l 22 dicembre 2005, otto mesi dopo la sua elezione, Benedetto XVI, presentando gli auguri natalizi, pronunciò un discorso di una certa importanza, che toccò alcuni punti essenziali del momento. Da allora quel discorso, per il suo contenuto, è stato considerato il discorso programmatico del nuovo Papa. Il 19 settembre scorso, il quotidiano della CEI, Avvenire, ha pubblicato il testo integrale dell'intervista del Direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, a Papa Francesco. L’intervista, condotta anche per conto delle altre testate della Compagnia di Gesù, è stata raccolta dal 19 al 23 agosto 2013, in quel di Santa Marta, albergo vaticano in cui alloggia il nuovo Papa. Nonostante la sua complessiva pochezza e la sua evidente povertà concettuale, questa intervista, pubblicata sei mesi dopo l’elezione di Bergoglio, si presenta come l’equivalente del discorso alla Curia di Benedetto XVI, poiché, per i punti che tocca, delinea con chiarezza il pensare e il sentire di questo nuovo Papa e, quindi, la linea direttrice del suo pontificato. L’intervistatore chiarisce che « Complessivamente abbiamo dialogato per oltre sei ore, nel corso di tre appuntamenti il 19, il 23 e il 29 agosto. Qui ho preferito articolare il discorso senza segnalare gli stacchi per non perdere la continuità. La nostra è stata in realtà una conversazione più che un’intervista…». Dal che si può dedurre che non si possa escludere una futura pubblicazione più corposa e particolareggiata di quanto oggi pubblicato, magari distribuita a mo’ di precisazioni correttive, che non guastano mai per esprimere il contorsionismo e la doppiezza dei moderni comunicatori di massa. Confessiamo che se non fosse per diversi punti particolarmente critici di questa intervista, siamo stati tentati di cestinarla, tanto è intrisa di luoghi comuni e di slogan più o meno articolati, ma siamo stati costretti a prenderla in debita considerazione per il semplice motivo che essa contiene così tante dichiarazioni anticattoliche che ci si chiede se è stato davvero un papa a profferirle. Il merito di tali dichiarazioni, peraltro, ci ha indotti a considerare che esse devono rappresentare, non solo ciò che pensa e crede Bergoglio, ma anche ciò che pensano e credono i cardinali che lo hanno eletto, non potendosi supporre che essi fossero all’oscuro dell’indole, del sentire e del credere dell’allora cardinale Bergoglio, noto arcivescovo di Buenos Aires. Anzi, è inevitabile ritenere che essi lo abbiano eletto proprio per queste sue caratteristiche, condividendole, approvandole e desiderando che fossero quelle del nuovo Papa e della nuova Chiesa che avevano e che hanno in mente. Per questi motivi abbiamo ritenuto che fosse più proficuo presentare le seguenti riflessioni distribuite in più parti, per permettere ai lettori di considerarle con una certa ponderatezza, non tanto per quello che scriviamo noi, quanto per quello che ha detto Papa Bergoglio. Seguiamo il testo pubblicato su Avvenire e incominciamo con la presentazione di padre Spadaro. |
Che cosa ha realizzato il Concilio Vaticano II? Che cosa è stato?
«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».
Una risposta relativamente breve, ma densa di indicazioni ben precise, la prima delle quali la deduce subito lo stesso intervistatore, scrivendo: “Ho invece come l’impressione che il Papa semplicemente consideri il Concilio come un fatto talmente indiscutibile che non vale la pena parlarne troppo a lungo, come per doverne ribadire l’importanza.”Nessuna meraviglia, quindi, che Bergoglio sia così conciso e sbrigativo, pur trattando di questioni che è da cinquant’anni che assillano i fedeli e che vengono considerate unanimemente come alla base della tremenda crisi che affligge la Chiesa.
Fin dall’inizio, Bergoglio rivela, con apprezzabile onestà, che ha chiara la chiave di lettura del Vaticamo II: “Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea”.
Chi parla è colui che dovrebbe essere il successore di Pietro, colui che dovrebbe confermare i suoi fratelli; giustamente il Signore Gesù aveva già ammonito Pietro:
“e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc. 22, 32); “una volta ravveduto”, dice il Signore… quindi non parla di Bergoglio… quindi questi non può confermare i suoi fratelli… per il semplice motivo che si fa portavoce dell’errore!
Attenzione alle parole: “Il Vaticano II è stato”… un punto fermo … che cosa? Un concilio forse?… No, dice Bergoglio, una “rilettura del Vangelo”. Ora, per uomini come i vescovi, che il Vangelo lo hanno letto e riletto, non è possibile intendere il termine “rilettura” come una sorta di ripasso, ragion per cui esso può significare solo “revisione”. E allora la frase va letta così: “il Vaticano II è stato una ‘revisione’ del Vangelo alla luce della cultura contemporanea”: una “revisione” cioè dell’insegnamento di Cristo e della Chiesa: davvero una “nuova pentecoste”! … questa volta con la “p” molto minuscola.
Revisione che era inevitabile, d’altronde, perché si era già realizzato il capovolgimento del principio che regge la Chiesa stessa: non più la cultura che dev’essere informata dalla luce del Vangelo, ma il Vangelo che dev’essere revisionato al buio della cultura contemporanea.
Basterebbe questa sola ammissione per decretare la totale cassazione del Vaticano II, la condanna dei vescovi che vi hanno partecipato, l’anátema per i papi che l’hanno indetto, condotto, avallato, difeso e continuato… Bergoglio compreso.
Tranne che Bergoglio si sia espresso male.
Vediamo.
“Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo.”
Il Vangelo ha rinnovato quanto c’era di vecchio ed ha cauterizzato quanto c’era di marcio al tempo dell’Incarnazione del Figlio di Dio; la degenerazione del mondo richiedeva il raddrizzamento e Nostro Signore lo ha realizzato una volta per tutte e da valere fino alla fine del mondo.Il Vangelo, non ha stabilito il principio del rinnovamento permanente, che in italiano si chiama rivoluzione; non è stato dato agli uomini perché fosse riletto a loro piacimento.
Che poi effettivamente il Vaticano II abbia “prodotto un movimento di rinnovamento”… che “non” viene dallo stesso Vangelo, questo è vero, ed è per questo che la Chiesa è allo sfascio.
“I frutti sono enormi.”
Quali? Potremmo fare un lunghissimo elenco delle perdite e dei disastri in tutti i campi, ma ce ne asteniamo, perché è da cinquant’anni che se ne parla… solo Bergoglio pare che non ne sia a conoscenza.
“Basta ricordare la liturgia”.
Meglio sarebbe stato se avesse aggiunto “i disastri” della liturgia, ma anche di questo, Bergoglio pare che non ne sappia niente.
“Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta.”
Espressione per certi versi incomprensibile, ma molto rivelatrice a ben riflettere.A parte la “rilettura del Vangelo”, volutamente ripetuta, che conferma, se ce ne fosse stato bisogno, la giustezza della nostra aspra critica, questa volta Bergoglio calca la mano e introduce una sorta di principio di rivoluzione liturgica permanente sia in termini temporali, sia in termini spaziali.
Quando Bergoglio dice: “a partire da una situazione storica concreta”, dice semplicemente che la liturgia dev’essere rivista continuamente “a partire” dai tempi e dai luoghi diversi che determinano una “situazione storica concreta”.
E non ha torto, perché è proprio questo che è accaduto in questi cinquant’anni di post-Concilio:una liturgia sempre cangiante a seconda dei luoghi, delle circostanze, delle esigenze, delle convenienze, delle sensibilità e di ogni altro fattore che fa di oggi una “situazione storica concreta”, diversa da quella di ieri e da quella di domani, e che fa di quella di qua una “situazione storica concreta” diversa da quella di là.
“Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile.”
E qui Bergoglio si contraddice, e si contraddice persino in termini sintattici: non è possibile dire “la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi” e insieme sostenere che essa “è irreversibile”; perché è ovvio che ogni cosa che si attualizza nell’oggi è destinata a durare esattamente lo spazio di quell’“oggi”, per riattualizzarsi prontamente e ineluttabilmente nel nuovo “oggi” che sarà domani. E così via.Questo non è neanche divenire, ma parossismo dell’immanenza! E sottoporre il Vangelo ad un processo siffatto significa avere la presunzione di relativizzare l’immutabilità di Dio. E in questa logica non si può dire che “ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità”, perché può esserci una sola linea: quella della continuità nella discontinuità, come in effetti si verifica da cinquant’anni e come si continuerà a verificare fino a quanto non si azzererà, finalmente, tutto il Vaticano II e tutti i conseguenti “aggiornamenti”.
Con questa dichiarazione di Bergoglio viene meno perfino la problematica della critica e della correzione dei documenti del Concilio, perché si evidenzia che ciò che va criticato e corretto è primariamente l’essenza stessa del Concilio: il che significa che è l’intero Vaticano II che dev’essere cassato, non tanto per questo o per quel documento, ma perché è lo spirito del Concilio che è anticattolico. Altro che post-Concilio ed ermeneutiche varie.
“Poi ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità”.
Considerazione finalmente azzeccata, poiché ciò che ha realizzato veramente “Papa Benedetto”, non è il ripristino del Vetus Ordo, ma il riconoscimento che la liturgia della Chiesa sottostà alla necessità di venire incontro alle “persone che hanno una particolare sensibilità”, siano esse amanti del Vetus Ordo o dell’“ordo anglicano” a dell’“ordo neocatecumenale” o dell’“ordo inculturato”, e così via fino alla conferma di quel parossismo dell’immanenza di cui dicevamo prima.“Papa Benedetto” ha sancito che la liturgia della Chiesa non è ispirata a Dio, ma all’uomo.
“Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione”.
Ed ha ragione Bergoglio, fino al punto che sarebbe stato più esatto parlare di certezza piuttosto che di rischio, poiché la questione del Vetus Ordo non è un elemento accessorio, ma un elemento centrale ed emblematico di quella che si è convenuto chiamare “la battaglia per la vera Fede”: una battaglia per l’affermazione della concezione cattolica contro il tentativo in atto di far trionfare stoltamente una concezione a-cattolica e anti-cattolica.Se questo, per Bergoglio, significa strumentalizzazione e ideologizzazione del Vertus Ordo, ebbene, per una volta ideologizzazione sia! Perché è la salvezza delle anime che lo richiede, perché è proprio usando la battaglia liturgica come una clava che si può sperare di ripristinare l’ordine nella Chiesa di Cristo.
Cercare e trovare Dio in tutte le cose,
ovvero, la concezione immanentista di Dio
Santità, come si fa a cercare e trovare Dio in tutte le cose?
«C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi»
A questo punto ci toccherebbe fare un lungo discorso sull’ecclesiologia cattolica, che non rientrerebbe negli scopi di questo scritto, ci limitiamo quindi a cogliere alcuni elementi importanti di questa risposta.«C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi»
Ora, che Dio vada “incontrato nell’oggi” è un’ovvietà, dato che chi cerca Dio, chi incontra Dio, è l’uomo vivente, che vive solo nell’oggi e oggettivamente non potrebbe vivere né nel passato, né nel futuro. Ma il problema non sta nella ricerca di Dio, sta nell’essenza stessa dell’uomo: l’uomo non ha un’essenza temporale e spaziale a sé stante, ogni uomo è il compendio di tutti gli uomini che lo hanno preceduto; senza il passato da cui trae giustificazione e fondamento, egli è inconsistente, non è più un soggetto, ma un mero prodotto casuale del tempo.
L’uomo è pienamente se stesso quando si riconosce come proiezione del passato che l’ha preceduto, fino alla Creazione, e come aspirazione ad un futuro che si fonda su tale passato e che si risolve nel ritorno all’origine. Parafrasando il monito di Dio: “polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen. 2,19), si potrebbe dire: “da Dio sei venuto e a Dio dovrai tornare”… guai all’uomo che cerca e trova Dio solo nell’oggi!
Diventa succubo di una concezione di Dio che Lo accetta e Lo riconosce solo se “concreto”.
Un Dio “concreto”? Pur con la riserva del … diciamo così?
Ma Dio è Dio, e non è né concreto né astratto; è l’uomo che pretende di misurare tutto in termini sensibili, e quando pretende di misurare così anche Dio, in lui Dio non c’è più: è rimasto solo l’uomo, che è talmente “concreto”, che oggi c’è e domani non c’è più. Tale visione, oltre a distruggere la concezione di Dio, distrugge anche la concezione dell’uomo… come accade oggi in questo mondo moderno distruttore e nichilista.
Ed è inevitabile che Bergoglio, uomo moderno e chierico modernista, critichi la constatazione che definisce “barbaro” questo mondo, e disapprovi il desiderio di un ordine che preservi l’uomo dalla barbarie. Lo chiama “conservazione”, “difesa”, questo desiderio, come se la conservazione non fosse connaturata nell’essenza dell’uomo, e come se non corrispondesse all’esigenza di non perdersi; come se non fosse istintiva e propriamente cattolica, questa difesa nei confronti di un mondo che si industria in tutti i modi per combattere Dio.
Dio va incontrato a prescindere dall’oggi – diciamo noi –: Dio va cercato e incontrato in noi e non nell’oggi che è fuori di noi (cfr. Lc. 17, 20-21).
«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo… Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. … Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove.»
È indubbio che Dio “si manifesta in una rivelazione storica”, ma questo non significa affatto che “Dio si trova nel tempo”, perché una è la “manifestazione”, altra è l’“essenza”: e Dio si manifesta proprio perché è fuori dal tempo, così che, a parte la sua manifestazione, è impossibile trovare Dio nel tempo. Così com’è impossibile trovarlo “nei processi in corso”, perché Dio è fuori dai processi così com’è fuori dal tempo.
Questa confusione tra essenza e collocazione di Dio, da un lato, e il fluire degli avvenimenti, dall’altro, genera inevitabilmente l’errata idea che Dio possa partecipare ai processi della storia e quindi finisca con l’avallarli, tale che i processi della storia sarebbero legittimati e dunque buoni, fino al punto che bisognerebbe “privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove”.
Ma quali dinamiche nuove può privilegiare un cattolico, se non le dinamiche che conducono al Cielo e per ciò stesso sono vecchie e ripetutamente ribadite dall’insegnamento millenario della Chiesa? Cosa sarebbero queste “dinamiche nuove? Tolte quelle accennate, restano solo le dinamiche che trattengono l’uomo nel mondo, facendolo ripiegare su se stesso, e quelle che risucchiano l’uomo nell’inframondo, facendolo precipitare all’Inferno.
«Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio».
A leggere questo passo si prova la sensazione che Bergoglio abbia voluto precisare per non generare equivoci, come quelli nei quali sembra saremmo incorsi noi con le nostre osservazioni immediatamente precedenti. Infatti, qui Bergoglio precisa che non si incontra Dio con metodi empirici: “È necessario un atteggiamento contemplativo”.
Ci saremmo allora sbagliati? Potrebbe essere, se non fosse che la pezza è peggiore del buco. Quale sarebbe l’atteggiamento contemplativo?
Dice Bergoglio: “è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni”.
Cioè?Cos’è la comprensione e l’affetto nei confronti…? Quali sono le cose e le situazioni?
Nella migliore delle ipotesi, qui ci troviamo al cospetto di un invito a disporsi sentimentalmente in maniera benevola nei confronti di tutto quello che ci capita di incontrare, indipendentemente dal valore delle cose e delle situazioni con cui veniamo in contatto. Una sorta di disposizione a considerare buono tutto ciò che accade, tutto ciò che esiste, tutto ciò che compone la nostra esperienza. Come se ci trovassimo in Paradiso. Questo ci ricorda il noto discorso di Giovanni XXIII per l’apertura del Vaticano II, in cui il “Papa buono”, tra le altre cose, afferma:
“Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa.”
Disposizione benevola, quindi, che sottintende una concezione immanentista dell’esistenza, dove il bene si identificherebbe con il mondo e la storia; quindi, basta provare comprensione e affetto nei confronti delle cose e delle situazioni, ed ecco che si incontra Dio in tutte le cose.Lungi da noi il volere apparire “profeti di sventura”, come si lamentava Giovanni XXIII in quel discorso, ma, anche a voler trascurare per un momento il senso del terzo dono che si chiede allo Spirito Santo, il Consiglio, se ci atteniamo al semplice buon senso e osserviamo oggettivamente la realtà che ci circonda, non possiamo evitare di cogliere con facilità che c’è poco da “comprendere” e da trattare con “affetto”, mentre c’è tanto da “capire” e da “discernere”.
Il cattolico non può esimersi dal discernere e quindi non può trascurare che esiste un discernimento carnale attuato secondo i criterii suggeriti dal mondo e un discernimento spirituale attuato dal credente secondo i criterii suggeriti dallo Spirito Santo (cfr. I Cor. 2, 14-15); è il discernimento del credente, secondo la Fede, che permette poi di passare alla comprensione e alla compassione oppure al rigetto e alla condanna, a seconda che “le cose e le situazioni” siano conformi o difformi dal disegno della Divina Provvidenza. E qui torna in giuoco il buon senso cattolico che non dimentica l’importanza di coniugare misericordia e rigore perché si agisca con giustizia.
Chi si dispone all’uso esclusivo della misericordia, trascurando il necessario rigore, non è giusto né nei confronti degli altri, né nei confronti di se stesso; fu da questo funesto errore, propugnato da Giovanni XXIII all’apertura del Vaticano II, che sono scaturite le deviazioni del Concilio, le storture dottrinali, liturgiche e pastorali del post-Concilio e i continui scivoloni di Bergoglio, a tutt’oggi l’ultimo dei papi del Concilio.
Se l’incontro con Dio in tutte le cose non è un “eureka empirico” — dico al Papa — e se dunque si tratta di un cammino che legge la storia, si possono anche commettere errori…
«Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale»
L’intervistatore, gesuita anche lui, coglie con puntualità l’implicazione del precedente ragionamento di Bergoglio: il cammino che porterebbe all’incontro con Dio sarebbe il “cammino che legge la storia”, un cammino irto di errori, e un cammino – diciamo noi – che identifica Dio con la storia.
Ma la domanda e la risposta sorvolano con leggerezza su questa eresia, anzi servono ad introdurne un’altra: ecco infatti che Bergoglio viene a confermare quanto abbiamo detto prima:
“Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza”.
Si tratta esattamente del discernimento carnale, attuato secondo i criterii suggeriti dal mondo, in questo caso i criterii del dubbio perpetuo e della ricerca continua.E questa sua disposizione interiore, Bergoglio la esalta commettendo un lapsus che i moderni laici positivisti chiamerebbero “lapsus freudiano”:
“Le grandi guide … hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore…”.
Identificando inconsciamente il dubbio col Signore, siamo certi che Bergoglio non abbia espresso il suo pensiero razionale, ma tale inconscia identificazione rivela comunque tutta la manchevolezza del suo sentire cattolico, sopraffatto dalle categorie intellettuali della moderna filosofia positivista, fonte dell’imperversante modernismo nella Chiesa.E come si fa ad esaltare una sorta di teologia del dubbio senza demonizzare la teologia della certezza della Fede? E Bergoglio dichiara subito:
“Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui”.
Certo, perché Dio è solo con chi non ha alcuna certezza, se non la certezza del dubbio… a nulla vale la certezza dell’Essere di Dio, la certezza della Redenzione, la certezza della Grazia della Fede, la certezza dei Sacramenti, la certezza della Chiesa… se uno ha queste certezze, questa è la prova che Dio non è con lui!Ora, che l’uomo debba disporsi in maniera da dubitare sempre della sua adesione alla Verità, proprio in forza del riconoscimento delle sue debolezze dovute alla sua condizione di peccatore, è cosa che attiene alla sua umiltà di fronte all’onniscienza e all’onnipotenza di Dio; ma che questa sua diposizione si debba basare sulla certezza di aver incontrato Dio, è cosa indispensabile per la sua vita di credente, diversamente il credente dubbioso non è più un credente, ma un miscredente.
E miscredente è proprio “una persona [che] dice che ha incontrato Dio”, ma si compiace di coltivare “un margine di incertezza”, per dirla con le parole di Bergoglio.
C’è da chiedersi chi avesse in mente Bergoglio nel tracciare questo abbozzo della miscredenza, e non è azzardato supporre che fosse soverchiato dall’immagine di qualche vescovo cattolico pieno di timore per la sua umana debolezza e carico di ardore per la sua soprannaturale adesione alla Tradizione cattolica e per la divina assistenza dello Spirito Santo. Attributi che, mancanti della valorosa incertezza di Bergoglio, ai suoi occhi sono tutti sintomi che “Dio non è con lui”.
Insomma, dice Bergoglio:
“dire con certezza umana e arroganza: ‘Dio è qui’… significa trovare solamente un dio a nostra misura”.
Cosa che potrebbe anche essere seria se correttamente giustificata, ma che si rivela essere scomposta se la si giustifica dicendo: “L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre”; cosa affermata certo da Sant’Agostino, ma con una valenza che non a niente a che vedere col dubbio o l’incertezza; così che o Bergoglio non ha capito Sant’Agostino o l’ha capito e lo strumentalizza a proprio piacimento.Cos’ha detto Sant’Agostino?
“Sembra, infatti, che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai e come allora si rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore di coloro che cercano, se non avranno potuto trovare ciò che cercano? […] E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo si cerca, lo testimonia il profeta Isaia,… […] Se dunque, cercandolo, si può trovare Dio, […] Sarà forse che, anche una volta che lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca dell’incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così grande, che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. […] Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca, l’intelligenza trova; […] E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell’uomo, […] per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio. Dunque per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.” (De Trinitate, Liber XV, 2, 2).
E lo stesso Sant’Agostino aggiunge:
“Rendiamo più attento e penetrante lo sguardo dell’anima e impegniamoci a cercare Dio col suo aiuto. […] Cerchiamolo per trovarlo, e cerchiamolo ancora dopo averlo trovato. Per trovarlo bisogna cercarlo, perché è nascosto; e dopo averlo trovato, dobbiamo cercarlo ancora, perché è immenso.” (Omelia 63, 1).
Non è questa la sede per approfondire queste parole di Sant’Agostino, ma siamo convinti che basti solo la loro lettura per concludere che in esse non v’è il minimo spazio per il dubbio o l’incertezza, mentre viene ribadita la “certezza umana” che Dio si debba cercarlo e si possa trovarlo, tanto da poter dire: “Dio è qui”, seppure nella consapevolezza che, come dice Sant’Agostino, “dopo averlo trovato, dobbiamo cercare ancora perché è immenso”.
D’altronde, per fare un esempio elementare, il fedele, come può impedirsi di affermare “Dio è qui”, quando si trova al cospetto del SS. Sacramento? Per non voler apparire come colui che ha trovato “un dio a nostra misura”, dovrebbe allora manifestare la sua incertezza e dire: “Dio, ‘forse’, è qui”?
Non v’è dubbio, quindi, che l’incertezza di cui parla Bergoglio in maniera elogiativa non è altro che l’amore della ricerca per la ricerca, condotta con discernimento carnale e confermante, come ricorda Sant’Agostino, “che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai”.
Né, tampoco, si potrebbe trovare la benché minima traccia di incertezza nel citato capitolo 11 della Lettera agli Ebrei di San Paolo, che è una sorta di inno alla certezza della fede e dove si legge:
“Eppure, tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.” (Eb. 11, 39-40).
Dove è confermata la certezza di aver incontrato Dio in Gesù Cristo e nella Sua Chiesa, con la certezza del Battesimo e con la perseveranza nella fedeltà.Così che la nostra vita non è “andare, camminare, fare, cercare, vedere”, come dice Bergoglio, ma perseverare nella certezza di essere diventati figli di Dio, perché abbiamo accolto il Verbo e abbiamo creduto nel Suo Nome, e per questo siamo stati generati, non da sangue, né da volere di carne, ma da Dio (cfr. Gv. 1, 12-13).
Certezza che è “come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto” e che noi abbiamo il compito e il dovere di eseguire umilmente, fedelmente, instancabilmente, forti della certezza che “Dio è qui”: nel Vangelo, nella Sua Chiesa, nella nostra debolezza dominata dalla nostra intelligenza della fede e dalla nostra volontà di sottomissione, nella certezza della beata speranza della vitam venturi saeculi.
E in questa certezza non c’è spazio per il dubbio, non c’è spazio per “l’avventura della ricerca dell’incontro”, perché noi Dio l’abbiamo incontrato con certezza e ne siamo così certi che temiamo solo che possano essere la nostra debolezza, i nostri dubbi, le nostre incertezze, a distoglierci da Lui e ad indurci a inseguire le chimere carnali suggerite da un’intelligenza deviata dalla filosofia positivista e dalla psicologia del profondo, in una parola dallo stravolgimento modernista della Fede.
Ed è nel seguito di questa risposta che Bergoglio conferma queste nostre impressioni, quando dice:
“Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva.”
Che significa: che tutto questo discorso Bergoglio l’ha fatto tenendo presenti tutti quei fedeli che credono nella immutabilità della dottrina trasmessa loro dalla Tradizione e ribadita dalla Chiesa per duemila anni: cioè nella immutabilità dell’insegnamento di Nostro Signore; fedeli, questi, che alla luce della dottrina di Bergoglio e della dottrina evolutiva del Vaticano II, non sarebbero altro che “ideologi” miscredenti, dalla visione statica e involutiva.
E sì! Perché il Vangelo, i Sacramenti, la Chiesa, la Fede non sarebbero dei doni di Dio, ma cose in continuo divenire.
Mentre l’unica cosa certa, l’unica “certezza dogmatica”, dice Bergoglio, è che
“Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio.”
“Bisogna fidarsi di Dio”, dice Bergoglio, scoprendo così l’acqua calda, e questo è tanto vero per quanto è vero che non bisogna fidarsi dell’uomo, soprattutto di quegli uomini che sotto la copertura della fede in Dio vogliono far passare per rigogliosi giardini le pietraie incolte.
Ed è davvero singolare che un uomo di Chiesa non si preoccupi minimamente dell’edificazione dei fedeli e instilli in loro la perniciosa e aberrante idea che una vita “distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa” sarebbe comunque una vita degna di rispetto: dove c’è Dio e dove non ci sarebbe niente del demonio.
Questo si chiama istigazione al vizio e relativizzazione del peccato.
Che un cattolico non debba mai disperare del ravvedimento del peccatore, è cosa giusta, ma è cosa parimenti giusta che, per far questo, il suo dovere è condannare il peccato e diffidare il peccatore dal peccare ulteriormente; il suo dovere è esporgli la certezza della punizione divina evitando di dare la minima impressione che egli possa essere giustificato nonostante i suoi peccati. Una simile falsità la si può esporre anche solo facendo un ragionamento “buonista”, come fa Bergoglio, ricordando che Dio c’è sempre e dimenticando di ricordare che Egli c’è sempre sia per perdonare e usare misericordia, sia per condannare e castigare, anche per l’eternità.
Dobbiamo essere ottimisti? Quali sono i segni di speranza nel mondo d’oggi? Come si fa ad essere ottimisti in un mondo in crisi?
«A me non piace usare la parola ‘ottimismo’, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la parola ‘speranza’ secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai Romani. […] la speranza cristiana non è un fantasma e non inganna. È una virtù teologale e dunque, in definitiva, un regalo di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non defrauda la speranza, non può rinnegare se stesso. Dio è tutto promessa»
Ora, è evidente che qui Bergoglio evita di rispondere: la domanda verte sul “mondo in crisi” e sul possibile ottimismo che possa nutrire il cattolico a riguardo.
Bergoglio, da un lato sminuisce l’ottimismo e dall’altro esprime a sua volta ottimismo, giuocando sul vero significato della virtù teologale della Speranza.
Singolare il suo richiamo alla Lettera ai Romani, dove San Paolo afferma che la
speranza che “non delude” (Rm. 5, 5) è la “speranza della gloria di Dio” (Rm. 5, 2), la speranza che parte dalle tribolazioni, che producono pazienza, che è “una virtù provata” che produce la speranza (cfr. Rm. 5, 3)… una speranza che non attiene alle cose che si vedono, perché “ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?” (Rm. 8, 24).
La domanda che ci poniamo è: come si può coniugare questa speranza con le aspettative riguardo ad un “mondo in crisi”?
La risposta inevitabile è: essendo questa crisi generata dal rifiuto di Dio e quindi dal rifiuto della “speranza nella gloria di Dio”, il destino di questo mondo è senza speranza.Che non è un giuoco di parole, ma la semplice constatazione di un fatto che attiene alla stessa natura del mondo, così che, non solo non è possibile essere ottimisti in un mondo in crisi, ma non è neppure sensato nutrire alcuna speranza in questo mondo. La speranza che nutre il cattolico prescinde dal mondo, egli nutre la speranza nella vita eterna nonostante questo mondo, che sa essere una valle di lacrime. In questa ottica, il mondo e la sua crisi sono tutt’uno e all’orizzonte si profila la consumazione del secolo.
Semmai la questione è suscettibile di essere capovolta, secondo quanto dice San Paolo: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità […] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.” (Rm. 8, 19-21).
Vale a dire che la vera speranza nel mondo è sempre e solo l’adesione alla volontà di Dio: quell’accogliere il Verbo che permette di diventare figli di Dio, come dice San Giovanni, e che comporta la speranza della gloria a cui parteciperà l’intera creazione.
Ma non è questo che dice Bergoglio, egli, senza dare una risposta, corregge solo la domanda volgendola in affermazione: dobbiamo avere speranza… vi sono i segni di speranza nel mondo d’oggi… si può nutrire speranza in questo mondo in crisi…; e così facendo egli trasforma la speranza nella vita celeste in un’impossibile speranza nella vita terrena.
Chiedo dunque quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li accomuna…
Qui Bergoglio cita scrittori, pittori, musicisti, cineasti e ricorda due film italiani: La Strada di Fellini, che ha amato di più e col quale dice di identificarsi, e Roma Città Aperta di Rossellini, che ha molto amato. Lasciamo ai lettori la possibile riflessione su questi amori di Bergoglio e ci soffermiamo invece sulla esperienza da lui fatta come insegnante di liceo a Santa Fé.
Bergoglio insegnava agli ultimi due anni del Liceo - scrive l’intervistatore - e avviò i suoi ragazzi alla scrittura creativa. Ho avuto una esperienza simile alla sua, quando avevo la sua età, presso l’Istituto Massimo di Roma, fondando BombaCarta, e gliela racconto.
Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza.
Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza.
“È stata una cosa un po’ rischiosa — risponde —. Dovevo fare in modo che i miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di leggere García Lorca. […] Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti” […] Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento, prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad altri autori. E per me è stata una grande esperienza. Ho completato il programma, ma in maniera destrutturata […] E questa modalità mi corrispondeva molto: non amavo fare una programmazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno. Allora ho cominciato anche a farli scrivere.”
Si tratta, ovviamente, di un argomento più leggero, sul quale ci soffermeremo solo per sottolineare l’aspetto caratteriale, che ci interessa per cercare di capire la forma mentale di questo successore di Pietro che ci tiene a farsi chiamare “vescovo di Roma”.
“non amavo fare una programmazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno”;è quel “più o meno” che ci colpisce, perché ci ricorda l’idea che Bergoglio ha già esposto della ricerca innanzi tutto, della ricerca a tentoni, di una disposizione d’animo, cioè, che lo fa rifuggire da tutto ciò che è dato una volta per tutte.
E questo è davvero singolare per un successore degli Apostoli che è stato “ordinato” per “trasmettere ciò che ha ricevuto” (I Cor. 15, 3); ed è singolare per un successore di Pietro che è stato scelto per “confermare i fratelli” (Lc. 22, 32).
Un papa che dovrebbe essere “conservatore”, che dovrebbe cioè mantenere e preservare quello che Nostro Signore stesso ha stabilito e fissato, ecco che rivela, compiaciuto, di essere un “creativo”, come egli stesso conferma subito dopo: “Per un gesuita è estremamente importante! Un gesuita deve essere creativo”.
Ci ha chiesto di stare attenti a non cadere nella “tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle”. A che cosa si riferiva? Che cosa intendeva dirci esattamente? Questa intervista è stata concordata tra un gruppo di riviste dirette dalla Compagnia di Gesù: quale invito desidera esprimere loro? Quali devono essere le loro priorità?.
«Quando insisto sulla frontiera, in maniera particolare mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci.»
[…]
«Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo.»
[…]
«E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. […] Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza.»
«Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e capire il problema dall’interno e studiarlo.»
[…]
«E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro vivono nelle frontiere. […] Addomesticare le frontiere significa limitarsi a parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza.»
Questa concezione delle frontiere è in qualche modo poco chiara e suscettibile di essere intesa in vari modi, non tutti corretti, basta guardare a quanto ha avuto modo di dire e di fare Bergoglio in sei mesi di pontificato, o a quanto viene praticato da cinquant’anni in tantissime diocesi, e tuttavia non v’è dubbio che, se il principio è quello qui esposto, è corretto dire “la riflessione deve sempre partire dall’esperienza”, e non tanto perché, come dice Bergoglio, “La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica”, quanto perché la fede cattolica è un dato oggettivo che si inserisce in una realtà altrettanto oggettiva; una fede che non lascia spazio alla soggettività e alla creatività, ma che trasferisce nella mutabilità della vita ordinaria la stessa immutabilità di Dio, per salvare gli uomini dall’errore del soggettivismo e condurre le loro anime alla salvezza eterna.
Altra cosa, invece, è voler contrapporre l’oggettività della fede e il senso del reale che l’accompagna a ciò che Bergoglio chiama “verità astratte”: “Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte.”
Cosa mai vorrà dire un’espressione del genere? Esistono forse le verità astratte e le verità concrete? Forse che le verità insegnate da Nostro Signore dovrebbero essere considerate “astratte” perché Gesù nel guarire il lebbroso, tanto per fare un esempio, né aveva la lebbra né viveva con i lebbrosi?
Ancora un esempio di soggettività che inevitabilmente disconosce l’oggettività, in questo caso la realtà oggettiva della verità che non ammette aggettivazioni, la oggettiva necessità che la verità preceda e fondi ogni seria esperienza, la oggettiva impossibilità di far discendere le verità dall’esperienza perché così si possa poi dire che non sono verità “astratte”, ma verità “concrete”.
Esprimiamo un paradosso, certo, ma sarebbe come dire che non si possa parlare della verità di Dio se prima, magari in qualche frontiera, non se ne sperimenti l’esistenza.
L’uomo e la comprensione di se stesso
l’uomo a cui la Chiesa si rivolge - dice l’intervistatore - non sembra più comprenderli o considerarli sufficienti [l’antropologia della Chiesa e il linguaggio conseguente] …l’uomo si sta interpretando in maniera diversa dal passato, con categorie diverse.
Il Papa legge un passaggio tratto dal Commonitórium Primum di san Vincenzo di Lerins: ita étiam christiánae religiónis dogma sequátur has decet proféctuum leges, ut annis scílicet consolidétur, dilatétur témpore, sublimétur aetáte («Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età»).
Il Papa legge un passaggio tratto dal Commonitórium Primum di san Vincenzo di Lerins: ita étiam christiánae religiónis dogma sequátur has decet proféctuum leges, ut annis scílicet consolidétur, dilatétur témpore, sublimétur aetáte («Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età»).
«San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata»
Ed ecco che Bergoglio conferma quanto abbiamo osservato fin qui. La concezione di Bergoglio, come quella di tanti uomini di Chiesa moderni, è una concezione evolutiva, dove “la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce”.
Ora, questa concezione, nonostante il tentativo, non è quella di San Vincenzo di Lerino: questi parla della comprensione del dogma da parte degli uomini, non del dogma stesso, che per sua natura è immutabile, diversamente non sarebbe un dogma. E questa comprensione si accompagna logicamente alla possibilità che anche la sua formulazione possa essere adattata, così come si adatta, per esempio, alle varie lingue con le quali essa è presentata. È logico, dunque, che la comprensione umana del dogma possa “consolidarsi” con gli anni, ampliarsi col tempo, approfondirsi con l’età. Ma se questo processo lo si volesse applicare al dogma stesso si scadrebbe, per un verso nell’incongruenza, per un altro nella contraddizione, per un altro ancora nella demolizione delle verità di Fede.
La riprova di ciò la troviamo proprio nelle parole di Bergoglio: “depositum fidei, che cresce e si consolida col passar del tempo”.
Che il Depositum Fidei si possa consolidare, nel senso che si possa rafforzare nella comprensione umana, è concepibile, anche se non è proprio così automatico, ma che possa crescere è francamente incomprensibile, se non altro perché c’è contraddizione già tra il sostantivo deposito e il verbo crescere. Un deposito non può crescere, perché anche a voler fare un parallelo con un’altra cosa, per esempio il deposito bancario, una volta che questo si accresce non è più quello di prima, cambiata la quantità si ha un deposito diverso da quello di prima. A maggior ragione questo vale per il Depositum Fidei che non è misurabile per quantità: essendo pura qualità, e trattandosi di qualità di natura divina, esso non è suscettibile di accrescimento, se non alla condizione che la Rivelazione sia continua, ma questo è contrario allo stesso Depositum Fidei, tale che dire del suo accrescimento significa dire della sua intrinseca contraddizione: Dio che contraddirebbe Sé stesso.
Cosa dice in realtà San Vincenzo di Lerino in quel passo di cui Bergoglio cita solo una frase?
(XXVII settimana del Tempo Ordinario, venerdì, ufficio delle letture, seconda lettura: Dal «Primo Commonitorio» di San Vincenzo di Lerino, sacerdote (Cap. 23; PL 50, 667-668) .
A proposito de “lo sviluppo biologico dell’uomo”:
“La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi. Questi, infatti, pur crescendo e sviluppandosi con l’andare degli anni, rimangono i medesimi di prima. Vi è certamente molta differenza fra il fiore della giovinezza e la messe della vecchiaia, ma sono gli stessi adolescenti di una volta quelli che diventano vecchi. Si cambia quindi l’età e la condizione, ma resta sempre il solo medesimo individuo. Unica e identica resta la natura, unica e identica la persona.
Le membra del lattante sono piccole, più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura esistevano già, come tutti sanno, nell’embrione, sicché quanto a parti del corpo, niente di nuovo si riscontra negli adulti che non sia stato già presente nei fanciulli, sia pure allo stato embrionale.
Non vi è alcun dubbio in proposito. Questa è la vera e autentica legge del progresso organico. Questo è l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita. Nell’età matura di dispiega e si sviluppa in forme sempre più ampie tutto quello che la sapienza del creatore aveva formato in antecedenza nel corpicciuolo del piccolo.
Se coll’andar del tempo la specie umana si cambiasse talmente da avere una struttura diversa oppure si arricchisce di qualche membro oltre a quelli ordinari di prima, oppure ne perdesse qualcuno, ne verrebbe di conseguenza che tutto l’organismo ne risulterebbe profondamente alterato o menomato. In ogni caso non sarebbe più lo stesso.
”
A proposito del Depositum Fidei:
“Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. È necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
È anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della primitiva seminagione che può ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione.”
Facciamo solo notare, a mo’ d’esempio per comprendere come si sia “evoluta” la mentalità degli uomini di Chiesa moderni, che la citazione presentata da Bergoglio manca della indispensabile precisazione fatta da San Vincenzo di Lerino: È necessario però che [ilDepositum Fidei] resti sempre assolutamente intatto e inalterato”.
Questa precisazione avrebbe impedito a Bergoglio di affermare:
“Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata”.
E noi, seguendo San Vincenzo di Lerino, ci permettiamo di osservare che “errata” è la concezione evolutiva di Bergoglio, una concezione evolutiva che pretende di trasformare l’insegnamento della Chiesa in un susseguirsi di “sfumature” sempre cangianti, quelle stesse che permettono di riformulare costantemente il dogma immutabile e di adattarlo al mutare dell’uomo col tempo; quelle stesse utilizzate a piene mani dai “Padri del Concilio” per presentare nei documenti conciliari una serie continua di contraddizioni con la dottrina precedente… realizzando esattamente ciò che San Vincenzo di Lerino condanna: “Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
È anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo.”E questa concezione evolutiva, porta Bergoglio ad invertire addirittura il senso stesso della Chiesa e del suo insegnamento, che è l’insegnamento di Nostro Signore.
“…dunque l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso… […] Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento.”
Ora, fino a prova contraria, dovrebbe essere l’insegnamento della Chiesa la base che permette all’uomo di comprendere se stesso, ma, secondo Bergoglio, non sarebbe così.
Innanzi tutto, egli dà per scontato che l’uomo, cambiando col tempo, per ciò stesso migliori, cosa che è impossibile senza il presupposto della Fede; secondo poi, partendo da questo assunto errato, egli pretende che la Chiesa debba “sviluppare e approfondire il proprio insegnamento”, attraverso un fantasioso recupero della “genialità” che le permetta di “capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi”.
Il che significa che la Chiesa deve sviluppare e approfondire il proprio insegnamento, non più alla scuola di Nostro Signore, degli Apostoli, dei Padri della Chiesa e quindi della Tradizione, ma alla scuola dell’uomo, e dell’uomo che “col tempo cambia il modo di percepire se stesso”.
Questo processo di umanizzazione della Fede, in parte riconducibile alla debolezza propria degli uomini, e in questo caso degli uomini di Chiesa, ha conosciuto una forte accelerazione con il Vaticano II e con i papi del post-Concilio; così che non meravigliano le pacifiche affermazioni di Bergoglio, salvo stimolare l’attenzione su ciò che Nostro Signore si chiedeva retoricamente già duemila anni fa: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc. 18, 8).
Pongo al Papa un’ultima domanda sul suo modo di pregare preferito
«la preghiera è per me sempre una preghiera “memoriosa”, piena di memoria, di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare. … La memoria fonda radicalmente il cuore di un gesuita: è la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. È questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre.»
E noi pensiamo che, a proposito della preghiera, sia opportuno riportare due brani del Vangelo di San Luca:
«Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (Lc. 11, 9-13).
«Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: “In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: ‘Fammi giustizia contro il mio avversario’. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: ‘Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi’”. E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”» (Lc. 18, 1-8).
Concludiamo così l’analisi di questa lunga intervista, ripetendo quanto dicemmo all’inizio: -Nonostante la sua complessiva pochezza e la sua evidente povertà concettuale, questa intervista, pubblicata sei mesi dopo l’elezione di Bergoglio, si presenta come l’equivalente del discorso alla Curia di Benedetto XVI, poiché, per i punti che tocca, delinea con chiarezza il pensare e il sentire di questo nuovo Papa e, quindi, la linea direttrice del suo pontificato.
Se il pontificato di Benedetto XVI ha permesso a qualcuno, per una certa ingenua benevolenza, di parlare di tentativi di recupero nella dottrina e nella pastorale della Chiesa conciliare, è pacifico che questo nuovo pontificato - sorto dalla rinuncia di Benedetto XVI a continuare a fare il suo dovere di stato -, con i suoi ultimi sei mesi e con questa intervista, si presenta come una sorta di ripresa della marcia in discesa avviata dal Vaticano II, questa volta con un passo accelerato, grazie alla maggior lena sopraggiunta dopo gli strategici rinculi del pontificato precedente.
Una situazione drammatica, che Dio permette secondo i Suoi imperscrutabili disegni, e che chiama con forza ogni vero fedele cattolico a rafforzare le preghiere per la salvezza delle anime, rivolgendosi con accresciuto fervore alla Santissima Vergine Maria, Madre di Dio, perché ci ottenga dal Suo Divino Figlio la luce del discernimento spirituale, l’amore per la Santa Chiesa e la grazia della perseveranza nell’unica vera Fede.
Chiediamo queste cose a Maria Santissima nella recita quotidiana del Santo Rosario.
di Giovanni Servodio
parte prima
parte seconda
parte terza
parte quarta
parte quinta e ultima
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