ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 13 ottobre 2013

Far from Christ

Un Papa senza distanza

L’immagine proiettata da Francesco è bella come la pampa e rigogliosa come la foresta amazzonica, ma nel suo speciale effetto c’è un difetto: c’è lui, Bergoglio, e c’è l’io della massa, ma Dio sembra spesso da un’altra parte

Caro direttore, l’estate mia mamma diventa più loquace del solito, il suo gusto per la battuta tagliente, tipico di Cabras, diventa ancor più acuminato. Così, quando una mattina di fine luglio Papa Francesco è comparso di fronte alla tv e lei, quasi registrandone le movenze, ha scolpito un lapidario “sembra un prete di paese”, sono rimasto folgorato da un apprezzamento sincero che però aveva anche un sottotesto. Alla mia domanda a bruciapelo “cosa non ti convince?”, Peppica ha risposto: “Manca la distanza. Quella del Santo Padre, l’uomo più vicino a Dio”.
Sono un ragazzo di paese, nuragicamente secolarizzato, e a certe cose do ancora grande importanza. Le mie missioni speleologiche nella grotta della fede erano cominciate fin da ragazzino, con mia nonna. Desolina era credente ma non le piacevano i preti, mi confessò, orgogliosa, di aver votato “la falce e il martello”, non andava mai a messa, men che meno era presente ai funerali delle sue amiche e sul suo ultimo viaggio al camposanto – arrivato con calma – soleva dire: “Ho già comprato la bara”. Un pragmatismo lugubre che anticipava l’aldilà stando ben al di qua del portone della basilica di Santa Maria. Portò sempre una lunga ramata chioma intrecciata e la mossa le riuscì per quasi cent’anni.
Finita l’estate, passato settembre, al galoppo ottobre, quella parola, distanza, è rimasta a pulsare in valigia, mentre tutto “il nuovo” del Pontefice diventava un “finalmente!” ideologico intonato a colazione, pranzo e cena, da quelli che “ora la chiesa è il progresso e voi non potete abbracciarlo, perché questo Papa è nostro e non vostro”. Improvvisamente, mi sono sentito uno straniero in casa di terzomondisti e progressisti-mai-stati-comunisti che avevano trovato un loro santino, Francesco, da mettere in auto al posto di Padre Pio. Poi, tra scismi e -ismi, un caffè e un cannolo, un giorno si è messo in mezzo Pietrangelo Buttafuoco che m’ha appuntato sul taccuino il passo di una conversazione di Domenico Porzio con Leonardo Sciascia: “Se le messe fossero ancora in latino, il Papa non avrebbe oggi il problema delle chiese vuote”.
Apro la valigia, la parola distanza sembra kryptonite. E decido di seguire la traccia di Buttafuoco, un sassolino di Pollicino, e vado a cercare qualche risposta là dove si suppone ve ne sia un barlume di candela, in chiesa.
La distanza, dunque. Una passeggiata romana a Campo Marzio mi rivela ciò che tende all’inafferrabile. Entro in casa dei gesuiti, ordine di Papa Francesco, nella chiesa di Sant’Ignazio. Sulla volta c’è un gigantesco affresco di Andrea Pozzo. Sul pavimento della navata due dischi indicano i punti precisi nei quali sostare per alzare gli occhi e godere lo spettacolo de “La Gloria di Sant’Ignazio”. E’ da quel “segnaposto” reale che bisogna sollevare lo sguardo per cogliere in pieno la scena virtuale di Gesù che illumina con un raggio il cuore di Sant’Ignazio. La luce di Cristo, abbracciato alla croce, la fede che illumina lo spirito e guida l’azione.
La Gloria di Sant’Ignazio ci dice molte cose sulla chiesa e sul fondatore dei Gesuiti, sulla missione nel mondo della Compagnia, sul suo essere ultra e terrena nello stesso tempo, ma sempre mantenendo una ricercata distanza.
E’ un’ascesi pittorica che decolla grazie al dinamismo della visione, la sacra rappresentazione di quello che stiamo cercando, la distanza. E’ un mondo che non puoi toccare, ma incontrare; non lo afferri, ma lo contempli; non lo raggiungi, ma lo senti. Osservando quest’opera nel dettaglio e nel suo insieme si coglie il significato di cosa intendesse Friedrich Nietzsche per “pathos della distanza”.
Così spiegò la sua opera Andrea Pozzo: “La mia idea di questa pittura fu di rappresentare le opere di S. Ignazio, e della Compagnia di Gesù in dilatare per il Mondo la Fede Cristiana. In primo luogo abbracciai tutta la volta con un Edifizio in Prospettiva. Poi in mezzo ad esso dipinsi le tre Persone della Santissima Trinità; dal petto di una delle quali, cioè del Figlio Umanato esce un nembo di raggi che va a ferire il cuore di S. Ignazio, e quindi il riflesso si sparge per le quattro parti del Mondo dipinte in sembianza di Amazzoni, che premono il dorso di mostri feroci, cioè dei Vizj, da quali erano state tiranneggiate”.
La Gloria di Sant’Ignazio è sublime e profonda perché è un esempio dell’uso e della necessità della distanza, è l’artificio tridimensionale (perfino la cupola è un illusionismo pittorico), è la prospettiva che diventa ascesi, la perfezione.
Esco dalla chiesa di Sant’Ignazio, travolto da serpentoni di turisti con bandierina d’ordinanza in testa, e la domanda diventa ancora più urgente: com’è la rappresentazione di Papa Francesco? E’ bella come la pampa e rigogliosa come la foresta amazzonica, ma nel suo speciale effetto forse c’è anche il difetto: è così terrestre da esser priva di distanza. C’è lui, Bergoglio, e c’è l’io della massa, ma Dio sembra spesso essere da un’altra parte. Quello di Papa Francesco è un plot che deraglia inevitabilmente in un’altra storia, una narrazione che funziona quando si usa la metafora “dell’ospedale da campo”, un’immagine in pixel che fa audience gioiosa, una versione che non pare tramutarsi in conversione, un festival dove il “cristiano da pasticceria” e l’ateo devoto diventano consumatori e acquirenti di una zuccherosa indulgenza, cercatori di assoluzioni per le loro (ri)conosciute debolezze. Il peccato rimesso senza chiedere “il non ci indurre in tentazione” perché il “liberaci dal male” sarà l’esito certo di un “chi sono io per giudicare?”.
Tutto avviene senza lacerarsi troppo l’anima, in assenza di pathos, dentro un gioco di sacra mondanità perennemente al rialzo. E’ un ri-trovarsi dall’atmosfera woodstockiana, la schitarrata in maxischermo della trasformazione della Santa Romana Chiesa in una Onlus di prossimità, istituzione di moderato sacro e deregulation teologica, luogo fisico dalla timida e incerta metasifica, spazio liquido dove non c’è più alcuna distanza.
I bagni di folla, l’uso dei media vecchi e nuovi, c’erano con Wojtyla e anche con Ratzinger, il conto delle teste in piazza è antico come il papato e la generazione dei Pontifex elettronici viene da lontano, ma inedito è l’ammorbidimento della parabola, l’accesso diretto al corpo e alla parola, la smaterializzazione della figura ieratica, il dissolvimento in bit e pixel del sacro. Si passa da Tolomeo a Copernico, da Galileo Galilei a Giordano Bruno, mentre il bosone diventa Dio, il software della chiesa migra su un server relativista, dal nessun dorma si arriva al nessun dogma con una telefonata da reality show dove “il Papa è la tua voce”, riduzione teatrale di un seducente one to one dove s’ode la cavalleria corazzata del totem digitale, nuovo Dio che surfa in rete tra le anime, cavalcando un sottotesto di connessione e banda larga, “mi piace”, twittata in cappella, battesimo su Instagram, comunione su WhatsApp, googlizzazione della lettura biblica e hangout della messa, mentre in cucina arriva l’urlo dei parvoli che in salotto giocano con la Wii: “Mammaaaa, siamo alla decima schermata di SuperMario, butta la pasta!”. Oh, certo, nei miei ricordi di bambino c’è nitida la domenica mattina con un clangore di padelle e Paolo VI che parla alla radio, ma qui siamo oltre la modulazione di frequenza, siamo al mezzo che finisce davvero per essere il messaggio, alla fede come stato su Facebook, “relazione complicata” e lettura dal vangelo secondo Zuckerberg, un’apoteosi di clic, play e on air che sembra destinata a consegnare alla cronaca un Papa pronto a collegarsi in chat con Fabio Volo e Jovanotti.
E’ l’annullamento della distanza che si fa real time tv, il topos del cinema americano con l’elicottero che riprende l’evento da pericolo imminente, l’auto del Papa circondata dai fan (che non sono per forza fedeli) per le vie di Rio de Janeiro. Suspence. Sollievo. Spettacolo. Picco d’ascolto di una teologia che non ha bisogno di liberazione perché si disfa del sacro e diventa rappresentazione di un umano, troppo umano che diventa elemento confuso nella “cultura di massa”. Eppure Bergoglio resta un uomo destinato a essere “Sua Santità” anche contro la sua volontà.
Chiedo soccorso a un’epifania di Ennio Flaiano. Prendo dallo scaffale “Diario Notturno” e vado al racconto “Un marziano a Roma”, pagina 277.
5 novembre
Il marziano è stato ricevuto dal Papa. Ne dà notizia l’Osservatore Romano, senza tuttavia pubblicare fotografie, nella sua rubrica “Nostre Informazioni”. In questa rubrica, com’è noto, vengono segnati per ordine di importanza i nomi delle persone che il Santo Padre ha acconsentito a ricevere in udienza privata. Il marziano è tra gli ultimi e così nominato: il signor Kunt, di Marte.
Il genio beffardo e triste, sregolato e tradizionale di uno scrittore come Flaiano ci ricorda che il Papa non perde la sua “regalità” neppure di fronte all’evento eccezionale di un marziano atterrato a Roma su una navicella cromata. Il passo del racconto ci suggerisce che sì, quell’essere viene da Marte, ma per il Papa quella è una visita come un’altra perché il Pontefice amministra in terra il Regno dei Cieli, cioè l’intero Universo! Con sottile perfidia Flaiano evoca la prudenza del Papa che mette l’extraterrestre davanti all’incontestabile fatto di essere la guida scelta dallo Spirito Santo, l’ultraterreno è lui, il Papa, non l’alieno.
Obiezione: il Papa non è re. Risposta: il Papa è re. Non solo è il capo infallibile della chiesa, ma è il sovrano dello stato di Città del Vaticano, detentore assoluto dei tre poteri terreni: legislativo, esecutivo e giudiziario. Il Papa è regale.
L’11 dicembre del 1925 Pio XI promulgò l’enciclica “Quas Primas” sulla regalità di Gesù. La rilettura di questo documento oggi è istruttiva. Vi (ri)troviamo il regno: “I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare”. E un passaggio premonitore: “La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi”. E’ proprio la regalità del Cristo a illuminare il primato del Papa che, ancora una volta, si rafforza e moltiplica grazie alla distanza del sovrano.
E’ uno spazio vuoto – quello tra i fedeli e il Papa, tra i sudditi e i principi – che si riempie magicamente di soprannaturale. Su questo tema Marc Bloch scrisse nel 1924 (ancora un testo ricco di presagi che viene dall’inizio del Ventesimo secolo) “I Re Taumaturghi”, un saggio storico sui sovrani francesi che imponendo le mani e recitando la formula “il re ti tocca, Dio ti guarisca” facevano miracoli. Credenza. E’ la distanza uno degli elementi del sacro nel sovrano e quando essa si annulla o banalizza comincia un processo di disgregazione, un fenomeno che Jacques Le Goff nella prefazione al libro di Bloch descrive così: “Il miracolo esiste a partire dal momento in cui ci si può credere, e tramonta e poi sparisce quando non ci si può più credere”.
Non è una questione di ieraticità, di incedere severo o di apparire composto, di ostentata scenografia sacerdotale, perché la drammaturgia forzata del sacro annulla anch’essa la distanza, la scaraventa brutalmente nell’indesiderato, nello sconosciuto che non attrae. E’ la storia di un desiderio intimo dell’uomo. La chiesa è come la madre, sensuale, carnale, bramata e amata, ma la realizzazione di questo miracolo, è un gioco dalle delicate “regole dell’attrazione”. E’ lo stesso Papa Bergoglio a darcene la prova nella sua intervista alla Civiltà Cattolica quando ricorda la poesia di García Lorca, “La sposa infedele”: “E io che me la portai al fiume / credendo che fosse ragazza, / e invece aveva marito”. Il Papa cita quei versi e si trasforma in materiale per Pietro Metastasio: “Voce dal sen fuggita / Poi richiamar non vale; / Non si trattien lo strale / Quando dall’arco uscì”.
Ma i versi di García Lorca conducono ben oltre, cantano la delusione dell’uomo che si comporta “da gitano”, compie il suo “dovere”, si inebria di bellezza, ma la sua storia è avvolta in un velo nero di sensismo derubato del soprannaturale, è il de profundis dell’innamoramento perché quell’uomo è amante senza essere amato, è il tradito dalla bugia di lei che ha marito e non può essere solo per lui, pronto a esserle fedele. Il desiderio si consuma lestamente, al cospetto di una verginità che si rivela illusoria e il mistero evapora nella notte che si fa amara. L’attrazione – ancora una volta – finisce quando s’annulla la distanza e si rivela la finzione.
I dubbi non finiscono. Esco a passeggio, mi concedo un momento da flâneur in una Roma così mite da apparire quel che non è mai stata: arrendevole come un’amante smagata. Passo vicino alla catacomba di Priscilla, mi soffermo a guardare l’ingresso del convento delle Benedettine. Là, nel soffitto di una nicchia, è custodita la più antica raffigurazione di Maria. Rumino pensieri, il tarlo lavora: “E’ il segno dei tempi?”. Ritorno a casa all’imbrunire, vado a cercare tra i miei libri. Eccolo, il libro di Edgar Morin, scritto nel 1962, leggo: “La religione dispone dei pascoli del cielo; la sua potenza si leva là dove si dissolve la cultura di massa: alle porte dell’angoscia e della morte”. I pascoli, il gregge, il buon pastore.
E’ così, caro direttore, che torno sui passi da dove ero partito, a Campo Marzio. Alzo di nuovo lo sguardo sulla volta. Qui ritrovo i “pascoli celesti” dipinti da Andrea Pozzo nella Gloria di Sant’Ignazio. Sono i sentieri di una chiesa che cammina tra gli uomini, senza annullare il mistero della fede, l’elemento sopra e naturale, la distanza.
di Mario Sechi

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.