ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 25 marzo 2013

Francesco e i lupi


Riuscirà il nuovo Papa ad ammansire le lobby che danzano attorno alle finanze vaticane? Lo spacchettamento dello Ior

"La chiesa ha davvero bisogno di una banca?”. Cláudio Hummes, dell’ordine dei frati minori, va subito al sodo. Il cardinale brasiliano è grande amico del nuovo Pontefice e Jorge Bergoglio ha rivelato che si deve a Hummes se, durante il Conclave, gli è venuto in mente di prendere il nome del santo di Assisi. Anche Papa Francesco sa bene di dover affrontare i lupi della finanza che percorrono inquieti, affamati, i sentieri della chiesa. Forse potrà anche chiamarli fratelli, ma certo non sarà facile ammansirli. “E’ un mondo (sia quello laico sia quello cattolico) venato da forti ipocrisie, dove dominano i farisei”, dice Giancarlo Galli che nel suo libro “Finanza bianca” ha raccontato come si intrecciano Roma e Milano, il torrione di Niccolò V e Piazza Affari.

La grande riforma comincerà proprio da qui? I richiami a una chiesa povera, i comportamenti austeri: ogni segnale di Papa Francesco è chiaro e non arriva per caso. Non solo. L’elezione di Bergoglio mette oggettivamente in un angolo la curia, gli italiani, le lobby e i gruppi che finora avevano avuto accesso privilegiato all’Appartamento. In altre parole, tutto il variopinto universo che ha ruotato attorno all’Istituto opere di religione. La banca cambierà, anche radicalmente; magari tornerà allo spirito dell’Obolo di san Pietro. In ogni caso, si chiude un periodo, durato almeno mezzo secolo, in cui il Vaticano ha cercato di giocare da pari a pari con la finanza mondiale. Una grande storia che non è fatta solo di grandi imbrogli.
Una “reconquista”, la chiamava il banchiere milanese Angelo Caloia che è stato per vent’anni presidente dello Ior: “Non possiamo accettare di venire considerati i bravi ragazzi dell’oratorio”, diceva agli amici del gruppo Cultura, etica, finanza, creato nel 1985 dall’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e animato dal suo braccio destro Attilio Nicora. Ne facevano parte anche Giovanni Bazoli, Alberto Quadrio Curzio, Lorenzo Ornaghi, Tancredi Bianchi, Gianmario Roveraro, Sergio Rumi.
La sfida comincia, in realtà, con monsignor Giovanni Battista Montini, segretario di Papa Pio XII, e si rafforza quando il prelato bresciano, figlio di un banchiere e nipote di uno dei fondatori del Partito popolare, assurge al soglio di Pietro. Due sono i veicoli principali dell’azione parallela: lo Ior con i suoi legami che vanno dal Banco di Santo Spirito al Banco di Roma, e il Banco Ambrosiano, chiamato non a torto “la banca dei preti”, che a sua volta s’interfaccia con la Cariplo, la Cassa di risparmio delle province lombarde e la Bpm, la Banca popolare milanese. Protagonisti non soltanto personaggi oscuri come Paul Marcinkus, Michele Sindona, Roberto Calvi (“banchieri di Dio” iscritti alla massoneria), o figure enigmatiche come Roveraro, affiliato all’Opus Dei che morrà nel 2006 in circostanze sospette, ma specchiate personalità e uomini dalle molteplici relazioni: da Giordano Dell’Amore a Giovanni Bazoli, dal notaio Giuseppe Camadini a Cesare Geronzi. La storia, quella vera, insomma, ha molti più personaggi della letteratura di successo sulla multinazionale Vaticano.
Per sfuggire alla sindrome di Dan Brown, si dovrebbe tornare ai tempi di Pio IX, quando il controverso cardinale Giacomo Antonelli, per far quadrato attorno al Papa travolto dalle rivoluzioni liberali, istituisce l’Obolo di san Pietro che verrà alimentato non solo dai fedeli, ma dalle nazioni cattoliche. Crea un ministero economico e lo chiama “Ad pias causas”, coinvolgendo l’aristocrazia romana (Borghese, Chigi, Rospigliosi, Spada); colloca il fratello Filippo alla guida della Banca romana e lascia alla sua morte nel 1876 un cospicuo patrimonio.
A Milano, intanto, una finanza cattolica dispersa in mille rivoli locali (quegli stessi che tornano oggi tanto in voga) viene riorganizzata dall’arcivescovo Andrea Ferrari che si affida all’avvocato bresciano Giuseppe Tovini (c’è fin dall’inizio un avvocato bresciano) il quale nel 1896 istituisce il Banco di Sant’Ambrogio. “Fu una grande intuizione” disse nel 1922 il giovanissimo Montini, perché “aveva compreso la complementarietà esistente, in una visione di fede, fra le ragioni dell’economia e quelle della politica e della società”. La chiesa ha bisogno di una banca? Montini pensava di sì. E, arrivato ai vertici del Vaticano, mise in pratica il suo progetto. E’ un aspetto che raramente viene sottolineato anche se getta una luce diversa sull’intera vicenda.
Facciamo un salto al 1942 in una Roma che sente già arrivare lo sfascio, la sconfitta, la catastrofe. Eugenio Pacelli, eletto Papa nel 1939 con il nome di Pio XII, progetta di riformare la curia. A cominciare dall’Ad pias causas. Così, crea l’Istituto opere di religione, affidandolo a un laico, l’ingegner Bernardino Nogara, coadiuvato da un monsignore, Carlo Cremonesi, e un finanziere, Massimo Spada. Non avrà sempre vita florida. Anzi, con Giovanni XXIII, il “Papa buono”, gli attivi scendono a un terzo e crollano anche le donazioni dei fedeli. Quando Montini diventa Paolo VI, ha dunque il compito non solo di gestire il concilio Vaticano II, ma anche di risanare le finanze. E si rivolge agli americani, sotto la guida del cardinale Francis Spellman, già nunzio presso marine e berretti verdi.
Molti fanno risalire a questo momento il rapporto con Paul Marcinkus allora giovane e aitante prelato di Chicago che amava i sigari avana. In realtà, il vero punto di svolta arriva alla fine degli anni Sessanta. Il miracolo economico è svanito, mentre le convulsioni italiane e la politica dei governi di centrosinistra, inquietano il Papa. Il governo vuole tassare le operazioni di Borsa, anche quelle della Santa Sede e il democristiano Giovanni Leone chiede il pregresso, qualcosa come 1,2 miliardi di euro odierni. Paolo VI decide di spostare tutto all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in una serie di paradisi fiscali, a cominciare dalla Svizzera. Ma chi può condurre in porto una tanto ardita esportazione di capitali? Marcinkus, entrato nell’entourage di Montini anche grazie a Spellman, trova l’uomo giusto: Michele Sindona che non va tanto per il sottile (ricicla anche i quattrini della famiglia Genovese), miete successi finanziari e viene portato sugli scudi. Il “salvatore della lira”, così lo chiamerà nel 1973 Giulio Andreotti, è innanzitutto il salvatore della banca del Papa. Un anno dopo, fallisce la Franklin National Bank, principale filiale americana di Sindona e trascina con sé tutto il castello di carta. La chiesa perderà una ingente somma (secondo alcuni fino a 250 milioni di dollari).
La riserva milanese passa, a questo punto, in prima fila. Nel 1975 Roberto Calvi diventa presidente del Banco Ambrosiano dove era entrato nel 1947 come semplice impiegato. Sindona, con il quale era in rapporti dal fatidico 1968, lo aveva introdotto a Licio Gelli. Sembra l’uomo giusto per prendere il testimone e perfezionare la rete estera del tesoro di san Pietro. Così pensa Marcinkus. Ma tutto precipita in fretta dopo la morte di Paolo VI nel 1978: prima con la meteora di Papa Luciani deciso anche lui ad affrontare la questione dello Ior (secondo una narrazione di successo venne ucciso proprio per questo), poi con l’arrivo di Karol Wojtyla. La vicenda è nota. Il crac dell’Ambrosiano, Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra nel 1982, le implicazioni geopolitiche (i quattrini a Solidarnosc e ai Contras), la mafia, il caffè avvelenato che stronca Sindona nel carcere di Voghera nel 1985. Insomma, tutto quello che continua a riempire intere librerie.
Meno conosciuto è che lo choc dell’Ambrosiano innesca una partita doppia che incrocia finanza romana e milanese. Lo Ior, al quale il ministro del Tesoro Nino Andreatta, democristiano, chiede 1,2 miliardi di dollari, viene affidato ad Angelo Caloia (lo presiederà fino al 2009). Il Nuovo Banco Ambrosiano a Giovanni Bazoli, che il prossimo mese verrà riconfermato ancora presidente per altri tre anni. Nel frattempo, è diventato il numero uno in Italia, ha assorbito la Cariplo, la Banca Commerciale, la Cattolica del Veneto, il San Paolo di Torino. Se di riconquista si tratta, ebbene è arrivata al culmine, alla rivincita sui piemontesi, laici e massoni.
Roma, invece, si dimostra molto più difficile da riconquistare. Il ventennio Caloia è un periodo di prudente assestamento. Mentre la dottrina sociale ed economica della chiesa con Giovanni Paolo II rivaluta l’economia di mercato. Un giudizio di fondo che la Caritas in veritate di Benedetto XVI non ribalta, sia pur criticando le conseguenze della globalizzazione e l’avidità dei finanzieri. Lo Ior resta un ircocervo, che non risponde a nessuno se non al Papa, del quale gestisce un fondo personale. L’assoluta segretezza delle sue operazioni è miele per le mosche del capitale e favorisce la nascita di una banca parallela. Viene alla luce la Fondazione Spellman e il conto Omissis che fa capo a Giulio Andreotti. Passano dal Torrione persino le tangenti Enimont. Dall’archivio di monsignor Renato Dardozzi (stretto collaboratore dei segretari di stato Agostino Casaroli e Angelo Sodano) pubblicato da Gianluigi Nuzzi, emerge che il dominus resta monsignor Donato de Bonis il quale cerca più volte di far fuori Caloia, finché Papa Wojtyla non lo nomina cappellano dei Cavalieri di Malta.
Con passo felpato, Caloia prova a cambiare rotta. Nel 1992 quando l’intero sistema italiano viene scosso (compreso quello bancario) cerca di quadrare il cerchio, una sorta di compimento secolare, trasformando lo Ior nel principale azionista dell’Ambrosiano. Lo blocca Bazoli il quale di lì a poco conquisterà la Cariplo. Si apre, così, un conflitto all’interno del gruppo Cultura Etica Finanza. Ma l’operazione peccava di velleitarismo.
Non decolla nemmeno il tentativo di avvicinare le due rive del Tevere attraverso molteplici legami con le banche romane. Lo Ior aveva un proprio conto nel Santo Spirito. Un ex dirigente della banca, Paolo Cipriani, nel 2007 diventa direttore generale dell’istituto vaticano. Ma Cesare Geronzi coltiva altri progetti. Dello Ior non parla. Si era fatto il suo nome alla presidenza dopo Caloia. E con Tarcisio Bertone i rapporti sono sempre stati amichevoli. Però il banchiere romano si è giocato le sue carte, come uomo di sistema e pendant di Bazoli, fuori dalle Sacre Mura. Capitalia assorbe il Banco di Roma, il Santo Spirito, la Cassa di Risparmio, il Banco di Sicilia. E viene assorbita da Unicredit erede del Credito Italiano, roccaforte massonica prima genovese poi meneghina. Le vie del Signore sono imperscrutabili.
Nel 1996, Giovanni Paolo II impone allo Ior di applicare i princìpi del Financial Action Task Force, l’organismo creato dal G7 per la lotta al riciclaggio. Ma in molti fanno orecchie da mercante. Benedetto XVI vuole una operazione trasparenza. Nel 2010 con una lettera motu proprio costituisce l’Autorità di informazione finanziaria e l’affida al cardinal Nicora. Inoltre, al vertice dello Ior va Ettore Gotti Tedeschi, rappresentante in Italia del Banco Santander, un banchiere che si era fatto le ossa con Roveraro. “Verso di lui spesi parole favorevoli con il cardinale segretario di stato”, dice ora Geronzi.
Secondo Galli, il senso della scelta è che il Papa, in una situazione tanto intricata, preferisce affidarsi di fatto al più grande banchiere cattolico europeo: Emilio Botín, patron del Banco di Santander, legato all’Opus Dei. E’ il culmine di un cammino che la prelatura personale ha cominciato fin dagli anni Ottanta e la porta al massimo della propria influenza nella chiesa. Nel 2002 il suo fondatore, Josemaría Escrivá, era stato canonizzato da Giovanni Paolo II.
L’ascesa non piace ad altri. Alla Compagnia di Gesù, per esempio, la quale, però, è deboluccia in campo bancario. E nemmeno a una organizzazione ricca e potente come i Cavalieri di Colombo, con quasi due milioni di iscritti e un patrimonio di 17 miliardi di dollari. Nati nel 1882, le loro opere di carità hanno prodotto una delle compagnie di assicurazioni più importanti negli Stati Uniti. Tra i membri famosi, John e Ted Kennedy o Jeb Bush. Papa Ratzinger l’ha incoraggiata come alfiere della chiesa in terra d’America. Il suo Cavaliere supremo, Carl Anderson, che da giovane si è fatto le ossa alla Casa Bianca con Ronald Reagan, entra nel consiglio dello Ior. Toccherà a lui licenziare Gotti Tedeschi con una lettera che non contiene mezze parole: “Sono giunto alla conclusione, dopo molte preghiere e riflessioni, che non sia in grado di guidare l’istituto in tempi difficili come questi”. Poi l’accusa peggiore: “Non ha saputo difendere l’istituto”.
L’ex presidente non ci sta. Rivendica la volontà di far pulizia su mandato diretto del Papa. Invece, la vischiosità dello Ior, l’intreccio di interessi, la voglia di segretezza sono prevalse, insomma il vecchio ha vinto sul nuovo. Le istituzioni internazionali chiedono trasparenza, mentre la banca del Vaticano resta oscura e impenetrabile. Massimo Franco, nel suo libro appena pubblicato (“La crisi dell’impero Vaticano”, Mondadori), cerca di inquadrare le convulsioni della chiesa in una dimensione geopolitica e sistemica. Su Gotti Tedeschi scrive che “la struttura lo sentiva come un corpo estraneo. E non gli aveva mai perdonato le parole dette nei primi mesi, quando aveva tracciato uno spartiacque radicale tra il prima e il dopo”. Nel Torrione dicono: “Forse non ci ha mai capiti”. O forse sono loro a non aver capito che tutto è cambiato? Finché l’elezione di Francesco non ha prodotto un vero e proprio choc.
Gli analisti attenti del traffico di influenze, parlano del ruolo svolto dai Cavalieri di Colombo nel far maturare il consenso su un Pontefice americano. Certo, Bergoglio non viene dagli Stati Uniti e probabilmente Anderson avrebbe preferito il cardinale di New York, Timothy Dolan. Ora il vicepresidente Usa Joe Biden sostiene che si era a un soffio dal nominare il cappuccino di Boston Sean Patrick O’Malley. Ma senza dubbio l’arcivescovo di Buenos Aires è il primo Papa delle Americhe e di quel mondo porta con sé la cultura. Insieme a quella dei gesuiti la cui influenza sale al vertice, dopo decenni di emarginazione.
Cosa accadrà allo Ior, allora? Certo, è curioso che dopo la defenestrazione di Gotti Tedeschi, l’Istituto sia rimasto per nove mesi senza presidente. Poi, in fretta e furia, quando Benedetto XVI ha già annunciato le proprie dimissioni, se ne nomina uno: Ernst von Freyberg, uomo d’affari tedesco e cavaliere di Malta. E’ il 15 febbraio. Il giorno dopo dal consiglio di vigilanza esce anche il cardinal Nicora. “Sono corsi a tirar su una diga per la tempesta futura, guidati dal segretario di stato”, spiega un osservatore disincantato. Ma nessuno ha previsto quanto sia veloce il cambiamento. Dice un finanziere che sa di cose vaticane ed è d’accordo con il punto di vista di Hummes: “Lo Ior è finito. Probabilmente verrà sciolto e spacchettato, lasciando al Vaticano la raccolta di risorse a scopi benefici e affidando a banche esterne la gestione dei patrimoni e il sistema dei pagamenti. Certo, la chiesa non vive di Ave Marie come dichiarò una volta Marcinkus, cinico, ma sincero. La banca del Papa, però, ha chiuso il suo ciclo storico. Così come la centralità dell’Italia e forse della stessa Europa”.
E la finanza bianca? Quella fuori le mura? “Anch’essa fa parte di un piccolo mondo antico – commenta il suo storico, Giancarlo Galli – Che cosa ne sappiamo di quel grande mondo lontano da qui dove è cresciuto il nuovo cattolicesimo? Dei suoi riti, della sua cultura, dei suoi bisogni, e anche di come vorranno organizzare le esigenze economiche di questa nuova chiesa?” E’ a essa che pensa Papa Francesco eletto con un mandato chiave, assicura il nostro attento osservatore: “Fare pulizia per chi verrà a rifondare la barca di Pietro”.

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