ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 31 dicembre 2012

L'antropocentrismo della Gaudium et spes


Le pagine che seguono (185-1958 sono tratte dal Libro: Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau 2012. Il tema è riproposto per approfondire la discussione suscitata dall'articolo La falsa accusa di eresia a chi critica le nuove ed ambigue dottrine del pastorale Vaticano II di Paolo Pasqualucci. Esso è utile per continuare ad approfondire il nostro percorso nei meandri dei documenti conciliari al fine di coglierne le luci e le ombre e non lasciarci sviare da alcuna acritica esaltazione.
[Qui e qui nostre precedenti riflessioni sulla Gaudium et Spes]

1. L'antropocentrismo della GS

Poiché il lemma è ricorrente, non si può continuar a parlare d'antropocentrismo senza darne prima una breve spiegazione. La quale, in estrema sintesi, potrebb'esser così formulata: l'antropocentrismo è la concezione che vede l'uomo al centro dell'universo, come valore di fondo e punto di confluenza di tutto ciò che esiste. Si tratta d'una concezione molto affine a quella di F. C. Schiller, che la fece dipendere dalla massima protagorea per la quale l'uomo è la misura di tutte le cose. È la massima dalla quale s'è ultimamente sviluppata una teoria filosofica, nota come Umanesimo (Troiano, Ferrari, Maritain). Essa assume l'uomo non solo come misura, ma anche come valore di fondo dell'intero universo, sul piano teoretico, dunque, prima che su quello apprezzativo. Maritain v'aggiunse la nota, del tutto insostenibile, d'una discrasia tra umanesimo ed incarnazione[4].

Non ho elementi per dire, e nemmeno per sospettare, che gli estensori di Gaudium et Spes ed i Padri conciliari, nel redigere discutere e votar un tale documento, avessero tutti la ferma intenzione d'ancorar il magistero conciliare alla detta teoria. Di fatto, però, la dipendenza è innegabile. Ancor prima d'esser innalzato ad altezze vertiginose, l'uomo è costituito come punto focale ed oggetto dell'intero documento: «È l'uomo dunque, e precisamente l'uomo integrale (et quidem unus et totus), nell'unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, d'intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la post esposizione» (GS 3/a). L'affermata centralità dell'uomo, della sua realtà naturale, della sua dignità e della sua emergenza al di sopra d'ogni altra realtà creaturale; l'uomo nella si concretezza storica e nei suoi contesti sociali e culturali; l'uomo, quindi, con tutt'il cumulo della sua problematicità: ecco l'unico oggetto del più esteso documento conciliare l'unico punto d'appoggio - «cardo», cardine - di tutt'il suo contenuto.

Quando una tale problematicità vien confusa col concetto di mistero ed immersa in esso - «il mistero dell'uomo» -, la deriva antropocentrica si fa anche più evidente a danno del «mistero di Cristo» che dovrebbe illuminarla e risolverla: è detto, infatti, che «il mistero dell'uomo trova vera lui solamente nel mistero del Verbo incarnato» (22/a) e che la ragione profonda per la quale l'enigma uomo vien illuminato e risolto è il fatto stesso dell'incarnazione, con cui «il Figlio di Dio s'unì in certo qual modo ad ogni uomo (cum omni homine quodammodo se univit)» (22/b). Ora, se è vero che solamente nel mistero del Verbo incarnato è possibile scoprire la soluzione totale dell'enigma uomo, la ragione addotta è invece assolutamente priva di fondamento, insostenibile, assurda.

Il mistero del Verbo incarnato è quello, come dice la parola, della sua stessa incarnazione e con essa della sua individualità anche come questo soggetto che signoreggia due mondi distinti, il divino e l'umano, in lui ipostaticamente congiunti, grazie alla funzione che l'Io personale del Verbo esercita sulla natura umana di Cristo, individua integra e perfetta[5]. Dicendo «due mondi distinti, il divino e l'umano», la dottrina cattolica intende non gl'individui che ad essi appartengono, bensì le due nature o sostanze, la divina e l'umana, congiunte insieme - e pur sempre distinte e non confuse - nell'ipostasi divina del Verbo. Nel testo, però, di GS poco sopra citato, la dottrina dell'unione e della distinzione è radicalmente sovvertita: l'unione ipostatica, dilatata all'intera umanità nonostante l'attenuazione del « quodammodo»; il confine tra il divino e l'umano, soppresso; inesistente la distinzione tra natura e soprannatura.

È, sì, vero che anche i Padri conciliari avvertiron l'enormità del loro asserto e col solito  metodo del dire e non dire ne proposero un ridimensionamento: aggiunsero infatti l'avverbio «quodammodo», cioè «in qualche modo o misura», per attenuare lo stridore d'una contraddittorietà irriducibile: il Verbo si sarebbe dunque congiunto non con la natura umana, ma «in qualche modo o misura» con tutti singoli titolari di essa. A parte il fatto che, nel linguaggio teologico, perfino in quello di san Tommaso, l'avverbio «quodammodo» e l'uso stesso di «quidam-quaedam-quoddam» sono spesso un'implicita confessione d'insicurezza, d'indecisione, di non perentorietà, e finiscono quindi per confermare ciò che dovrebbero e vorrebbero modificare, non nego affatto l'intento - di per sé evidente - d'addomesticare l'insostenibile asserto; ma l'asserto rimane esattamente ciò che è, e come è. Mantiene, se pur attenuato - ma non si sa in che senso e misura - il significato delle sue parole, questo: non tutti presenti nel Verbo incarnato, ma il Verbo presente in tutti, essendosi egli in tutti incarnato, sia pur in un modo indefinibile. Efeso e Calcedonia, quindi, cancellati. E cancellata l'assunzione della sostanza umana individua e perfetta da parte del Verbo. E cancellate pure l'unione e la distinzione delle due nature. Con Cristo, tutto il divino è ormai non in tutto l'umano, ma in ogni umano soggetto. La deriva antropocentrica del divino non avrebbe potuto aver una proclamazione più significativa di questa: «Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo se univit».

Potrei continuare a citar ancora, l'un dopo l'altro, i brani di GS inneggianti all'uomo, espressione d'una radicale infatuazione antropologica, che non raramente sembra convertirsi in vera adorazione: non aggiungerei molto, o non molto più significativo di quanto ho già esposto. Non posso, tuttavia, rinunciar a metter in evidenza un altro assurdo metafisico di questo documento, il quale, in 24/c, non esita ad asseverare che l'uomo «in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluit»[6]. L'uomo, dunque, unica creatura da Dio creata per se stessa. L'assurdo metafisico consiste nel fatto che, se Dio crea per qualcuno e per qualcosa al di fuori di sé, o gli è soggetto, o gli si assoggetta egli stesso. Nell'uno e nell'altro caso, restando condizionato a e da qualcosa, a e da qualcuno al di fuori di sé, non è né può dirsi Dio: non l'Assoluto, non l'Essere supremo, non il Necessario distinto da ogni contingente. Noto poi che, nel caso, non si ha a che fare soltanto con un assurdo metafisico, ma anche con una contraddizione interna: il citato 24/c è, infatti, contraddetto da 41/a che recita « mysterium Dei, qui est ultimus finis hominis», il fine ultimo, oltre il quale non ce n'è assolutamente un altro, tutto avendo Dio creato per se stesso, anche l'uomo. Direi, anzi, soprattutto l'uomo che, in quanto dotato d'intelletto, nel ricondurre a Dio la conoscenza razionale della concatenazione di cause ed effetti, esprime la sua dipendenza radicale da Lui e rende gloria al suo Amore diffusivo di sé. Del resto, pur non tutti essendo professori di metafisica e forse neanche godendo tutti  d'una mentalità metafisica, i Padri avrebbero dovuto ben conoscere, tutti, la Sacra Scrittura e trattenersi dallo scrivere un'affermazione di tale e tanta gravità, come quella della «sola creatura creata per se stessa»: «Propter semetipsum - si legge in Prv 16,4 - operatus est Dominus» (cfr. Dt 26,19): soltanto per sé e per la dilatazione della sua gloria esterna.

Se GS avesse inteso sottolineare che tutt'il creato fu dal Creatore voluto per l'uomo ed a lui finalizzato, affinché l'uomo, vertice del creato, non fosse sottoposto ad altre creature, non ci sarebbe stato motivo di gridar allo scandalo. Ma, questo non essendo il senso dato dal Concilio alle sue parole, lo scandalo ci fu e che scandalo! In un Concilio ecumenico! 

Il documento è tutt'un susseguirsi di proclamazioni scioccanti, il cui numero rende difficile la scelta dell'esemplificazione: potrei dir a tal fine tolle et lege. Qualche altro rilievo, tuttavia, mi pare non solo opportuno, ma doveroso. Ho parlato di confusione tra naturale e soprannaturale. Non è cosa da poco. È l'ostracismo, anche se non ostentatamente gridato, alla prospettiva teocentrica ed è la porta d'ingresso per quella antropocentrica. Un rimescolamento di carte: quant'è del cristiano perché della Chiesa, è anche d'ognuno perché di tutta l'umanità. Non a caso già il Proemio di GS allude ad una tale idea, come se fosse uno dei temi di fondo sui quali l'intero documento verrà poi articolato. Vi si legge che «nulla c'è di genuinamente umano che non trovi un'eco nel cuore» dei cristiani, la cui comunità «si sente per questo - quapropter - veramente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia». Se ciò si riferisse ad una condivisione cristiana di qualunque motivo di turbamento per il cuore dell'uomo o di qualunque sua nobile speranza, nulla ci sarebbe da eccepire; ma il solidarizzare della Chiesa, anzi il suo comunicare con tutt'il genere umano sulla base di condizioni naturali identiche in cristiani e non cristiani, dimentica le ragioni soprannaturali che la sospingono, sì, incontro ad ogni uomo, ma solo per risolverne i problemi di fondo: il peccato originale, la correlativa questione della salvezza eterna, gl'interrogativi d'un'esistenza lineare con le premesse dell'evangelo e con le sue esigenze di coerenza evangelica[7].

Il fatto è che l'allargamento dell'interesse conciliare dai soli cristiani all'uomo in quanto tale conferma l'accennata apertura della prospettiva antropocentrica. E che tale apertura risponda ad un intento primario di GS, è dimostrato dalla sua diretta confessione: tanto più significativa, questa, in quanto formulata dopo le battute iniziali, a scopo evidentemente programmatico. Dop'aver dichiarato di voler aprir un dialogo con l'umanità per «metter a sua disposizione le energie di salvezza[8] che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo riceve dal suo Fondatore», GS 3/a - quasi a cancellar il sospetto d'un ritorno al soprannaturalismo medievale che tali parole potrebbero suggerire - prorompe in un peana per l'uomo, al cui valore riconosce la funzione di fondamento delle proprie preoccupazioni e della propria dottrina. Il testo è stato precedentemente citato, ma la ripetizione a questo punto è uno strumento retorico per dimostrar il vero intento del Concilio: «Il cardine di tutta la nostra esposizione sarà dunque l'uomo, nella sua unità e totalità, col suo corpo e la sua anima, il suo cuore e la sua coscienza, la sua mente e la sua volontà». Cardine. Volendo metter in evidenza la base ed il fondamento dell'antropocentrismo di GS, non si poteva sceglier parola più chiara ed efficace.

Ed, ovviamente, insieme con l'uomo il mondo. Fu già ricordato che cosa volesse Giovanni XXIII, che cosa Paolo VI e, a Concilio ormai in fase di ricezione, che cosa abbia voluto Giovanni Paolo II e che cosa voglia il regnante Pontefice: la riconciliazione della Chiesa col mondo. E fu pure messo in evidenza l'equivoco collegato al reiterarsi di codesta frase: non la Chiesa s'era fatta nemica del mondo, ma il mondo della Chiesa. Donde un altro equivoco: che la Chiesa desideri riconciliar a sé il mondo, fa parte della sua missione, ma questa non può chiederle d'adattarsi ed ancor meno d'uniformarsi ai principi del mondo. Equivoco a parte, una domanda a questo punto appare ineludibile: qual è il significato del lemma mondo nell'uso di GS, presto imitata dal nuovo linguaggio teologico?

L'ambiguità del lemma, ampiamente testimoniata dalla Sacra Scrittura, è risaputa. Del mondo la Scrittura riconosce la genesi da Dio (At 17,24; Gv 1,3.10; Col 1,16; Eb 1,2) e la testimonianza che il mondo rende alla divina provvidenza (At 14,16), ma conosce pure quello stato di subordinazione a Satana (1Gv 5,19) che ne fa il teatro ed il tramite del peccato fin dalla sua origine (Gv 1,29) e, pertanto, la pietra d'inciampo sulla via del Regno (Mt 18,7). Eppure, proprio questo mondo tutto in balia del maligno (1Gv 5,19) è quello che il Padre avvolge nel suo amore ed al quale fa dono del suo Unigenito (Gv 3,16-17). GS né ignora, né rifiuta, né analizza una tale ambiguità; l'accoglie qual è. Si pone anzi in atteggiamento d'ammirata venerazione dinanzi a questo mondo in cui più che l'ambiguità considera «l'intera famiglia umana con tutte le realtà in mezzo alle quali essa vive, [...] il teatro della storia del genere umano, [...] i segni dei suoi sforzi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie», oggetto «dell'amore del Creatore»[9], sottoposto «alla schiavitù del peccato, ma liberato da Cristo crocefisso e risorto con l'annullamento della potestà del maligno e destinato, in conformità al progetto di Dio, a trasformarsi ed a giungere a compimento»[10] (Gs 2/b). Come se ciò non bastasse, lungo l'intera costituzione pastorale il tema del mondo vien ripreso confermato ed ancor una volta rispettato nella sua ambiguità di base. GS, infatti, auspica che «il mondo riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento», ma si dice pure consapevole di quanto la Chiesa «abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano»[11] (44/a): «I concetti e le lingue dei diversi popoli», « la sapienza dei filosofi», «lo scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture» (44/b). È, questo, un non trascurabile aiuto che «credenti e non credenti» forniscon alla Chiesa «nella misura in cui essa dipende da fattori esterni»: un aiuto ed un «giovamento che può venirle perfino dall'opposizione di quanti l'avversano e perseguitano» (44/c). Ormai, per la costituzione pastorale, non ci son più frontiere contrapposte e se qualcuno le contrappone, saran tutte sempre, anche e perfino un'eventuale persecuzione, un «giovamento» che il mondo porge alla Chiesa. Le frontiere si so in tal modo e a tal punto avvicinate, che son ormai giunte alla saldatura. Ciò che la Chiesa fa e dice, lo fa e lo dice per mondo; e quanto il mondo va operando nella sua corsa progresso è a beneficio della Chiesa.

Grazie alla «trasformazione sociale e culturale» che ha le sue ripercussioni su tutti gli aspetti della convivenza umana, quella religiosa compresa (4/b), GS inneggia alla cancellazione delle frizioni d'altri tempi. La trasformazione, infatti, non solo si ripercuote sulle condizioni storiche dell'umana convivenza, fin a rimuoverne l'eventualità e l'idea stessa d'una rivoluzione anticristiana - che però va per la sua strada e non si ritrae dall'infierir oggi pure contro i cristiani, infliggendo loro una morte violenta in odio della Fede - ma procede sicura sulle strade dell'antropocentrismo, di cui il mondo, così come vien presentato, diventa l'ambiente ideale. L'ambiente dico, dove gli «amorosi sensi» si vivono, o il teatro dove agli «amorosi sensi» si recita. L'ambiente non più delimitato da le staccionate, ma dilatato dalla loro caduta, secondo 1'ingenuo ottimismo che sorresse tutt'il discorso conclusivo di Paolo VI durante la Messa del 7 dicembre 1965[12]; l'ambiente de l'ormai trionfante antropocentrismo che osa equiparar i diritti dell'uomo a quelli di Dio, o identifica questi in quelli e riconosce come divini pensieri e progetti puramente umani. Fu emblematico a tale riguardo il sopraricordato discorso di Paolo VI, là dove equiparò il Vaticano II all'incontro tra «la religione di Dio che si è fatto uomo» e «la religione [perché tale è] dell'uomo che si fa Dio»[13].
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4. Si ricorda di F. C. S. Schiller, Humanism, philosophical essays e Studies in Humanism, l'uno del 1903 e l'altro del 1907. Di j. Maritain, è invece da ricordar il famoso Humanisme intégral, Paris 1936 (trad. it. Roma 1947), fortemente criticato da A. Messineo su «La Civiltà Cattolica» del 29 marzo 1954, pp. 663-669, a sua volta oggetto di replica da parte di G. Aceti in Vita e Pensiero 1914-1964, Vita e Pensiero, Milano 1966, pp. 512-520.
5. Val la pena, a tale riguardo, di ricordare che cosa il Magistero ecclesiastico sancì a) al Concilio di Efeso, con la dottrina dell'unione ipostatica «vera reale fisica»; b) e al Concilio di Calcedonia, con la dottrina dell'integrità e perfezione della natura assunta. Tutto ciò per dichiarare che in Cristo c'è una sola persona, perché c'è una sola sussistenza, quella del Verbo, la quale unisce in sé in modo reale e profondo la natura divina e la natura umana, mantenendole però integre reali e distinte. L'unione è dottrina di Efeso; la distinzione, di Calcedonia.
6. Cito in latino, perché questa lingua mantiene rigorosamente le concordanze che consentono, assai più delle lingue volgari, di stabilire l'esatto pensiero dei Padri conciliari. Dicendo che l'uomo è, sulla terra, «sola creatura quam Deus propter seipsam creavit», cade ogni dubbio sulla finalità della sua creazione: il femminile «se ipsa» è in perfetta concordanza col femminile «sola creatura» e col pronome pure femminile «quam»; Dio è in tal modo perentoriamente escluso dalla sua finalità creatrice. Ed accontento così, con un richiamo alla legge delle concordanze, chi mi consiglia di legger attentamente l'originale.
7. E nulla dico sulla mancanza d'un collegamento logico tra la premessa d'una «più profonda penetrazione nel mistero della Chiesa» e la conseguenza del suo discorso non più rivolto «ai soli [suoi] figli, né solamente a coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli uomini» (GS 2/a). Parrebbe che la realtà dei non cristiani, ai quali oggi la Chiesa si rivolge, fosse la novità derivante da un più approfondito esame del suo mistero. Che cosa fu, allora, prima di codest'esame,
l'evangelizzazione in genere, che cosa in special modo furon le missioni?
8. Per l'ennesima volta metto l'accento sul vezzo invalso soprattutto dal Concilio in poi di parlare d'una generica e mai precisata salvezza, con assoluta reticenza di ciò che caratterizza la salvezza cristiana ed il suo oggetto: l'accesso dal peccato alla grazia e, quindi, alla vita eterna.
9. Il testo originale porta: «Quem christifideles credunt ex amore Conditoris conditum et conservatum»: come si vede, non un'affermazione della creazione dal nulla da parte dell'amore divino che s'espande negli oggetti da esso stesso creati, ma l'aggancio di tali oggetti alla credulità dei cristiani, secondo i quali - soggettivamente, quindi - ciò che è troverebbe spiegazione nella potenza creatrice dell'amore di Dio.
10. Altra frase ermetica: il progetto di Dio prevede, dunque, il «trasformarsi» del mondo fin al «compimento» (!!!). Il testo sembra ignorare che ci si trasforma in meglio ed in peggio e che il pervenir a compimento («ad consummationem» significa più propriamente «fin al termine», «alla conclusione») non ha senso se non si specifica. Così com'è, può dir tutto ed il cpntrario di tutto.
11. Ennesima sfasatura formale e logica: i termini di paragone son Chiesa e mondo, non Chiesa e genere umano.
12. Si veda il testo in Acta Synodalia sacrosancti Concilii Œcumenici II 1970-1980, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1970, vol. IV/7, pp. 654-662.

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