdote profano,
il suo solo compito è quello di aiutare il paziente a fare chiarezza nel
proprio inconscio e a capire quale sia il suo vero io, ad accettarlo, a
viverlo sino in fondo, se può, e, se non può, a giungere ad un qualche
ragionevole compromesso.
Il
vero io del paziente, per lo psicanalista, non è in alcun modo il suo
io superiore, dove hanno sede le nobili aspirazioni, il desiderio del
bene e della luce, l’impulso a migliorarsi e perfezionarsi in senso
morale: questa, appunto, è roba vecchia e superata, roba da preti e da
lugubri armadi di quercia; il suo vero io è l’inconscio, ove
ribolliscono le pulsioni più abiette e vergognose, la
brama del parricidio (o del matricidio) e dell’incesto con il padre e la
madre; il complesso di castrazione (per il maschio) e l’invidia del
pene (per la donna): tutto il possente richiamo della “libido”, come se
l’essere umano non fosse molto di più che i suoi organi genitali egli
appetiti che da essi incessantemente nascono e proliferano,
infischiandosene delle più elementari regole morali e perfino del buon
gusto e del buon senso.
Il
paziente dello psicanalista viene sollecitato a buttar fuori tutti i
sordidi liquami della fogna che alberga nei suoi livelli più infimi,
senza sentirsi giudicato e senza dover provare contrizione o pentimento;
non si aspetta alcuna assoluzione, perché non chiede di riconciliarsi
con altri che con se stesso; e si aspetta di trovare tale
riconciliazione con se stesso, semplicemente rimestando nei putridi
liquami e portandoli alla luce della coscienza, ove, dopo averli
riconosciuti, imparerà a farseli da nemici, amici, s’intende grazie alle
virtù prodigiose del suo “medico”.
Delizioso,
sensuale piacere di potersi confessare, senza doversi pentire; di poter
indulgere nei propri sentimenti e pensieri più torbidi, senza doverne
arrossire; di potersi scaricare la coscienza senza prendere alcun
impegno di lasciare la via del male e di seguire la via del bene: è il
sogno dei libertini che si avvera, al di là delle loro più rosee
speranze. Male, bene: storielle per vecchiette superstiziose, inventate
da preti avidi di dominio sulle masse ignoranti; gli uomini moderni
hanno finito di credere in simili fanfaluche, di soggiacere a così
spudorati ricatti.
Per
la nuova religione psicanalitica, di cui Freud è il sacro profeta (sia
benedetto il suo nome), anche se alcuni profeti eretici gli insidiano il
monopolio, non c’è niente al di sopra dell’uomo: Dio non è che la
proiezione dei suoi fantasmi, o, per dir meglio, è la sua nevrosi più
profondai: è il grande Padre amato e odiato, temuto e invidiato, che
ogni figlio desidera inconsciamente di ammazzare, per liberarsi dalla
sua opprimente presenza, ma anche per ereditarne la forza e il potere,
e, soprattutto, per poter consumare in santa pace il tanto agognato
incesto con la Madre.
Nel
corso delle sedute psicanalitiche dunque, l’uomo non deve riconciliarsi
con questo Dio immaginario e deprecabile, ma deve ritornare padrone di
se stesso: deve recuperare l’efficienza, dogma supremo di questa nostra
società tutta votata alla produzione ed al successo; deve trasformarsi
da individuo fragile e bisognoso di cure, in un soggetto forte e capace
di riprendere il suo posto nella quotidiana lotta per la vita, se
possibile mettendo i piedi sulla testa di chi è più debole di lui.
Nessuna
empatia, nessuna solidarietà, nessuna fratellanza con il prossimo,
anzi, a rigore, il concetto stesso di “prossimo” è un vocabolo senza
senso: questo, almeno, se si vuol essere conseguenti. A che serve,
infatti, vedere negli altri il “prossimo”, se tutto quello che conta è
saper analizzare le proprie pulsioni, senza un principio etico
superiore, senza aver bisogno di distinguere il bene dal male, anzi,
abolendo deliberatamente la nozione di Bene e di Male, perché tutto quel
che conta è il bene soggettivo, quello che consente a me, proprio a me,
di vivere nel modo migliore possibile, ossia non nel modo più vero e
più giusto, più conforme alla mia stessa umanità, ma nel modo più
piacevole o, quanto meno, nel modo meno spiacevole?
E
poi, se Dio è solo una nevrosi della mia mente, che cosa dovrebbe
indurmi a vedere nell’altro un mio fratello? Sono forse il suo custode,
da dover vedere in lui un fratello? E perché mai? La vita é già
difficile e faticosa; è una guerra continua, darwiniana “strenght for
life”: lo prova il fatto che se ho il portafogli ben fornito, io
psicanalista mi aiuta a combattere le mie nevrosi e a liberarmene (dando
per scontato che io mi sia già liberato dalla più perniciosa di tutte,
la fede in Dio), se no, sono abbandonato al mio destino, come il
lebbroso che viene scacciato dalle strade della città, perché la sua
presenza infastidisce gli altri, le sue piaghe li turbano.
E
poco importa che la psicanalisi non sia affatto una scienza, ma una
pseudoscienza; che le sue “terapie” facciano spesso più danni di quanti
ne leniscano; che i suoi stessi sacerdoti siano in lotta furibonda tra
loro, si scomunichino a vicenda, si rinfaccino gli errori più madornali:
quand’anche ciò fosse evidente agli occhi di tutti, forse che
smetterebbe di attrarre l’umanità dolente, che cerca un sedativo alle
proprie angosce e non sa a chi altri rivolgersi?
È
stato osservato che, in un mondo abbandonato da Dio, non è vero che gli
uomini non credano più a niente; al contrario, bensì diventano pronti e
disposti a credere a tutto: ma proprio a tutto, alle cose più strane e
impensabili, ai riti più folli, alle dottrine più pazzesche, alle
illusioni più clamorose e, qualche volta, criminali. E questo per una
ragione molto semplice: avendo abbandonato, come vecchiume e
oscurantismo, la distinzione del Bene e del Male, gli esseri umani
sprofondano nella palude del relativismo etico e perdono il senso delle
proporzioni, il senso del giusto e del ragionevole, il senso del limite e
del lecito, il senso del conveniente e dell’opportuno; diventano come
bambini irresponsabili, volubili e imprevedibili, pronti a levarsi in
volo ad ogni colpo di vento e a ricadere giù, come sacchi di patate,
quando il vento si posa.
La
psicanalisi è una di queste dottrine pazzesche ed ha, rispetto ad
altre, il vantaggio di offrire tutti i conforti della vecchia religione,
senza però dover pagare l’obolo fastidioso del giudizio: poiché il
paziente non si sente, e di fatto non è, giudicato, non gli corre
nemmeno lo scomodissimo obbligo di provare rimorso o pentimento per il
male fatto, né quello, altrettanto increscioso, di desiderare la
redenzione attraverso l’espiazione.
Ecco,
questo è il punto: nella psicanalisi, l’uomo si redime da se stesso; ma
si redime per mezzo di una tecnica, di una tecnica mentale, non per
mezzo di una autentica comprensione e chiarificazione di se stesso. E
come lo potrebbe, visto che, nella prospettiva psicanalitica, l’uomo non
è che un grumo di pulsioni inferiori, un povero essere gettato a caso
in un universo senza senso, una scheggia che cerca di difendersi come
meglio può in una realtà folle, dove non conta la propria aspirazione al
bene, alla bontà, alla bellezza, ma solo il proprio desiderio di
raggiungere una qualche stabilità e l’autosufficienza?
La
riconciliazione con se stesso, che il Verbo freudiano può offrire
all’uomo, è una riconciliazione parziale e illusoria, perché non sfiora
nemmeno la sfera della libertà, sfera essenziale della creatura umana e
costitutiva della sua stessa natura: perché solo dove esiste una
distinzione fra il bene e il male, può esistere un esercizio della
libertà, o meglio, può esistere la nozione stessa di libertà; che,
altrimenti, si riduce ad essere nient’altro che un vuoto simulacro.
Quello
che manca, nella psicanalisi, è la presenza silenziosa del Terzo: di
qualcuno o di qualcosa che si ponga al di sopra dello psicanalista e del
paziente, che si ponga al di sopra della sofferenza, che si ponga al di
sopra della fogna maleodorante che la terapia ha bensì scoperchiato, ma
che non sa poi come gestire, se non invitando il paziente a turarsi il
naso e ad andare avanti. Un buon deodorante potrebbe fare altrettanto:
ma il fetore rimane, l’aria continua ad essere ammorbata e la sofferenza
non è sciolta, è solo anestetizzata, fino alla prossima iniezione di
anestetico, ossia fino al prossimo esorcismo di stregoneria
psicanalitica.
Senza
il Terzo che si ponga, quale giudice benevolo ma imparziale, al di
sopra dell’io e del tu, non esiste vera redenzione: perché l’io e il tu,
finché si muovono sul piano del finito, non riusciranno mai a capirsi
ed incontrarsi, se non in maniera illusoria; ciascun io resterà sempre
un io e ciascun tu resterà sempre e soltanto un tu: nessuno dei due
riuscirà a rompere le catene della propria solitudine, della propria
soggettività, del proprio egoismo; nessuno dei due riuscirà ad uscire
veramente dalla propria prigione e a fare un passo verso l’altro,
dominati come sono, entrambi, dalle ferree leggi della conservazione e
della sopravvivenza ad ogni costo.
La
psicanalisi è una illusione e una impostura, perché promette una
liberazione che non è in grado di offrire: quale liberazione sarà mai
possibile senza l’ammissione della colpa, senza il pentimento per il
male, senza il fermo proponimento di non commetterne più, ma di cercare
le vie del bene? Chi potrà guidare la coscienza smarrita e disorientata
nel labirinto dei mille io contrastanti e in perenne competizione
reciproca; chi potrà confortarla e rassicurarla veramente, in questa
foresta di belve dalle zanne insanguinate che è il mondo, il mondo come
lo vedono i freudiani, se non Qualcuno che non sia di questo mondo, ma
che si stagli al di sopra di esso, capace di capire veramente, di
perdonare, di sorreggere, mostrando la via del superamento del male?
Se
non si è disposti a chiamare male il male e bene il bene, non si può
aiutare, non si può confortare, non si può assistere alcuno nella via
della riconciliazione con se stesso: perché il male chiama altro male e
il bene chiama altro bene; ma se l’anima si sente sprofondata nel male,
chi la aiuterà, se non colui che è disposto a dire: «Sì, il male esiste,
ed è necessario il tuo sforzo, il tuo impegno, il tuo sacrificio per
venirne fuori»?
La
psicanalisi è una delle tante mode laiche della tarda modernità:
scimmiotta le vecchie credenze spirituali, privandole del loro tratto
essenziale e offrendo ai suoi pazienti un cattivo surrogato della cura
dell’anima e del suo riscatto. È stata creata ad immagine dell’uomo
malato, smarrito, sofferente e tuttavia presuntuoso, ferocemente
egocentrico, ossessionato dal timore di dover riconoscere la propria
finitezza, anche se ne è terribilmente spaventato.
È,
dunque, una “scienza” intimamente contraddittoria, fatta per soddisfare
esigenze contrastanti, per tacitare opposte paure, per offrire una
risposta a bisogni inconciliabili: quelli che nascono dall’orgoglio e
quelli che nascono dalla debolezza. Se l’uomo della tarda modernità è
più che mai simile a un bambino viziato e capriccioso, disarmonico
miscuglio di presunzione e debolezza, la psicanalisi è la cura
commisurata ad un tale tipo umano: certo non lo potrà guarire, ma almeno
gli darà la sensazione di essere costruita su misura per lui.
L’uomo
della tarda modernità non vuole la Verità, ma quelle verità che il suo
palato di bambino viziato e capriccioso può sopportare: per questo
detesta sentir parlare del Bene e del Male; per questo cerca ed
applaudisce quei “maestri” che dichiarano abolita la morale e che la
gettano nel cestino della carta straccia, in nome delle “magnifiche
sorti e progressive”.
Non
riflette, ahimè, che, senza la distinzione del Bene e del Male, non si
danno neppure la pratica e il concetto della libertà: dunque, egli è uno
schiavo che ignora di esserlo; né vuol sentirselo dire…
di Francesco Lamendola - 14/11/2012Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
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