L’abbandono
della verità dogmatica e soprannaturale è un fatto, che viene giustificato
con la necessità di adottare il linguaggio della crisi temporale
Un
ospedale da campo in cui a malati, feriti e moribondi si dice che
stanno bene così come sono.
Di tornare al primitivo stato di salute
neanche se ne parla e dei medicamenti, specialmente se sgradevoli al
palato, men che meno. A voler mettere a frutto la metafora cara a
Papa Francesco ed entrata nell’immaginario collettivo cattolico a
furor di media e di omelie, non si può definire
diversamente
il senso della relazione con cui il cardinale Walter Kasper ha aperto
al concistoro sulla famiglia.
Non
ci possono essere dubbi quando dice “Dobbiamo però essere onesti e
ammettere che tra la dottrina della chiesa sul matrimonio e sulla
famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un
abisso”: non ci sono dubbi perché tutto il suo ragionamento non è
centrato sul recupero
delle
pecorelle fuggite dal gregge e sulle cause della fuga, ma sulla
necessità di adeguarsi alla nuova situazione. Il pastore non solo
deve sapere dell’odore delle sue pecore, ma soprattutto di quelle
che se ne sono andate.
Che
qualcosa di nuovo stia accadendo dentro la chiesa è sottolineato dal
clamore suscitato in tutto il mondo dallo scoop del Foglio che ha
pubblicato lo scritto del cardinale. Può illudersi che tutto sia
tranquillo solo chi mette sul bilancino le parti conservative e
rassicuranti del discorso di Kasper illudendosi che siano almeno un
milligrammo in più rispetto a quelle innovative e inquietanti. Come
se una sola ombra di disordine non bastasse a turbare un ordine di
origine celeste.
La
notizia c’è, e non riguarda soltanto i giornali, i quali per loro
natura rincorrono i bambini che mordono i cani invece dei cani che
mordono i bambini. C’è anche per i fedeli di ogni ordine e grado e
per ogni creatura razionale esistente sulla faccia della terra,
perché la chiesa deve, o dovrebbe,
parlare
a tutti gli uomini indistintamente testimoniando ovunque la stessa
verità. E se i giornali fanno festa davanti al bambino che morde il
cane per il semplice fatto che è accaduto qualcosa di nuovo,
credenti, diversamente credenti, agnostici e atei devono capire se
quel qualcosa sia buono o cattivo e non possono far festa a
prescindere.
Basta
fare la conta di chi festeggia e chi no per comprendere che il
cardinale Kasper, citato nel primo Angelus di Papa Francesco come “un
teologo in gamba, un buon teologo” per il suo libro sulla
“Misericordia”, questa volta ha dato un bel morso al cane. Ciò
che emerge dalla sua relazione è il disegno di una chiesa prossima
ventura completamente liquida e sempre più ignara dei sacramenti. E
non è un caso che il tracciato cominci in chiaroscuro dal
matrimonio, così tentato e flagellato dalle concupiscenze più
subdole e dunque così vulnerabile. Ma, al di là del merito, è
prima di tutto il metodo a inquietare. Un misto di soggiacenza alle
voglie del mondo e di desiderio di spalancare i battenti della
cittadella all’assediante furioso. Bisogna replicare la strategia
adottata durante il Vaticano II, dice pacificamente il cardinale: “Il
Concilio, senza violare la tradizione dogmatica vincolante ha aperto
le porte”. E’ la strategia che nasconde dietro un insignificante
permanere
della lettera il mutamento della prassi. Il modernista don Ernesto
Buonaiuti l’aveva teorizzata in un vero e proprio protocollo: “Fino
a oggi si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma.
Bisogna riformare Roma con Roma, fare che la riforma passi attraverso
le mani di coloro che devono essere riformati. Ecco il vero e
infallibile metodo; ma è difficile. Hoc opus, hic labor. (…) Il
culto esteriore durerà come la gerarchia, ma la chiesa, in quanto
maestra dei sacramenti e dei suoi ordini, modificherà la gerarchia e
il culto secondo i tempi: essa renderà quella più semplice e
liberale, e questo più spirituale; e per quella via essa diventerà
un protestantesimo
ortodosso,
graduale, e non uno violento, aggressivo, rivoluzionario,
insubordinato”.
Non
è necessario attribuire al cardinale Kasper le stesse intenzioni di
Buonaiuti. Altri tempi, altri sogni, altre teorie, che comunque
conformano a propria immagine e somiglianza la prassi. Bisogna avere
il coraggio e l’onestà intellettuale di ammettere che la
pastorale, questo concetto talismano che oggi serve a giustificare
ogni cedimento, è sempre figlia di una dottrina. E’ vero che, in
omaggio alla deriva illuminista, spesso la prassi finisce per
mangiarsi una dottrina non vigile. Ma è lecito chiedersi dove nasca
una pastorale devastante se non nel grembo di una dottrina almeno in
nuce problematica.
Per
quanto nella relazione di Kasper vi siano anche molti passaggi che,
in sé, non pongono problema, non si può negare che ogni capoverso,
ogni riga trasudino dell’idea di un innaturale dialogo tra i valori
del mondo e la morale cristiana. Un cavallo di Troia penetrato nella
cittadella
cattolica,
al tempo stesso, come fine e come mezzo.
L’uno
e l’altro si sono saldati nel lavoro di distruzione dei concetti di
natura e di persona che avevano caratterizzato la teologia fin dai
suoi albori.
Il
pensiero ormai dominante anche nella chiesa cattolica che soggiace al
discorso del cardinale Kasper si trova anticipato da Enrico Chiavacci
in una riga del “Dizionario enciclopedico di teologia morale”
pubblicato nel 1973: “La vera natura umana è di non aver natura”.
Da cui segue come corollario che la morale diviene autonoma dalla
fondazione metafisica della natura umana e che l’amore, inteso solo
sul piano naturale, diventa l’unica regola del comportamento umano.
“I
nuovi moralisti, definiti da qualcuno ‘pornoteologi’” ha
spiegato in proposito Roberto de Mattei “sostituivano alla
oggettività della legge naturale, la ‘persona’, intesa come
volontà progettante, sciolta da ogni vincolo normativo e immersa nel
contesto storico-culturale, ovvero nell’‘etica della situazione’.
E
poiché il sesso costituisce parte integrante della persona,
rivendicavano il ruolo della sessualità, definita ‘funzione
primaria di crescita personale’, anche perché, a dir loro, il
Concilio insegnava che solo nel rapporto dialogico con l’altro, la
persona umana si realizza. Citavano a questo proposito il concetto
secondo cui ‘ho bisogno dell’altro per essere me stesso’,
fondato sul n. 24 della Gaudium et Spes, magna charta del
progressismo postconciliare”.
Nel
1966, la Conferenza episcopale francese produsse la “Documentation
catholique” nella quale di “catholique” rimaneva solo il titolo
e veniva sancita autorevolmente la fine della teologia classica.
“All’indomani
del Concilio” dicevano i vescovi francesi “la cristologia esige
una speciale attenzione. Nell’ordine teologico, si tratta, ad
esempio, della necessità di mantenere i concetti
fondamentali
di natura e di persona. A tale riguardo, la filosofia moderna pone
nuovi problemi: l’accezione dei termini ‘natura’ e ‘persona’
per uno spirito filosofico è diversa da quella che era nel Quinto
secolo o nel tomismo. (…) Quali concetti della natura e della
persona si debbono usare affinché possano esprimere, per i nostri
contemporanei, la verità delle definizioni dogmatiche?”.
L’esito
finale di tale premessa poteva essere solo l’impossibilità di
accedere alla verità delle definizioni dogmatiche che i vescovi
francesi dicevano pelosamente di avere ancora a cuore.
L’attacco
alla teologia del V secolo e al tomismo non era casuale poiché
significava distruggere la definizione di persona formulata da Boezio
poi ripresa, tra gli altri, da san Tommaso. “Persona” diceva
Boezio “est rationalis naturae individua substantia”, “La
persona è la sostanza individuale di una natura razionale”.
La
relazione del cardinale Kasper è fatta di questa stoffa, buona per
sventolare la bandiera bianca dentro la cittadella di Dio assediata.
Dare per scontato che si debba ricorrere alle categorie del pensiero
e del costume moderni significa omettere la mediazione necessaria di
concetti e di un
linguaggio
“naturalmente” veri. La verità non è soltanto dogmatica e
soprannaturale, così come la verità dei dogmi non è il solo punto
fisso da mantenere dentro al pensiero cattolico. Esiste una verità
“naturale” del linguaggio e dei concetti assolutamente
indispensabile anche per fini
unicamente
religiosi. Per cui non è possibile intercambiare impunemente i
concetti classici di natura e di persona con quelli moderni.
Non
si possono esprimere agli hegeliani le verità dei dogmi usando
termini hegeliani, ai cartesiani usando termini cartesiani, ai
kantiani usando termini kantiani, usando termini marxisti con i
marxisti e via elencando. Perché la filosofia moderna è
essenzialmente antinaturale e la Grazia
opera
sulla natura, non sull’antinatura.
Nel
saggio “L’eresia del XX secolo”, Jean Madiran definisce questo
fenomeno come una débâcle
teologica
che “si basa sull’immaginario. E’ una mitologia. Non parte da
una concezione falsa fra natura e Grazia ma da un disconoscimento
radicale dell’ordine naturale, il quale porta con sé anche un
disconoscimento dell’ordine sovrannaturale. Non si fonda su un
aspetto della realtà
svalorizzandone
o sfigurandone altri aspetti: essa si trova tutta intera fuori da
ogni realtà, sta in un limbo ideologico verbale. Non disconosce la
realtà naturale e non si inganna: la respinge, distoglie da essa le
anime per indirizzarle altrove, verso il nulla”.
L’atto
fondativo di tale azione, come prescritto nel protocollo Buonaiuti è
l’aggressione al sacramento, ciò che nel mondo è segno del
divino, della presenza di Dio tra gli uomini: ciò che, in
definitiva, è principio e garanzia di ordine terreno poiché
trasmette la Grazia proveniente
dall’ordine
divino. Dunque, l’obiettivo è quello di penetrare nella teologia
cattolica e pervertirla fin nella radice.
I
veri nodi che hanno imbrigliato la teologia cattolica e che l’hanno
soffocata sono stati l’abolizione del peccato e la separazione tra
fede e sacramenti. Il sacramento è, insieme, vincolo e mezzo per
proteggere le creature dal peccare. Ecco qui il tema fondamentale,
dimenticato e negletto: il
peccato.
Ecco lo scandalo, la vergogna senza la quale l’uomo è
incomprensibile. Va bene il mistero pasquale, va bene la
Resurrezione, va bene il trionfo della pietra rotolata. Ma non esiste
alcuna garanzia che le nostre anime siano preservate dalla morte
ineluttabile. Il peccato porta con sé il
mistero
della dannazione eterna.
Ed
ecco qui spuntare nella storia, insieme all’incarnazione, il
sacramento, il mistero che è nello stesso tempo fondamentale per
salvare l’uomo dalla sua condizione di peccatore. Una chiesa senza
sacramenti è semplicemente impensabile, una terra di nessuno, o se
va bene un ospedale da campo, dove l’uomo si salva da sé. La
discussione in corso intorno alla riammissione delle coppie
divorziate risposate è estenuante, per certi versi assurda. La vera
domanda è molto più semplice: da che cosa l’uomo deve salvarsi?
Ma da che cosa si deve salvare se si predica o si lascia intendere
che l’inferno non esiste o, se esiste, è vuoto?
Cristo
non si è fatto crocifiggere per salvare gli uomini dalla guerra,
dalla povertà, dall’invidia, dal matrimonio andato male, dalla
tristezza. Lo ha fatto per salvarli dalla dannazione eterna. E i
sacramenti sono il mezzo per uscire da questa terribile malattia. Il
vecchio Catechismo di san Pio X spiegava che: “I sacramenti sono
segni efficaci della Grazia, istituiti da Gesù Cristo per
santificarci”. E poi che “sono segni efficaci della Grazia
perché, con le loro parti che sono sensibili, significano o indicano
quella Grazia invisibile che conferiscono; e ne sono segni efficaci
perché
significando
la Grazia realmente la conferiscono”.
Quando
portarono a Gesù un sordomuto supplicandolo perché gli imponesse le
mani, Lui gli mise le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò
la lingua, poi, levando gli occhi al cielo, sospirò e disse “Effatà”
e l’uomo guarì. Gesù, che era Dio, avrebbe potuto ridare l’udito
e la parola al sordomuto col semplice comando della sua volontà. Ma
il contatto delle dita e della saliva significava e conferiva
realmente la grazia della guarigione. Era l’immagine del
sacramento, dell’irrompere della Grazia nella vita dell’uomo
trasformando in rito le azioni e la materia quotidiana. La chiesa non
potrà mai privarsene, pena la sua fine. In un mondo privato
dell’ancoraggio insieme carnale e
spirituale
dei sacramenti, il peccato non può più essere vinto perché non
viene più riconosciuto e combattuto per quello che è. E l’uomo si
perde, ognuno è nessuno e, come spiega Marshall McLuhan “il più
grande statista potrebbe essere confuso con un lacchè. In termini
liturgici, la
perdita
dell’identità significa perdita della vocazione religiosa, e il
permissivismo morale significa perdita del bisogno della Confessione.
Laddove molti ricorrevano alla Confessione e relativamente pochi alla
Comunione, ora pochissimi si confessano mentre molti ricorrono alla
Comunione”. Come diceva Gilbert Keith Chesterton, una chiesa
siffatta può piacere al mondo, ma non gli fa alcun bene:
“La
chiesa non può muoversi coi tempi; semplicemente perché i tempi non
si muovono. La chiesa può solo infangarsi coi tempi e corrompersi e
puzzare coi tempi. (…) E la chiesa ha il compito di salvare tutta
la luce e la libertà che può essere salvata, resistere a quella
forza del mondo che attrae in basso, e attendere giorni migliori. Una
chiesa vera vorrebbe certo fare tutto questo, ma una chiesa vera può
fare di più. Può fare di questi tempi di oscurantismo qualcosa di
più di un tempo di semina; può farli il vero opposto dell’oscurità.
Può presentare i suoi ideali in tale e attraente e improvviso
contrasto con l’inumano declivio del tempo da ispirare d’un
tratto agli uomini qualcuna delle rivoluzioni morali della storia,
così che gli uomini oggi viventi non siano toccati dalla morte
finché non abbiano visto il ritorno della giustizia. Non abbiamo
bisogno, come dicono i giornali, di una chiesa che si muova col
mondo. Abbiamo bisogno di una chiesa che muova il mondo”
di Alessandro Gnocchi e Mauro Palmaro
in “Il Foglio” del 5 marzo 2014
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