ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 12 marzo 2013

Resurrectio oltreoceano?


Resurrectio oltreoceano

Le lamentazioni per il disarmo della chiesa in occidente e la “catholic awakening” americana

La litania del volgo recita più o meno così: il futuro della cristianità è roba da paesi in via di sviluppo, va bene giusto per le società appena affrancate dall’animismo, per gli spiriti sopraffatti dalla superstizione latina e dai suoi eccessi simbolici. E’ roba, insomma, per gente che non è stata ancora benedetta dalla dea ragione, che non ha avuto un Diderot che si è liberato anche dalle spoglie del deismo che avvinceva Newton (Sofia Vanni Rovighi diceva che era un “teologo che si dilettava di fisica”) ed è giunto all’essenza della modernità.
L’illuminista era etologicamente affascinato dalle processioni cristiane, dalle effigi, dal potere simbolico dell’immagine sacra, dall’incanto delle musiche, dagli incensi, ma guardava lo spettacolo della religione con gli stessi occhi con cui Peter Ouwens considerava i varani di Komodo. Nell’occidente che fu cristiano rimane soltanto una vasta nicchia posata su un piano inclinato cosparso di grasso, come quelli che usava Galileo per ingannare gli attriti nei suoi esperimenti e dimostrare che l’impianto aristotelico e scolastico poteva essere matematicamente smentito.
Il margine di espansione evangelica va cercato in Africa, in Asia, in America latina, è lì che la chiesa avvince cuori abbastanza rudimentali per poter cedere alla fede senza troppe obiezioni. La rappresentazione pubblica del Conclave imminente pullula di richieste di rivolgere lo sguardo fuori dal mortifero recinto dell’occidente secolarizzato. Non è lì il futuro della chiesa, si dice. Ovviamente la litania del volgo sottende il concetto della sparizione, magari non immediata, del cristianesimo dall’orizzonte, e la marginalizzazione extraoccidentale è soltanto il primo passo. Cosa succederà all’apparire di un Diderot africano? E quando l’estremo oriente abbandonerà il senso religioso residuo in favore di un qualche illuminismo? Tutto sarà pulito e secolarizzato, sostengono – ma senza ammetterlo esplicitamente – i propalatori della litania, i quali evidentemente preferiscono il millenarismo low cost di Casaleggio alla transustanziazione. “Chi non crede in Dio comincia a credere a tutto” è aforisma chestertoniano divenuto nel tempo un adagio classico della postmodernità. L’occidente completerà la sua opera di liberazione sessuale fino a raggiungere l’obiettivo finale, l’abolizione del concetto stesso di genere, negazione del “maschio e femmina li creò”, la natura duale dell’uomo che è l’essenza dell’“immagine e somiglianza” del libro della Genesi; la chiesa del laicismo, che secondo alcuni ha intimidito a tal punto la chiesa da costringere Benedetto XVI alle dimissioni, spazzerà via dall’orizzonte i detriti della riflessione cristiana, realizzando le profezie di Charles Péguy e T. S. Eliot, forse persino quelle del “padrone del mondo” di Benson, con il suo Giuliano Felsemburgh che è a un tempo pontefice, capo politico e restauratore dell’umanità in purezza.
Nell’America informata dallo spirito cristiano riformato, quella che trova spazio per le menzioni religiose in qualsiasi ambito pubblico, dalle banconote al discorso sullo stato dell’unione, il paese della segregazione che ha rotto il tabù di un presidente afro-americano ed è più che pronto ad accogliere una donna alla Casa Bianca, ma difficilmente potrà digerire nel futuro prossimo un sacerdote della chiesa agnostica o atea, gli intellettuali di ambiente cristiano producono lamentazioni altissime.
In “The American Religion” Harold Bloom prefigurava una regressione del cristianesimo, intaccato dallo gnosticismo che pervade tanto la comunità cattolica quanto le chiese riformate. Solo i testimoni di Geova, per Bloom, hanno gli anticorpi giusti contro la gnosi dilagante. Nel 1993 il critico letterario prevedeva una crescita esponenziale di mormoni e pentecostali, campioni del moralismo engagé e dello spiritualismo ipertrofico che s’incontrano nella cultura del sospetto verso l’ordine gerarchico nella sua forma classica. La profezia si è rivelata azzeccata per i pentecostali, molto meno per i mormoni, il che depone a favore di una crescita spirituale americana che mal s’accorda con gli aspetti istituzionali del cristianesimo. Lo spirito è forte, ma la chiesa è debole. Il teologo di Harvard Harvey Cox alcuni anni fa parlava, nel suo “The Future of Faith” di un concetto diffuso nella cristianità da parecchi secoli, la partizione della storia cristiana in fasi, solitamente associabili alle persone della Trinità: la cristianità giovanile, con i suoi incanti e i suoi entusiasmi, viene irregimentata in una struttura vagamente autoritaria fino all’arrivo di un’età spirituale nella quale la sovrastruttura gerarchica si dissolve in favore di un’armonia naturale. Non è un caso che questa fase sia associata alla categoria dello spirito, il quale notoriamente soffia dove vuole, quindi anche nell’intimo di una coscienza irriducibile a qualunque ortodossia, nel dogmatismo à la carte, nel “personal Jesus”, nel salotto di Oprah Winfrey.
La tesi di Cox riprende, in tono accademico e vagamente apocalittico, quello che la vulgata recita in una prosa più spicciola: cinquant’anni fa è iniziata una “età dello spirito” che sta facendo crollare l’impianto del cristianesimo istituzionale, con le sue ossessioni gerarchiche e patriarcali. Gioacchino da Fiore si dilettava con profezie simili già nel XII secolo e Henri De Lubac, uno dei grandi maestri di Ratzinger, ha spiegato con dovizia di particolari le ricadute secolarizzate e moderne del millenarismo gioachimita. Ci sono, secondo Cox, alcune nicchie che tentano di resistere all’avanzata dello spirito che si manifesta nel silenzio e nell’intimo della coscienza personale. Sono presenze residuali che combattono una battaglia di retroguardia, cercano di fermare nell’ambra le reliquie di un cristianesimo occidentale in via d’estinzione, e il loro esponente più noto è proprio Benedetto XVI. Nel processo di “deoccidentalizzazione” del cristianesimo qualcuno tenta di erigere altissime muraglie per prolungare il più possibile l’assedio. Ma la battaglia, per quanto dilatabile nel tempo, porta a un esito certo. Sempre sulla stessa linea anche la storica delle religioni Diana Butler Bass, che nel libro “Christianity After Religion” spiega che la fine della chiesa e la nascita di nuovo risveglio spirituale sono eventi connessi da un inoppugnabile rapporto causale.
La presenza ecclesiastica è in qualche modo un argine che tiene a freno il libero flusso dello spirito e da lì a sostenere che “Gesù va salvato dalla chiesa”, come scrive Robin Meyers, il passo è brevissimo.
Ross Douthat, columnist del New York Times cattolico e conservatore, ha scritto probabilmente la lamentazione più ragionata fra quelle degli americani che vedono scivolare la fede fuori dai confini delle chiese istituzionali. “Bad Religion” è una vasta rassegna fenomenologica del destino del cristianesimo negli Stati Uniti. E’ la fotografia di un declino. Non un declino privato, perché il bisogno di religiosità in America felicemente abbonda nelle stanze di una fede centripeta e sentimentale, cresce nel mito dell’Eat, Pray, Love, si alimenta di divinità ritagliate lungo la linea tratteggiata delle proprie preferenze. Dio è mio e lo gestisco io, dice l’America di Douthat, un paese che fugge dalle liturgie, dai codici, dalle candele, dai sermoni, dagli interpreti della scrittura, figurarsi dai pontefici dotati di infallibilità.
Più in profondità nella tesi di Douthat si scorge il fallimento del cristianesimo americano nel creare un ponte con la ragione, faccenda alla quale Ratzinger si è dedicato per decenni come teologo e cardinale e per otto anni portando la veste bianca e le scarpe rosse. La prima logica conseguenza del ragionamento è che il cristianesimo, per sopravvivere, deve dissodare terreni umani incontaminati; la seconda conseguenza è che l’abdicazione di Benedetto XVI è, nella visione crepuscolare di Douthat, una “enorme concessione alla modernità”.
Anche l’ultimo feudo del cristianesimo tradizionale e occidentale abbassa il ponte levatoio e lascia che i nemici entrino. E’ un genere letterario che si propone con costanza ciclica nel paese in cui la religione si è propagata saltando da una “awakening” all’altra, non per progressione lineare. C’è sempre, in questa sinusoide, un’età dell’oro da piangere e un presente di latta di cui lamentarsi; l’oggi è l’epoca costante della crisi, dei vecchi tempi che non ci sono più, una visione arcadica che si “dissolve nello specchietto retrovisore”, come ha scritto Randall Balmer sul New York Times: non troppo remota per essere leggendaria, non abbastanza recente per mostrare i suoi effetti nell’hic et nunc. E’ un crepuscolo a cavallo di una generazione di cui l’autore della lamentazione non fa parte. Per Douthat quest’èra è il secondo Dopoguerra, perfettamente sovrapponibile all’inizio dell’età dello spirito di Cox. Non è una coincidenza: per il tradizionalista del New York Times quello è l’amaro inizio della fine della chiesa; per il progressista di Harvard è la liberazione da un fardello. Ma il genere letterario non è legato a un tempo specifico. “Attenta, terra peccatrice, attenta / e non pensare che sia strano / che i giudizi più duri vengano a te / a meno che non cambi in fretta / O Dio o tu dovete cambiare in fretta”. Michael Wigglesworth non voleva certo che fosse Dio a cambiare, era la sua terra peccatrice a doversi redimere per evitare il giudizio severo del Dio degli Eserciti. L’autore ha scritto la “Controversia fra Dio e il New England” nel 1662, quando nelle comunità puritane insediate sulla costa atlantica l’ermeneutica corrente era la “typology”: la conquista della nuova terra promessa era il compimento dell’alleanza con Dio spezzata dal popolo ebraico.
L’America, protestante e secolarizzata – il rapporto fra i due fenomeni lo ha spiegato meglio di tutti Charles Taylor in “A secular Age” – dovrebbe essere il punto più cedevole nella geografia della cristianità deoccidentalizzata; invece qualcosa nel paese che mette all’inizio della sua Costituzione la libertà religiosa dice che le lamentazioni ecclesiastiche non sono definitive. I segni di una vivacità, anche stilistica, della chiesa americana si sono visti in queste settimane a Roma, dove i cardinali d’oltreoceano sono arrivati con pattuglie di portavoce ed esperti di comunicazione, hanno parlato tanto, persino troppo secondo la curia romana, con i giornalisti, non si sono sottratti alle apparizioni pubbliche, hanno dimostrato di essere “media savvy”, assai sgamati nel rapporto con i media, un tratto incarnato sommamente dal cardinale di New York, Timothy Dolan, il prototipo del pastore conservatore in dialogo perenne con il mondo. Sotto la sua guida, i vescovi americani hanno preso a pronunciarsi senza esitazioni nello spazio pubblico, senza timore di opporsi al potere quando è necessario.
Ma il paradigma della chiesa americana oggi non è quello del maniero in decadenza difeso da muri di cinta alti il più possibile; è piuttosto quello di un corpo vivo che si muove senza imbarazzi nel mondo laico, che si tratti di dare battaglia all’Amministrazione Obama su una legge che viola la libertà religiosa, di dialogare con il New York Times o di affrontare senza reticenze le domande sugli abusi che ormai vengono riesumate con perfetto tempismo giornalistico e usate come clave. Il tutto rappresentato dalla faccia rubiconda di Dolan, omone che trasuda energia e buonumore, l’esatto opposto del grigiore curiale o del rintanamento settario che non sono mancati nell’esperienza della chiesa americana. Notare bene: non è soltanto una strategia comunicativa, un puro calcolo per ottimizzare l’evangelizzazione; la sferzata è inscritta in una chiesa che non teme di giocare sul campo non certo neutro della secolarizzazione. E’ un atteggiamento verso il mondo che si abbevera alla fonte della teologia tradizionale, ratzingeriana per intenderci, per trovare un modo ragionevole con cui comunicarsi, senza complessi di inferiorità o tentazioni catacombali.
E’ l’immagine opposta a quella suggerita dalle prefiche americane che piangono lo squagliamento dell’esperienza cristiana. I numeri confermano che è prematuro celebrare il funerale di una chiesa incompatibile con una società troppo evoluta per credere. I cattolici negli Stati Uniti sono oltre 78 milioni, ovvero un quarto della popolazione, nel 1965 erano circa la metà ed erano tutti concentrati nel nord-est degli Stati Uniti. Tutto il resto del paese era una costellazione di denominazioni protestanti. Ora i cattolici sono una presenza significativa su tutto il territorio. Uno studio del Center for Applied Research in the Apostolate all’Università di Georgetown dice che verso la metà del secolo la popolazione cattolica potrebbe raggiungere i 110 milioni.
Lo stesso centro studi ha notato che i due terzi degli americani che vengono educati alla fede cattolica rimangono legati alla chiesa anche da adulti, percentuale stellare se paragonata a quella delle denominazioni protestanti. La maggioranza dei giudici della Corte suprema è cattolica, e fra i massimi magistrati non è rimasto nemmeno un protestante. Certo, il trend popolare – ma anche nella Corte, vedi alla voce Sonia Sotomayor – è sostenuto dalla presenza ispanica crescente, ma questo è il volto emergente dell’America, non una grossa novità per un paese di immigrati. Altrettanto vero è che il messaggio della chiesa fatica a fare presa sulla generazione dei millennials, ma del resto quale messaggio sostanziale non fatica ad affermarsi fra i giovani? (La responsabilità della generazione dei padri è tema transconfessionale e a suo modo ciclico, oggetto di lamentazioni perenni).
Joseph Bottum, cattolico, conservatore ed ex direttore della rivista interconfessionale First Things, ha scritto un libro – presto in uscita in America – in cui spiega i tratti della “Catholic Awakening”: la chiesa universale ha riempito gli interstizi di un universo protestante spezzato in decine di denominazioni incompatibili fra loro. Se non è una primavera cristiana, certamente il futuro della chiesa in America non è l’inverno descritto dalle lamentazioni colte e popolari.
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