ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 17 giugno 2013

I discorsi da pastore (e non da teologo) di Papa Francesco

di Satiricus
La Chiesa Cattolica in questo momento ha due pontefici. Uno chiuso in convento a pregare, come Maria. L'altro che opera, come Marta, e da Santa Marta pressoché ogni giorno ci rivolge qualche buon pensiero con tono da pastore più che da dottore.
Non fraintendetemi: ho sempre preferito Marta a Maria, per cui sto facendo omaggio al Papa regnante.

Fatto sta che da santa Marta, questo Papa certamente capace di parole e posizioni forti e scomode, ogni tanto indulge a espressioni quantomeno opinabili. So che in molti cattolici non amano questa mia facilità a mettere in questione il Papa. Ma io non metto in questione il Papa, bensì eventuali suoi gesti o espressioni oggettivamente opinabili. E vado avanti sereno. Pieno di amore per il Papa, ma anche per la mia coscienza (come ripetuto a suo tempo da Benedetto XVI). Senza irrigidirmi, e sapendo che il nostro rapporto di filiale devozione al Principe bianco vive di una continua circolarità tra obbedienza e critica, una circolarità fruttuosa di cui l'obbedienza rappresenta gli estremi, mentre la critica ne incentiva l'evoluzione.

La critica di oggi la formulo nel modo più costruttivo possibile. Non si intende accusare il Papa, ma fornire una chiave di lettura indicativa ai suoi discorsi, specialmente ai suoi discorsi in pastoralese-spinto a Santa Marta. Mi riferisco dunque ai discorsi e non ai gesti liturgici (dei quali ho già scritto QUI).

Un esempio fresco:
Ché dunque? Adesso il bene non viene più dalla verità?
O ancora:
E pure:
Che invece stona con la celebrazione sobria del Cinquantennio conciliare tessuta da Benedetto XVI lo scorso 11 Ottobre. Non solo, ma quadra poco anche con la presunta maturazione del Popolo di Dio, sovente più mite solo perché più relativista, e non di rado "chiuso" come ieri però in riferimento a nuovi settori.



Che dunque? Opporremo un Papa all'altro? Selezioneremo i discorsi che ci piacciono, facendo spallucce ai restanti? No. Ma non berremo neppure acriticamente qualsiasi frase, ponendola ingenuamente allo stesso livello di qualsivoglia intervento magisteriale.
Mi pare plausibile assumere il seguente criterio, posto il quale la nostra devozione al pontefice potrà esprimersi nel modo più genuino e maturo e possibile:

Benedetto XVI è stato il Papa teologo. Questo significa che i suoi discorsi andavano minuziosamente interpretati, parola per parola, alla luce dei più aggiornati manuali teologici contemporanei. D'altra parte lui stesso si è sovente servito della consulenza di periti teologici tra i più quotati. I suoi interventi venivano a toccare questioni di raro interesse e strategicità culturale, allo snodo di questioni coltissime e tormentate. Per questo, comprensibilmente, è stato amato ma compreso poco dal popolo. Per questo ha lasciato un'eredità puntuale, micidiale e adamantina a favore dei suoi successori.

Francesco è un Papa pastore. Questo significa che i suoi discorsi vanno interpretati a senso. Ma il senso non è arbitrario: è il senso che si confa al tipo di contesto e uditorio, nonché allo stile personale di chi parla, però letto in continuità con la sua testimonianza esistenziale. La testimonianza di Francesco è quella di un uomo fedelissimo alla Chiesa, rigoroso con se stesso, audace ma mai traditore. Il suo stile personale è informale, popolare, a braccio, intento a raggiungere anche emotivamente l'uditorio, più che a centellinare le sillabe e i riferimenti – in questo senso è grottesco cercare chissà quali riferimenti teologico-polemici nelle sue espressioni accorate –. Il contesto è quello dell'oralità, da lui assunta qua talis (Benedetto XVI è sempre stato invece un uomo dello scritto, anche quando parlava leggeva). L'uditorio è quello popolare: non nel senso che non parli ai livelli più alti, ma nel senso che in ogni caso sembra rivolgersi al cuore dei suoi interlocutori. Quasi intendendo – e in ciò persino un razionalista benedettiano come il sottoscritto gli rende lode e merito – che, al di là di debite puntualizzazioni accademiche (in sé necessarie), urge un risveglio e una purificazione delle emozioni, le quali saranno poi capaci di pilotare al meglio le buone idee.

Non ha torto. Se il cuore è cupo, persino le migliori convinzioni, persino quelle dei primi discepoli di Gesù, possono non dare frutto debito.
Per questo – torno così al primo dei tre esempi franceschiani su citati – urge purificare il cuore. Francesco lo sta facendo. E anche grazie a questo suo servizio, saremo in futuro capaci di attuare al massimo della possibilità l'eredità teologica donataci da Benedetto XVI.

La loquela del papa in Santa Marta. Perplessità e problemi.


Mi sono imbattuta in questo scritto del cardinal Siri, che mi offre lo spunto per il discorso successivo:
“Eccoci ad un punto grave: i mezzi di propaganda generalmente non diffondono idee; iniettano solo e con persistenza stati d’animo. Gli stati d’animo entrano in tutti e non hanno bisogno di cultura per forzare la porta. Ma quando sono entrati fermentano, si riesprimono a poco a poco in idee subcoscienti… Quelle idee sono tali da dare una fisionomia al proprio orientamento mentale e ad indicare ad un uomo dove si debba inquadrare come metodo di vita e criterio di azione. La tecnica dello stato d’animo oggi governa il mondo e francamente non so cosa pensare di un mondo che è arrivato al punto di farsi governare soprattutto dalla tecnica dello stato d’animo” (Non per noi Signore Lettere pastorali, Editore Stringa, Genova 1971, vol. I, pag. 241).
Queste parole descrivono l'humus della moderna teologia in dialogo col 'mondo' (basta ricordare Rahner, De Lubac e le nutrite correnti alimentate dal loro pensiero), che hanno trasformato gli 'stati d'animo', il sentimentalismo, in teologia al passo con i tempi, che non solo ha alimentato, ma ha preso il posto del Magistero, spodestando la conoscenza e l'insegnamento dogmatico, certo e definitorio, orientante e fondante. Ed ecco il dogma liquidato e contrabbandato come ingabbiante fissismo, rifiutandone il rigore, colto sotto l'aspetto del rigorismo perché non se ne riconosce più la saporosa sapienza che si svela progressivamente ad ogni credente e nutre la sua fede viva. Per averne conferma basta ripercorrere il discorso di Benedetto XVI del 14 febbraio e prendere atto del blitz dell"Alleanza renana" e delle esplicitate motivazioni. [di altri passaggi del discorso, che tocca diversi punti ed è più rivelativo di quanto si potesse mai immaginare, abbiamo un po' parlato qui - e anche qui]
La tendenza, sostanzialmente attribuibile alla Nouvelle Théologie, in atto già prima del Concilio Vaticano II, durante il suo svolgimento ne ha orientato le innovazioni [vedi Mons. Gherardini]. Sono esse che, nelle applicazioni successive, hanno inquinato l'ortodossia cattolica. Il rischio era stato già circoscritto e smascherato da Pio XII con l'enciclica Humani generis; ma lo svolgersi degli eventi che ancora stiamo subendo ci ha mostrato come quegli avvertimenti solenni siano caduti nel nulla, al pari del bastione antimodernista sapientemente lanciato da Pio X con la Pascendi.

Prima e devastante conseguenza sono state le innovazioni liturgiche della Riforma di Paolo VI; ma non possiamo ignorare che esse nascono da un impianto teologico innovativo, fumosamente mimetico attraverso un linguaggio ambiguo e pieno di sofismi, mascherato dalle disseminate dichiarazioni, mai dimostrate, di fedeltà alla Tradizione. Rispetto agli indomiti ed inarrestabili araldi dell'innovazione, molte capziosità del nuovo impianto teologico sono state immediatamente identificate, decriptate e corrette sia pur da pochi (Amerio, Ottaviani e Bacci, Siri, Spadafora, Gherardini ed altri), silenziati e sottoposti ad una damnatio memoriae tuttora difficile da rimuovere. Di queste vigili sentinelle, tuttavia, in diversi hanno oggi raccolto il testimone (compresa più modestamente la scrivente) per poterlo passare alle generazioni che verranno. 

Registro al riguardo un'affermazione di un altro studioso serio ed efficace come Paolo Pasqualucci   (del quale nel blog sono disponibili alcuni testi, rintracciabili digitando il suo nome nella stringa di ricerca) ripresa da Piero Vassallo: « “Ci si sforza di scoprire le ragioni della negazione di Dio che si nascondono nella mente degli atei… ritenendo che esse debbano meritare un esame più serio e più profondo”… ma al seguito si sviluppa un ragionamento equivoco capzioso, che suggerisce l'idea di un'umanità ferita dal peccato originale solo di striscio... Nella penombra si delinea la struttura oscillante e ambigua dei documenti conciliari, che dichiarano un'inconcussa fedeltà alla tradizione mentre fanno scivolare fra le righe frammenti che alludono a un'opposta dottrina ».

Ed ecco spiegato, alle sue radici, il fatto che "tutti possono fare il bene" e dunque la "salvezza per tutti" senza la mediazione di Cristo e della Sua Chiesa predicata urbi et orbi da papa Bergoglio. Tra le varie 'perle' di cristianesimo in pillole dispensate ogni giorno, egli ha detto il 1° giugno a Santa Marta:
«Invece ogni uomo non solo può, ma deve fare del bene, qualunque fede professi, perché «ha in sé il comandamento di fare il bene» in quanto «creato a immagine di Dio». Il brano del vangelo di Marco (9, 38-40) proclamato durante la messa riferisce la lamentela dei discepoli per una persona che faceva del bene ma non era del loro gruppo
Si dà il caso che, nel Vangelo di Marco, le persone cui si riferiscono i discepoli scacciavano i demoni, ma sempre nel Nome del Signore, il quale tra l'altro dice "chi non è contro di me è con me". Crediamo si possa dire la stessa cosa del 'mondo' nonché degli ebrei e degli islamici, degli induisti che anch'essi perseguitano i cristiani e distruggono Chiese, ad esempio? Essi sono forse "con Lui"? Ma il Papa dice ancora:
Gesù li corregge: Non glielo impedite, lasciate che lui faccia il bene. I discepoli senza pensare, volevano chiudersi intorno a un’idea: soltanto noi possiamo fare il bene, perché noi abbiamo la verità. E tutti quelli che non hanno la verità non possono fare il bene» ha puntualizzato il Pontefice.
Il discorso non sta in questi termini: chi fa il bene in Nome di Cristo la Verità ce l'ha, eccome! Altrimenti che bene sarebbe? Si tratterebbe di "opere della legge", coerenti con una coscienza retta, che non salvano nessuno, tranne - davanti a Dio - chi le pratica senza conoscere il Signore : Umanitarismo, che soccorre le contingenze, non dono di sé in Cristo, che va in profondità e sana il male alla radice. E la differenza non andrebbe oltrepassata, ma specificata.
La Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo, ed essa possiede la Verità, la custodisce e la trasmette. Dunque, non solo non ha bisogno di cercarla insieme agli altri, ma il fatto che ne è portatrice fa la differenza. Ed è questa differenza il cuore della nostra fede.
Continua il Papa:
Ma qual è la radice di questa possibilità che appartiene a tutti gli uomini? «Io penso che sia proprio nella creazione» ha risposto il Papa: «Il Signore ci ha creati a sua immagine», e se «lui fa il bene, tutti noi abbiamo nel cuore questo comandamento: Fai il bene e non fare il male. Tutti». E davanti «a chi dice: Ma padre, questo non è cattolico, non può fare il bene, rispondiamo: Sì può farlo, deve farlo; non può ma deve, perché ha questo comandamento dentro», nel suo cuore.
Pensare che non tutti possono fare del bene è una chiusura, « un muro — ha sottolineato il Santo Padre — che ci porta alla guerra » e « a quello che alcuni hanno pensato nella storia: uccidere in nome di Dio. Noi possiamo uccidere in nome di Dio ». Infatti, « dire che si può uccidere in nome di Dio è una bestemmia ». Il Signore ha redento tutti con il sangue di Cristo, « tutti, non soltanto i cattolici. Tutti » ha ricordato il vescovo di Roma. E gli atei? « Anche loro, tutti. È questo sangue che ci fa figli di Dio ». Ecco perché « tutti noi abbiamo il dovere di fare il bene ».
Mentre bisogna in primo luogo distinguere la differenza tra un generico "fare il bene" e le "opere della Fede" che caratterizzano il cristiano,  mi sembra che qui il papa non tenga conto del peccato originale e nemmeno dell'inclinazione al male, che rimane pur dopo il Battesimo e ha bisogno della grazia di Cristo nella sua Chiesa per essere vinta. E non mi pare che ciò possa darsi per scontato, come scontate potrebbero essere ipotizzate alcune sue omissioni in altre occasioni. In questo caso ha pronunciato frasi nette e non equivocabili.
Infatti, quanto a "fare il bene", se è un dovere sancito dalla legge naturale, nel cristiano è reso possibile in quanto frutto della legge non più data, come a Mosè, ma della grazia e della verità venuta (Gv, Prologo 17) e scritta da Cristo Signore nel cuore di ogni credente reso a Lui connaturale dalla sua Grazia nella Chiesa ed ha, come già detto, effetti e conseguenze ben diverse.
Il discorso dell'Incarnazione, della creaturalità condivisa con tutti gli uomini, ma della chiamata particolare ricevuta in Cristo lo abbiamo approfondito qui: nel sottolineare la differenza tra l'Incarnazione del Verbo e la "carne" dei poveri, che non sono il Vangelo, perché la Buona Notizia non sono "i poveri" ma il Signore e ciò che Egli ha fatto e fa e farà per noi. E che vuol fare attraverso i "Suoi" fino alla fine dei tempi.

Di fatto quelle del papa sono parole che non rispecchiano altro che l'ambigua cristologia della redenzione universale: la redenzione operata da Cristo agisce in automatico, salva tutti anche senza necessità di accoglierla nella Sua Chiesa... E come la mettiamo col Vangelo di Giovanni: "... a quanti però [contrapposizione con chi lo ha rifiutato e lo rifiuta] lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati." (Prologo 12-15), con due millenni di Magistero, ma soprattutto col cuore della nostra Fede?

Già Mons.Brunero Gherardini ed anche Mons.Athanasius Schneider, rivolgendosi a Benedetto XVI, non chiedevano l'irrealistica sconfessione del concilio ma la sua effettiva lettura in continuità, non solo proclamata ma dimostrata, recuperando quei principi fondanti che gli estensori dei documenti conciliari - alcuni dei quali sono stati anche i loro applicatori - hanno reso ambigui e dunque suscettibili di interpretazioni diverse o addirittura veicolo di dottrine divergenti. Così ne parlano anche p. Serafino Lanzetta FI e il Prof. Roberto De Mattei. A noi non resta che continuare a vigilare e pregare.

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