Sulle pagine culturali de “Il Sole 24 Ore” di domenica 13
gennaio il cardinale Gianfranco Ravasi ha riattizzato una polemica che infiammò
la Chiesa italiana qualche decennio fa, ma che ancora cova sotto la cenere
oggi.
Nel recensire un’opera dell’eretico Pelagio recentemente
edita da Città Nuova, ha scritto:
“La deprecazione della sua dottrina e la relativa fama
negativa che lo avvolse in un alone destinato a sfidare i secoli ebbero la loro
radice nell’inesorabile polemica che sant’Agostino intrecciò con Pelagio
attorno ai temi della grazia divina, della libertà umana e della
predestinazione”.
E nel dir questo e nell’auspicare che si faccia luce sul
Pelagio “genuino, non deformato dall’ardore polemico”, il cardinale ha infilato
in una parentesi la seguente esclamazione:
“Ancora qualche anno fa un movimento cattolico italiano
attaccava altri cattolici con l’epiteto di ‘pelagiani’!”.
Il movimento cattolico qui rievocato è Comunione e
Liberazione. Che in effetti accusava di pelagianesimo alcuni settori della Chiesa,
specie dalle pagine del suo settimanale di battaglia, “Il Sabato”.
Ma che tale accusa non fosse solo una fissazione di CL ma
fosse condivisa anche da uomini di Chiesa molto autorevoli – persino di
versanti opposti – è ampiamente documentato.
Si possono rileggere, ad esempio, queste parole di don
Giuseppe Dossetti, riprese da un suo discorso a Milano del 29 marzo 1953 e
citate con calore partecipativo da Giuseppe Alberigo in un libro del 1986 sulla
vita del suo maestro:
“La criticità ecclesiale deriva dal prolungarsi per molti
secoli, fino a raggiungere un grado molto avanzato, di un certo modo cristiano
cattolico di intendere il cristianesimo e di viverlo, che se si dovesse
definire in forma puramente descrittiva si dovrebbe definire attivistico, e semipelagiano
nel suo aspetto teologico. Per sé il cattolicesimo non è questo, ma
semipelagiana è gran parte della letteratura dottrinale e dell’azione concreta
dei cattolici, quando attribuisce all’azione e all’iniziativa degli uomini
rispetto alla Grazia un valore di nove decimi”.
Oppure si può rileggere la trascrizione di una conferenza
stampa dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, nel 1990, al meeting di Rimini
di Comunione e Liberazione.
La prima delle due domande qui sotto riportate era di Lucio
Brunelli, all’epoca redattore de “Il Sabato” e oggi vaticanista del TG 2. La
seconda di Mauro Anselmo de “La Stampa”:
D. – Volevo chiedere a Sua Eminenza se poteva spiegare,
magari con qualche esempio, la sua frase a proposito dell’errore di Pelagio:
che cioè la riduzione del cristianesimo a un moralismo di tipo illuminista,
astratto, ha molti più seguaci oggi di quanto non sembri a prima vista.
R. – Ci sarebbe molto da dire e non vorrei entrare adesso in
una discussione di filosofi e di ideologia contemporanea. Voi avete scritto
cose valide sul “Sabato” e io mi sono riferito anche a queste. Da una parte,
come ho detto, abbiamo questo fatto positivo di una rivalorizzazione della
morale come fattore della società umana. Ma se rimane puro moralismo, allora
diventa anche una autocostruzione umana e ricade in errori che alla fine non
creano una vera morale, perché sono esposti all’arbitrarietà. Anche nella
Chiesa oggi assistiamo, mi sembra, a questa tentazione, naturalmente
comprensibile umanamente, di farsi capire anche dove non c’è fede. Si vede che
il ponte tra la fede della Chiesa e la mentalità odierna potrebbe essere la
morale, perché tutti, più o meno, riconoscono che ce n’è bisogno, e così
offrono la Chiesa come garanzia, istituzione di moralità, senza il coraggio di
presentare il mistero. Perché, pensano, il mistero non è accessibile: omettiamo
queste cose oscure e parliamo di cose comprensibili, della morale. Così si
riduce il cristianesimo, e anche la morale, allora, non viene ricostruita. In
questo senso volevo soprattutto accennare a una tentazione cristiana,
cattolica, di ridurre con una riflessione comprensibile ma sbagliata,
l’annuncio cristiano alla morale. Così si estenua anche la morale stessa.
D. – Mi hanno incuriosito molto le cose che lei ha detto su
Pelagio e le chiedo questo: com’è possibile oggi che anche nella Chiesa si
possa correre il rischio del pelagianesimo, cioè di un appiattimento sui valori
comuni?
R. – A me sembra molto comprensibile, perché anche nel
quinto secolo il pelagianesimo non sarebbe nato se non avesse avuto una certa
facile evidenza, naturalmente sbagliata, se non avesse avuto una piccola parte
di verità. Sarebbe adesso troppo lungo entrare nei dettagli, benché molto
interessante, e vedere come Pelagio nella sua vita monastica, e poi Giuliano di
Eclano, nella vita da vescovo diocesano dell’Italia meridionale, avessero
difficoltà con la posizione di sant’Agostino. Essi difendevano anche elementi
difendibili, ma alla fìne avevano dimenticato che l’uomo non si costruisce da
solo, con una moralità completa in se stessa; al contrario, perde il senso del
mistero, perde così il perdono e perde altresì il realismo della propria vita.
Era un dibattito molto accanito, molto difficile nel secolo di sant’Agostino,
ma in un certo senso paragonabile con la situazione contemporanea: noi viviamo
oggi in un mondo paganizzante, razionalista, dove il mistero è difficilmente
accessibile. È un mondo, il nostro, che può accettare, perché evidente, la
necessità di leggi morali, di norme morali, ma non può capire che c’è
un’espiazione, che c’è Uno che può perdonare e può così ricostruire la
completezza della nostra vita. In una parola: rendere accessibile questo
fattore nuovo che entra con il perdono nella nostra vita è difficile, mentre è
abbastanza facile dire una parola morale all’umanità di oggi. Mentre aprire
l’orizzonte del mistero significa anche ricostruire le evidenze umane perdute,
come abbiamo visto nella discussione sull’aborto. Questa è la grande missione
della Chiesa di oggi, ma non è realizzabile senza una testimonianza vissuta,
dove, tramite la vita realizzata, diventi anche un po’ visibile la realtà della
dimensione del mistero, del perdono, della cristologia. Se rimaniamo su un
livello puramente intellettuale, come è la nostra grande tentazione in un mondo
intellettualizzato in cui mancano le esperienze di fede, allora diventa normale
essere pelagiano.
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