ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 18 dicembre 2012

Se i massoni scrivono per la San Paolo


Con questo pezzo inizia la sua collaborazione con noi Samuele Becci, classe 81, in arte Satiricus. Fu pugliese in una precedente vita, ora è Grigione per lavoro e per onore. Nonostante amasse molto la musica – o almeno i mottetti di Josquin Desprez e le Vexations di Satie – fino ad oggi ha perso tempo con altro: un po’ di lettere (soprattutto antiumanistiche), un po’ di filosofia (soprattutto anticattolica), un po’ di teologia (soprattutto antiteista). Siccome a tutto c’è rimedio, fuorché all’eterno, crede di poter tirare avanti bene lo stesso. È qui su invito e perché preferisce scrivere per Campari, anche se è rosso, che bersi le rubiconde boiate d’altri. Si scusa con tutti quelli che offenderà, tranne con chi non capisce l’italiano, il genere letterario, la militanza, il valgerolese stretto, Pierangelosequeri e l’ironia. Si consola: per quanto brutto possa essere un suo pezzo, non sarà mai vessante come quelli di Satie. Chiave di lettura e proclama d’autore: «La commedia non mi è piaciuta, però l'ho vista in condizioni sfavorevoli: il sipario era alzato».

Era da un po’ che attendevo di scrivere su questo tema, e pure di iniziare la mia collaborazione con la truppa di C&dM, ma non mi decidevo mai a farlo – un po’ per pigrizia e un po’ vittima del rispetto umano. Non ho potuto più trattenermi quando ho letto l’intervento abbacinante di Francesco Colafemmina prima sul suo sito e poi sulla Nuova Bussola Quotidiana: una appropriatissima requisitoria contro i figli spirituali del beato Alberione, rei di aver pubblicato un testo sull’infanzia di Gesù – proprio nei giorni in cui usciva l’ultima fatica editoriale del Papa – affidandolo a un autore massone, Antonio Panaino. Eh sì, perché aspettare? Mandiamo tutti insieme gli auguri di un Santo Natale agli amici della San Paolo. Quelli di Colafemmina, serviti con un buon Campari.

Permettetemi di prenderla larga. Prima delle San Paolo, prima della Grande Loggia, prima degli intellettuali reazionari e prima dei saggisti mercenari: io, contesto Goethe. Sì, il grande vate, del quale mi vanto non aver mai letto neppure una riga, che poco meno di un secolo fa divenne la grande icona di un rinnovamento culturale destinato a lasciare un grande segno: Goethe, e il suo Faust, modelli ideali della gioventù tedesca – proprio di quella gioventù tedesca – degli anni ’30. E ci mancherebbe altro. Un autore eccelso, una penna accattivante, una trama convincente, un successo commerciale garantito: come opporvisi? Tutti contenti di tener dietro ai segni dei tempi. Tutti? Tutti o quasi. Tra le penne che si levarono tempestivamente, quella di un’ebrea intellettualoide, un po’ fissata con le petizioni di principio, da poco convertita al cattolicesimo, che avrebbe pagato con la vita il suo schieramento reazionario e oscurantista. È di Edith Stein il monito vibrante, non contro la San Paolo, non contro Panaino, ma contro il maggior poeta che la Germania abbia mai celebrato:

Non abbiamo da giudicare l'uomo Goethe, la sua fede, cosa accadde tra lui e il Signore in quei momenti che decidono dell'eternità dell'uomo. Questi sono misteri di Dio, in cui occhio umano non può penetrare. Siamo davanti al più grande poema del più grande poeta tedesco e ci domandiamo: possiamo porre quest'opera in mano alla gioventù tedesca e al popolo tedesco, e dire: prendete, fatelo vostro, lasciatevi completamente pervadere dallo spirito che in esso vive e da esso parla; è il meglio che abbiamo da offrirvi, ciò che è massimamente necessario? Leviamo lo sguardo all'immagine del Crocifisso e diciamo: no. (da Natura e soprannatura nel “Faust” di Goethe)

Adesso, a costo di sapermi condannato a una vita da claustrale carmelitano o a una reclusione punitiva da qualche altra parte, faccio mie le parole di Etidh e – per dirla secondo un lessico aggiornato – le retwitto. Così:

Non abbiamo da giudicare l'uomo Curtaz, la sua fede, cosa accadrà tra lui e il Signore in quei momenti che decidono dell'eternità dell'uomo. Questi sono misteri di Dio, in cui occhio umano non può penetrare. Siamo davanti al più grande novità della più grande editrice cattolica italiana e ci domandiamo: possiamo porre quest'opera in mano alla gioventù cattolica e al popolo cattolico, e dire: prendete, fatelo vostro, lasciatevi completamente pervadere dallo spirito che in esso vive e da esso parla; è il meglio che abbiamo da offrirvi, ciò che è massimamente necessario?
Leviamo lo sguardo all'immagine del Crocifisso e diciamo: no
.

Carissimi amici, non temete, ben meno di Goethe c’è qui: c’è Paolo Curtaz. Curtaz, non un massone patentato, né certo un anticattolico decostruzionista. Un bonomo. Uno che, come molti e troppi nella triste stagione di emorragie vocazionali postconciliari, aveva intrapreso la via più alta, la via della perfezione (si sarebbe detto qualche decennio fa), ma poi gli è sfuggita di mano. Paolo, Paolo – un tempo don Paolo – visto e sentito in occasione di un paio di conferenze: a mio modesto avviso non è nocivo. Anche se mi lascia sempre un po’ di saudade vedere questi non più preti che per campare continuano a scrivere libri da preti, di preti e per preti. Amen. No, non riesco a dire nulla contro il buon Paolo, che da parte sua ha ogni diritto a provarci, in qualsiasi settore gli garbi. Tanto più – aggiungo – che pare non aver ancora preso le derive apertamente (cioè sui libri) eretiche di don Vito Mancuso o nascostamente (cioè nei discorsi privati) antiromane dell’economista Enzo Bianchi. Paolino, non posso che augurarti tanta fortuna. E ti lascio stare dove sei. Il problema per me sta altrove. Altrove si orienta il mio fastidio. Il problema sta in chi si mette di piglio per pubblicare certi autori: il problema da sempre e per sempre sono ’ste strabenedette San Paolo! Sono loro a reclutare l’amico Paolo, sono loro ad affidargli non un libretto a caso sulle solite esegesi di moda o sui problemi giovanili, bensì la collana sull’Anno della Fede. Perbacco, carissimi signori della San Paolo, noto finalmente un’idea intelligente: nella foresta di opposizioni che teologi e catecheti hanno sollevato contro l’augurio di Benedetto XVI (Motu Proprio Porta Fidei), nella generale contestazione del suo consiglio di tornare al Catechismo lasciando perdere per un po’ l’esasperazione della Parola di Dio e tanto più i patetici trionfalismi nostalgici pro-conciliari, in questa selva di “no” voi avete detto un “sì”, e avete escogitato una piccola collana, quattro testi che riprendessero le quattro parti del Catechismo seguite da un po’ di commento popolare. Bravi. Peccato aver affidato l’impresa a un teste tra i meno quotati in casa cattolica.

Ora, gentilissima editrice alberoniana, so che sto per farvi domande inutili. Da un équipeche non disdegna di pubblicare Antonio Panaino non mi attendo più nulla. Però alcune cose io devo chiederle. E parto con la mia cascata di: perché? Perché con tutta la gente che prepariamo nei seminari, nelle università, nei movimenti, nelle parrocchie, nelle scuole della parola abbiamo bisogno di affidarci sempre più spesso ad autori borderline? Perché? Perché gli affidiamo i titoli più appariscenti, le vetrine più luminose, le collane più accattivanti? Perché un tema tanto delicato a un personaggio in qualche misura compromesso? Perché l’amatissimo formato del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica abbinato a una penna quantomeno opinabile? Perché, voi che invocate “meno maestri e più testimoni”, ci rifilate un maestrino testimonialmente impresentabile? Cosa o chi cercate di raggiungere con questi “nomi”? Cosa pensate di ottenere? Io non lo capisco

La fede non è questione di idee o di dottrina, i libri che ci parlano di fede – specie se rivolti alla gente comune – dovrebbero darci qualcosa in più di un paio di nozioni o di consigli pratici. Ci serve una buona guida spirituale: le librerie cristiane hanno da offrirci questo. O questo o la logica di mercato. E la direzione spirituale non è questione di consigli chiacchierati, ma è comunicazione tra spiriti feriti, in cui le anime più forti sostengano nella risalite quelle più fiaccate. Credo profondamente in questo; ecco perché resto perplesso di dover ricevere consigli dal buon Paolo – che per me è e resta un contro-testimone, anche se nei testi è ammiccante, simpatico, modesto. Gli manca l’essenziale, rispetto al suo impegno di saggista. Possibile che una casa editrice non se ne avveda?

Me lo spiego. So bene infatti che questa mia fede nella comunicazione spirituale non è più condivisa. È pane quotidiano dei grandi santi della nostra tradizione, ma non dei grandiosi teologi sulla cresta dell'onda. E' esperienza quotidiana della Chiesa nei secoli, ma non strategia convincente nell'era della pastorale d'assalto. Anche qui abbiamo perso, abbiamo già perso. Il buon senso anzitutto.  E poi la trasparenza.
Pastorale d'assalto, ideologia a buon mercato, Popolo di Dio trasformato in populismo-di-dio: sono questi i motivi per cui gli editori progressive devono volgersi sempre più spesso a penne eclatanti.
Basta, mi fermo. Come primo articolo sono sicuro di aver già ecceduto – lo farò sempre, credo di servire solo a questo. Concludo, mitigandomi con altre sagge parole della signorina Stein, che sento calzanti:
Ciò non significa cedere ad una critica priva di maturità. Significa soltanto salvaguardare da un'ammirazione cieca, significa solo ammonire che noi siamo in possesso d'un criterio assoluto che non è lecito deporre e di un simbolo mediante il quale la nostra via si differenzia da qualsiasi altra via.
Cara San Paolo, giusto per evitare confusioni: il Simbolo è Cristo, non il compasso. Buon Natale.

di Satiricus

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