Il Concilio restituito alla Chiesa di Stefano Fontana
In questo testo Fontana, direttore dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa e del settimanale diocesano di Trieste “Vita nuova”, veste i panni di un semplice fedele, scevro da ogni intenzione teologica o storica.
«Questo fedele qualunque sono io stesso, siamo noi che abbiamo vissuto quest’epoca senza ricoprire una cattedra universitaria pontificia, senza esserci letti tutti i cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II curati da Giuseppe Alberigo, senza aver frequentato Romano Amerio autore del famoso Iota Unum, senza aver partecipato a Convegni e Congressi sul Vaticano II, innumerevoli in questi decenni e ancor più nell’Anno della Fede proclamato da Benedetto XVI e che coincide con il 50mo anniversario dell’apertura del Vaticano II l’11 ottobre 1962» (p. 14).
Dapprima l’autore stende i ricordi di un’infanzia vissuta in una realtà tutta cattolica, quando i bambini venivano educati da suore e preti con talare; quando il sacerdote era rivolto verso Dio per compiere il Santo Sacrificio dell’altare; quando la particola veniva presa in ginocchio e in bocca e non si doveva assolutamente masticare; quando bisognava essere digiuni dalla mezzanotte per comunicarsi. «Tutte queste cose finirono con il Concilio. Il nostro fedele qualunque non sa bene dire se finirono a causa del Concilio o se erano già esaurite e il Concilio volesse rimediare a questo loro esaurimento. Il collegamento però tra Concilio e fine di un’epoca è molto chiaro nella sua mente» (p. 17).
Non sono le lacrime lamentevoli di chi ha nostalgie per un passato che non ritorna più, è lo smarrimento intelligente di chi si rende conto che è stato sottratto, all’improvviso e con una nuova pastorale, un insegnamento perenne che nutriva le anime e indicava loro come giungere alla salvezza, con armonia e senza schizofrenie. È la voce della fede che dall’interno del credente reclama una coerenza di principi e vuole comprendere perché, ad un certo punto, durante la santa Messa si pregava Gandhi o Martin Luther King, si ascoltavano le note dei Pink Floyd durante l’elevazione e perché si iniziò a fare catechismo sulla base delle canzoni di Fabrizio De André o di Giorgio Gaber.
L’autore propone questa sua riflessione sul Concilio Vaticano II con intenti risolutivi, sforzandosi di incanalare il Concilio nel discorso di “giusta interpretazione”, dentro la linea dell’ «ermeneutica della riforma nella continuità», indicata da Benedetto XVI. Ma l’impresa è ardua, come ammette lo stesso direttore di “Vita nuova” e noi, aggiungiamo, è proprio impossibile, poiché non è sufficiente una giusta interpretazione conciliare: per risolvere realisticamente i problemi è necessario individuare i nodi nei documenti e sgarbugliarli, soltanto così il Concilio sarà restituito alla Chiesa.
Fontana cerca di trovare un rimedio perché sente tutto il peso di una voragine che si è aperta e slabbrata in questi 50 anni di frutti conciliari. È evidente che ci sia una presa d’atto, senza ipocrisie e annebbiamenti, delle discontinuità fra un prima e un dopo Concilio; egli, così, si pone di fronte ad un orizzonte dai lineamenti incerti e confusi e, in ultima analisi, la sua speranza è riposta, come in ogni buon fedele, nell’intervento della Provvidenza, in grado di risolve errori e divisioni anche, e a maggior ragione, all’interno della Chiesa di cui Cristo solo è il Capo e il Fondatore. (Cristina Siccardi)
http://www.corrispondenzaromana.it/il-concilio-restituito-alla-chiesa-di-stefano-fontana/
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