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domenica 15 dicembre 2013

La religione dei fratelli maggiori del vaticano

Israele_falasha_sangue_etiopi_ebrei_razzismo
Il plasma donato dalla parlamentare di origine etiope Pnina Tamano-Shata rifiutato perché “potenzialmente infetto”. L’ennesima discriminazione nei confronti dei Falasha
di Giorgia Grifoni Roma - Il sangue dei bianchi vale più di quello dei neri. Parole che fanno rabbrividire chi piange Nelson Mandela, ma che sono una realtà in quella che si considera l’unica democrazia del Medio Oriente. E dopo le discriminazioni a scuola e nel lavoro, dopo gli scandali del sangue buttato e degli anticoncezionali somministrati a forza, ieri un nuovo episodio di razzismo ha sconvolto Tel Aviv:
Pnina Tamano-Shata, primo membro della Knesset di origine etiope, è stato rifiutato di donare il sangue in un’autoemoteca del Magen David Adom, la Croce Rossa israeliana. Il motivo? La Tamano-Shata ha un “tipo speciale di sangue ebreo-etiope”, come le è stato detto nell’ambulanza. Non va bene, quindi, per tutti gli altri ebrei.
Di fronte alle proteste della donna, i paramedici dell’autoemoteca stazionata davanti alla Knesset le hanno sventolato davanti il regolamento stilato dal ministero della Salute: non si accettano donazioni di sangue da persone a presunto rischio di Hiv. Tra queste, oltre ai nativi dell’Africa, ci sono gli omosessuali, gli Israeliani residenti in Inghilterra, Irlanda o Portogallo per lunghi periodi durante gli anni ’80 (durante l’epidemia della Mucca Pazza) e chiunque sia appena tornato dall’Africa centrale, dal sud-est asiatico e dai Caraibi. La Tamano-Shata, seppur perdonando gli inermi paramedici, ha puntato il dito contro il ministero della Salute: “Vado bene per servire il Paese nella Knesset ma, per qualche ragione, non abbastanza per donare il mio sangue”.
Molti parlamentari hanno espresso solidarietà nei confronti della deputata, scioccati da queste “storie infinite sulle donazioni di sangue”, come ha dichiarato Yuli Edelstein, portavoce della Knesset. Quest’ultimo ha subito espulso l’autoemoteca dagli spazi del Parlamento israeliano e ordinato un’inchiesta sull’accaduto. Ma non basta: sono stati troppi, finora, i casi di discriminazione nei confronti della comunità Falasha, gli “intrusi” o gli “stranieri” in lingua amarica, gli ultimi sia sulla costa israeliana che sugli altipiani di Abissinia. Discendenti – a detta di alcuni storici – della tribù perduta di Dan, nel paese che li ha voluti così tanto da volerli trasferire con due operazioni segrete (l’operazione Mosè, del 1984, e l’operazione Salomone, del 1991) sembrano piuttosto figli di un dio minore.
Addirittura ghettizzati nelle città di Rehovot, Kiryat Malachi, Beer Sheva e Haifa, affrontano difficoltà quotidiane dai banchi di scuola al posto di lavoro, se ne trovano uno: la realtà è che 50 mila su 130 mila vivono di assistenza sociale. All’inizio dello scorso anno era montata la protesta per il rifiuto, da parte di alcuni proprietari di abitazioni a Kiryat Malachi, di affittare agli ebrei etiopi. Non graditi perché, ufficialmente, “troppo rumorosi o perché mangiano l’injera, che è un pane dall’odore intenso che penetra con facilità gli spazi circostanti, ma in realtà è per via della pelle scura” aveva dichiarato Shoko, una donna israeliana che lavora come assistente sociale a Haifa, all’Alternative Information Center.
Utili per far numero nello Stato ebraico che li fece trasferire in massa a metà degli anni ’80, quando ancora i più puri ebrei russi erano relegati al di là della Cortina di Ferro, a partire dagli anni ’90 sono balzati all’ onore delle cronache per una serie di episodi di razzismo da parte della società che più di tutte si vuole multinazionale: dallo scandalo delle sacche di sangue etiope segretamente distrutte perché “a rischio Hiv”, alle dichiarazioni di Dani Gur, cardiochirurgo del più famoso ospedale di Tel Aviv che rifiutò di operare gli “ebrei neri” perché, a detta sua, non aveva tendenze omicide. E soprattutto al più recente scandalo delle iniezioni di anticoncezionale somministrate a forza a donne etiopi nei centri di smistamento di Gondar: se avessero rifiutato, come hanno dichiarato alcune di loro, non sarebbero potute immigrare in Israele. Un vero e proprio controllo occulto delle nascite (alle donne in attesa di visto veniva detto che erano delle “vaccinazioni”), che ha fatto calare “inspiegabilmente” del 20 per cento la natalità di questa comunità negli ultimi anni. Pillole quotidiane di razzismo per un paese che si vuole soprarazziale, ma che in realtà applica l’apartheid, oltre che ai Territori palestinesi occupati, anche al proprio “popolo eletto”. Nena News 12 dicembre 2013

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