Dopo il problema del metodo deve essere affrontato il problema dell’azione, ossia della prassi e Turco pone dei quesiti: «La prassi costituisce un criterio, oppure richiede (necessariamente) un criterio? Esiste una prassi neutrale rispetto ai valori?
Oppure essa è intimamente congrua o incongrua rispetto ai fini? Il primato spetta alla prassi oppure alla teoresi?».
Il razionalismo moderno presuppone l’atto del cogitare
indipendentemente dal suo contenuto. In tal senso da Cartesio ad Hegel (fino al
pragmatismo contemporaneo) il pensiero si identifica con la sua attività.
L’essere ne costituisce un risultato e non il fondamento. La realtà si muta in
effettualità, ovvero in complesso di effetti dell’attività. Questa, nella
«corsa alla coerenza» dell’immanentismo moderno, diviene l’attività del tutto
(degli effetti), che si identifica con il nulla (delle determinazioni).
«Esemplarmente, per Berkeley l’essere delle cose deriva
dall’attività del soggetto percipiente: esse est percipi. Per Kant
è attraverso l’attività del conoscente che si costituisce il conosciuto, in
quanto fenomeno. Per Hegel, l’Assoluto è soggetto e non è sostanza: si
identifica con il suo divenire, ovvero con la sua attività dialettica».
Il primato della prassi, affermato dal marxismo, ed il
primato della libertà teorizzato dall’esistenzialismo e dal personalismo
costituiscono le coerenti conseguenze delle premesse del razionalismo moderno.
Il primato della prassi è il primato dell’attività trasformatrice, del
produttivo e, quindi, dell’economico. È il primato dell’attività sulla realtà.
È il primato della libertà sulla verità. È il primato dell’efficacia sul
valore. Il primato della prassi risolve ogni cosa in un risultato attivo e fa
della prassi stessa una categoria autonoma, anzi la categoria delle categorie.
Ecco che «attivismo», «prassismo», «pastoralismo» vengono ad assumere nel
Vaticano II un’importanza di primo piano.
«L’immanentismo prassistico fa coincidere
contraddittoriamente mezzo e fine: nega la strumentalità della prassi per
identificarla con la sua stessa misura. Pone la verità in dipendenza della
prassi. Fa del valore un risultato della prassi. Fa dell’efficacia il criterio
della verità. Come è proprio di ogni forma di pragmatismo, che giudica la
verità dal successo, e non viceversa».
Nel pensiero classico, pensiero che si coniuga in ogni tempo
e ad ogni stagione, è la retta ragione ad essere misura dell’agire e non
viceversa. «Nulla dell’agire può essere sottratto alla valutazione del vero e
del bene. Non vi è alcuna forma di agire che sia autonoma rispetto al vero e al
bene, neppure quella professionale o quella pastorale».
La terza questione affrontata dal docente di Udine è quella
della contemporaneità e della modernità. «Come è possibile leggere in alcuni
tra i documenti più rappresentativi del Concilio Vaticano II – ed in tal senso
indicativi dell’intenzione e delle premesse soggiacenti – esso intende
rivolgersi agli “uomini d’oggi”, presupponendo la consistenza propria di tale
nozione. Parimenti, tali testi hanno come sfondo il “mondo
contemporaneo”. Con la pretesa di rappresentare la “condizione dell’uomo
nel mondo contemporaneo” e le caratteristiche più rilevanti di quest’ultimo.
Fino a giungere ad affermare che “nell’età contemporanea gli esseri umani
divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone” .
Ora, proprio la pretesa di individuare sotto il profilo
tipologico una fisionomia inconfondibile della contemporaneità, identificata
con una rappresentazione antropologica, sociologica e storiologica evidenzia da
una parte precisi presupposti teorici e dall’altra pone ineludibili problemi
filosofici. Tale impostazione pretende di ridurre l’umano all’antropologico, il
sociale al sociologico, lo storico allo storiologico. Presume, cioè, senza
argomenti (e senza poterli fornire) di ridurre la realtà (dell’uomo, della
società e della storia) alla sua rappresentazione, ottenuta attraverso la
tipificazione di generalizzazioni empiriche (quando non si tratti di apriorismi
ideologici impliciti)».
La possibilità di fissare la fisionomia dell’uomo
contemporaneo sottende la pretesa di conferire realtà autonoma ai caratteri
accidentali, considerando così il transeunte come permanente e
l’apparente come per se stesso consistente. La tesi della mutazione
antropologica dell’«uomo contemporaneo» sottende obiettivamente la negazione
della permanenza della natura umana, quindi della sua universalità. Se tale
mutazione fosse reale, la stessa natura umana ne risulterebbe vanificata nella
sua consistenza ontologica. «Bisognerebbe derivarne l’incomunicabilità
dell’umano, circoscritto come tale alla sua tipizzazione attualizzante, e la
relativizzazione dei valori, almeno nella loro congruità (effettuale) con l’
“oggi”».
La contemporaneità non è la misura di se stessa. «Di essa si
può ben osservare quanto sant’Agostino notava del tempo: sembra un dato
evidente quando non lo si faccia oggetto di riflessione, ma appena ci si chiede
che cos’è esso appare assolutamente arduo a definirsi. La contemporaneità, pur
sembrando evidente, in realtà non lo è affatto. A rigore solo l’istante è
contemporaneo di se stesso. Ma tale contemporaneità, proprio in quanto tale è
inafferrabile e perciò indicibile. Anzi, l’istante contemporaneo a se medesimo
non è che l’effimero: ciò che non dura e non può durare. Ciò che si dissolve di
fronte all’incalzare di un nuovo istante. Ciò che è attuale senza essere
permanente, è semplicemente effimero». La profondità del pensiero filosofico di
Turco apre squarci di illuminante valore dove si comprende, alla fine,
l’inconsistenza dei termini «moderno» e «contemporaneo». Se per «tempo si
intende – realisticamente – come durata (di ciò che è soggetto al divenire), il
contemporaneo di nulla è criterio. Esso trova la sua misura nell’eterno.
L’attuale nell’universale. Il transeunte nel permanente. Lo storico nel
tradizionale. Il fluire del tempo è degno di essere riscattato dall’oblio, in ragione
dei valori che esso reca in sé, grazie allo scrigno della memoria. Sicché la
continuità tra le generazioni attraversa gli avvenimenti. Né il passato né il
futuro sono irrigiditi in una fissità che li rende ostili al presente, ma essi
sono sempre, in qualche modo, presenti al presente. In esso si raccolgono. A
partire da esso il passato si prolunga – attraverso la responsabilità
dell’agire – nel futuro. Senza cesure ontologiche, nel bene o nel male di ciò
che è deciso ed attuato».
L’essenza della modernità, come ha evidenziato la rigorosa
analisi di Cornelio Fabro, è costituita dal principio d’immanenza. E proprio
sul pensiero e sul mondo moderno il Concilio Vaticano II ha voluto fare i
conti, conti che si sono dimostrati spesso effimeri proprio a causa della
fugacità del concetto di modernità. Fabro ha rilevato che «il pensiero moderno
è tutto accentrato sulla autonomia della coscienza, che è detto principio della
libertà, principio dell’autocoscienza, principio dello spirito». In altri
termini, la modernità «nella sua accezione propria è legata alla dialettica
rigorosa del principio d’immanenza che ha avuto per esito la morte della
filosofia con l’espulsione o nientificazione del problema della verità».
L’ultimo problema esposto riguarda «dall’interpretazione
all’esegesi». I problemi filosofici di fronte ai quali si è trovato il Concilio
Vaticano II e che si profilano attraverso i suoi stessi testi «fanno emergere
una questione filosofica non solo ad extra ma anche ab
intra». Si tratta di questioni interne alla stessa «lettura» dei testi, e
non semplicemente di interpretazioni ad essi estranee. Proprio per questo i
problemi emergono, al di là di qualsiasi interpretazione ed attraverso
qualsiasi interpretazione. Ecco allora l’estrema necessità di analizzare con
attenzione i testi per farne emergere le risposte, ma anche le domande e
«cercarne senza infingimenti le soluzioni. Le quali potranno essere appropriate
solo se vere, e non viceversa».
Emblematico risulta il caso della Nota esplicativa previa
alla Costituzione Lumen Gentium e la nota 1 al Proemio della
Costituzione Gaudium et Spes. Siamo di fronte ad un parossismo: un
documento che dovrebbe chiarire una dottrina è ritenuto, a sua volta, bisognoso
di un chiarimento, attraverso una nota esplicativa del documento stesso: «segno
evidente della necessità di precisare criteri per intendere un testo che per la
sua stessa natura dovrebbe fornire dei criteri».
L’agire non giustifica l’agire, pertanto la pastorale o la
normativa non giustificano se stesse. Senza il fondamento nella verità,
naturale e soprannaturale, «si avrebbe (anche con le migliori intenzioni) solo
una prassi totalmente dipendente da risultato, quindi una prassi nichilista.
Non la circolarità ermeneutica (per se stessa mai definitiva, e quindi sempre
precaria) né la condivisione sociologica (per se stessa puramente accidentale,
e sempre mutevole), ma solo il suo valore di verità regge l’interpretazione
retta. Ma a tale condizione, l’interpretazione neppure è più propriamente
interpretazione, ma esegesi, ovvero, in sostanza, lettura della realtà. Nessuna
interpretazione può convalidare se stessa, a partire da se stessa. Anzi, a
rigore, finché resta nell’orizzonte dell’interpretazione, non riesce a
trascenderlo e si pone sul piano di qualunque altra. Restando nel labirinto
delle interpretazioni, ci si impedirà ogni possibilità di uscita. Inoltre il
fondamento dell’autorità è la verità, pertanto l’ordine del bene, e non
viceversa. «Se il problema dei testi è ricondotto alla questione
dell’interpretazione, esso è spostato senza essere risolto. L’interpretazione,
infatti, rinvia al criterio in base al quale essa è valida (e quindi
preferibile rispetto ad ogni altra). Sotto il profilo epistemologico, ogni
interpretazione, in quanto tale, è sullo stesso piano di qualsiasi altra
interpretazione. In sostanza ogni interpretazione è una sovrapposizione. Essa
cioè si sovrappone al testo e lo riferisce all’interprete. L’interpretazione
subordina l’interpretato all’interpretante. Il testo perde in certa misura la
sua obiettività per convertirsi in strumento dell’interpretazione medesima,
attraverso la quale il testo diviene, in certo modo, altro da sé. Talché il
criterio si sposta dall’oggetto al soggetto, dall’interpretato all’interpretante.
Fino a dovere riconoscere che, nel circuito dell’interpretazione, non possono
non esserci tante interpretazioni quanti sono gli interpreti».
Diversamente dall’interpretazionismo moderno san Tommaso
d’Aquino insegna che l’unica interpretazione valida è quella vera e non ve ne
sono altre, e non dipendono dalle intenzioni dell’interprete, ma dal
significato che esso reca in sé. Il ragionamento è cristallino: «Avendo la
verità (naturale e soprannaturale) come misura, è possibile evitare ogni
ibridismo epistemologico, come quello che – nell’interpretazione dei testi del
Vaticano II – presume di individuarne la cifra nella “sintesi di tradizione e
di aggiornamento”. Tali termini, infatti, manifestano un carattere
obiettivamente anfibologico: possono cioè assumere, restando (morfologicamente)
immutati, significati diversi ed opposti».
Solo passando dall’interpretazione all’esegesi possono
essere affrontati i problemi senza nasconderli: la via dell’esegesi è la via
del primato della verità, «diversa dalla pretesa di un’obbedienza che surroga
la verità e che, come tale, svuota di verità l’obbedienza stessa, mutandola in
esecuzione». È la via che esclude ogni «divieto di fare domande», tipico del
razionalismo totalizzante delle ideologie; è la via epistemica capace di
affrontare le questioni in maniera definitiva. «Solo l’esegesi può consentire
di chiarire i termini per se stessi, di cogliere presupposti impliciti e di
indagarne la consistenza (quindi la verità), di saggiare la coerenza (o meno)
delle argomentazioni, di formulare (ove si rendano necessarie) integrazioni e
correzioni».
L’Abbé Yves le Roux ha spiegato come tutti i Concili
ecumenici sono stati indetti affinché la Chiesa rispondesse a dei problemi e
ciò ha comportato approfondimenti dottrinali e conseguenti definizioni
dogmatiche sui punti controversi con un preciso rilancio dell’azione pastorale,
tesa a riguadagnare il terreno perduto. La convocazione di un Concilio è sempre
meditata, dolorosa, sofferta in quanto viene riconosciuta una ferita, una crisi
all’interno della Chiesa, alla quale bisogna rispondere. Il Concilio Vaticano
II, invece, per espressa dichiarazione di Giovanni XXIII, che lo ha convocato,
è il frutto di un’illuminazione istantanea, carica di ottimismo. Anzi la Chiesa
è percepita dal Papa come particolarmente forte, addirittura in grado di
portare aiuto al mondo in una fase di trapasso che il Concilio dovrà accelerare
al fine di creare una società di pace e di giustizia sulla terra. La
conseguenza è che non ci saranno più né definizioni dottrinali da dare, né
errori da condannare. Sarà il primo Concilio di «bell’esempio». Una novità fu
quella dell’introduzione degli osservatori acattolici all’interno del Concilio.
Anche Pio IX li aveva invitati, ma nel Vaticano II essi assumono un ruolo
assolutamente attivo e propositivo.
Una mansione abnorme sarà assunta dai periti: una grande
quantità di Vescovi impreparati saranno in balia dei loro esperti; diventerà
addirittura il «Concilio dei periti», come sarà definito dai giornalisti.
Altra differenza assoluta con i precedenti concili è stata
la funzione assunta dai mezzi di comunicazione di massa, che sono stati
determinanti nel dirimere le questioni conciliari e nell’indirizzare l’opinione
pubblica. Come non pensare, allora, al Cardinale Suenes, che parlava spesso con
i giornalisti? In tal modo, accattivandosi la stampa, egli otteneva il favore
mediatico per sé e per le idee che esponeva al Concilio, per esempio quelle
riguardanti la libertà religiosa.
L’Abbé Jean-Michel Gleize ha spiegato che esiste un
Magistero, ma ci sono due concezioni di Magistero. Ha iniziato il suo
argomentare teologico spiegando che la Rivelazione divina può essere intesa in
due sensi: «Dio si manifesta liberamente e in maniera soprannaturale al genere
umano, che consiste nella visione dell’essenza divina che ci parla attraverso i
profeti dell’Antico Testamento e per mezzo di Cristo, comunicando alla nostra
intelligenza la conoscenza dei misteri soprannaturali della fede e delle verità
naturali della religione. Il secondo senso della Rivelazione è il depositum,
ossia l’insieme delle verità oggettive comunicate nella Rivelazione in senso
attivo e registrato nelle fonti sia scritte che non».
La Chiesa può essere intesa in due sensi: «Nel primo senso
la Chiesa si definisce come l’insieme di tutti i fedeli battezzati, che sono
membri della stessa società cattolica. Nel secondo la Chiesa si definisce nella
sua causa formale come un insieme ordinato, secondo una relazione di dipendenza
fra i pastori e il gregge, ovvero fra i membri della gerarchia che governa,
insegnando e santificando in virtù della missione divina ricevuta da Cristo e
l’altra parte dei semplici fedeli battezzati». San Pio X nel giuramento
anti-modernista utilizza questi termini: «Io credo anche fermamente
che la Chiesa è stata istituita da Cristo come la custode e la maestra della
Parola rivelata» e Leone XIII spiega nell’Enciclica Satis cognitum le
ragioni di questa espressione: è nella gerarchia che la Chiesa è maestra e
custode della Parola di Dio. Gli Apostoli, infatti, consacrando dei vescovi e
designandoli nominativamente conferiscono loro la carica e la missione
d’insegnare. La responsabilità della gerarchia è, dunque, immensa. Il Compendio
del Catechismo della Chiesa Cattolica nel 2005 n ° 15 dice che il deposito
della fede è affidato a tutta la Chiesa, chiamata a trasmettere la verità.
Nella Esortazione Verbum Domini Papa Benedetto XVI ha detto
che «La Parola di Dio ci ha dato la vita divina che trasfigura la faccia della
terra, facendo nuove tutte le cose (cfr Ap 21, 5). La Sua Parola ci rende non
solo i destinatari della rivelazione divina, ma i suoi messaggeri», pertanto la
missione di annunciare la Parola di Dio è il compito di tutti i discepoli di
Gesù Cristo, come conseguenza del loro battesimo. Ha affermato l’Abbé Gleize:
«Nessun credente in Cristo può sentirsi estraneo alla responsabilità che deriva
dalla appartenenza al Corpo sacramentale di Cristo. Questa consapevolezza deve
essere risvegliata in ogni famiglia, parrocchia, comunità, associazione e
movimento ecclesiale. La Chiesa come mistero di comunione è missionaria e ciascuno,
secondo il suo stato di vita, è chiamato a dare il suo contributo» di servizio
come Chiesa, istituzione divina voluta da Cristo, dove il ruolo della
Tradizione, inteso come trasmissione, è fondante. La gerarchia è chiamata ad
esercitare il Magistero per insegnare con l’autorità di Dio e i fedeli ricevono
questo insegnamento del Magistero. Il Vaticano II «si propone di istituire una
nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi
essenziali del pensiero moderno», è questo il grande problema perché «la
dottrina della fede è stata presentata in modo tale da rispondere alle esigenze
del nostro tempo».
Attenzione, dunque, alle due concezioni di Magistero: quello
che procede per via della ricerca scientifica, mirando a scoprire nuove verità,
che si fa portavoce della Comunità e che traduce le moderne intuizioni in
linguaggio concettuale, e il Magistero ecclesiastico, che non ha lo scopo di
scoprire nuove verità, ma trasmette sempre la stessa identica verità rivelata.
Il fondatore di questo Magistero è Cristo che ha chiamato i suoi discepoli ad
attestare la verità, quella che si tramanda, attraverso l’insegnamento della e
nella Tradizione, per via Apostolica. L’atto del Magistero ecclesiastico (dove
si concretizza l’unità di tempo e spazio dell’educazione religiosa) non può né
proclamare l’errore, né negare o semplicemente mettere in dubbio la verità già
proclamata. «I frutti del Magistero pastorale inaugurato dal Concilio Vaticano
II ha determinato una diffusa protestantizzazione della Chiesa e una
considerevole diminuzione di fede». Nel Vaticano II è emersa una docenza
diversa rispetto alla Tradizione e la progettazione dell’insegnamento
ecclesiale che è maturato in questi 50 anni è profondamente cambiata rispetto
al preconcilio e va di pari passo con un nuovo concetto di Rivelazione (quella
storicistica), di Chiesa e di Tradizione, dove l’orizzontale ha preso il
sopravvento sul verticale, l’immanente sul soprannaturale. Insomma
«l’insegnamento del Vaticano II obbedisce a una logica diversa», quella
dell’immanenza, «una logica completamente nuova, estranea alla definizione del
Magistero cattolico» e questa nuova logica prevale all’interno della Chiesa e
propone una concezione di insegnamento che segue un indirizzo soggettivistico,
chiaro frutto della malattia che ha colpito la Chiesa e il Magistero: il
Modernismo, il liberalismo, che sono stati introdotti «come un parassita o un
corpo estraneo (un “Alien”) nel corpo della Chiesa. Ci auguriamo che questo
mostro finirà per essere rimosso. E Pietro, alla fine, sarà liberato da queste
catene, poiché la soluzione sta in quel: “Tu es Petrus et super hanc Petram
aedificabo Ecclesiam Meam”».
La giornata di sabato 5 gennaio è stata chiusa dall’Abbé
Alain Lorans, il quale ha affermato che nessuno può negare il fatto che esista
una crisi della Chiesa, ma tale constatazione deve essere vista dai cattolici
alla luce della fede. A differenza di tutti i Concili precedenti, il Vaticano
II è stato il Concilio che ha invocato «l’aggiornamento», ossia l’adattamento
della Chiesa al mondo moderno. Di fatto si è impedita la vera riforma della
Chiesa che non è altro che instaurare omnia in Christo,
ripristinando tutte le cose in Lui.
Come giustamente ha scritto Romano Amerio in Iota
Unum: «Il mondo rifiuta la dipendenza tranne nei confronti di se stesso. La
Chiesa sembra aver paura di essere respinta» da esso, allora cerca di scolorire
le sue particolarità meritorie e di colorare i tratti che ha in comune con il
mondo moderno, un mondo che si autocelebra nel cosiddetto «progresso umano».
Domenica 6 dicembre, giorno dell’Epifania di Nostro Signore,
dopo una bellissima Santa Messa Pontificale celebrata da Monsignor Bernard
Fellay a Saint Nicolas du Chardonnet nel cuore di Parigi, dai cui muri secolari
trasuda il patrimonio cattolico-romano di una fede tramandata di parroco in
parroco, di padre in figlio, il Superiore della Fraternità San Pio X ha chiuso
i lavori del Congresso teologico facendo un bilancio complessivo: dopo 50 anni
dall’apertura del Concilio Vaticano II la risposta della Fraternità, voluta dal
Vescovo Monsignor Marcel Lefebvre nel 1970, continua ad essere la stessa,
quella che il padre fondatore ha ricordato fino all’ultimo suo respiro, citando
san Paolo: «Tradidi quod accepi» («Ho trasmesso quello che ho
ricevuto»). Inoltre Monsignor Fellay ha esortato i presenti a porre la Santa
Messa al centro di tutto, perché ogni cosa deriva da questa inesauribile
fonte. «Tutto nella vita cristiana deriva dal Sacrificio di Nostro Signore
sulla Croce, rinnovato nella Messa, proprio qui troveremo la soluzione a questa
crisi. La pastorale vera sta nel Santo Sacrificio e soltanto tale “pastorale”
conduce le anime a Cristo». Questo lo spirito cristiano e noi «dobbiamo vivere
la grazia di nostro Signore. Questa è la cura. Il sacerdote deve diventare un
altro Cristo», dunque salire all’altare in persona Christi. Non è
sufficiente, ha dichiarato il Vescovo, avere una tonaca e celebrare la messa in
latino; il sacerdote è chiamato all’imitazione di Gesù Cristo e tale imitazione
sarà il rimedio, una cura «essenzialmente soprannaturale». Egli ha poi toccato
il problema esistente tra la FSSPX e Roma, che, dopo i colloqui dottrinali, è
ritornato al punto di partenza. «La soluzione proposta dalla Fraternità è
quella di san Vincenzo di Lerins»: se la Chiesa è malata ha bisogno di cure e
la terapia si chiama Tradizione. «Cosa fare ora? Lasciare la Chiesa? Certo che
no! Non vi è alcuna altra chiesa che la Chiesa cattolica! La Chiesa è nostra
madre, è malata, ma è la Chiesa fondata da Nostro Signore, il quale ha promesso
che le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Non abbiamo mai
inventato una chiesa per noi! Non resta che pregare, invocare la grazia e
compiere ognuno il dovere del proprio stato. Chiediamo a san Giuseppe,
protettore del Bambino Gesù, di proteggere la Chiesa. È per questo che il 19
marzo prossimo consacreremo a lui, ad Écône, la Fraternità San Pio X».
(Fine)
GALLERIA FOTOGRAFICA
(clicca sulle immagini per ingrandirle - foto di Cristina
Siccardi)
altre foto sono disponibili sul Sito DICI.ORG: clicca
qui
Da sinistra, Don Yves le Roux; Don Patrice Laroche, Don
Alain Lorans
Da sinistra, Don François Knittel, prof. Roberto de
Mattei; Don Emanuele du Chalard
Da sinistra: Alessandro Fiore, Don Emanuele du Chalard
Da sinistra: Prof. Giovanni Turco, Don Emanuele du
Chalard
resoconto di Cristina Siccardi
(terza e ultima parte - per leggere la prima parte, clicca qui , per leggere la seconda parte, clicca qui)
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