Sull’altro versante, in compenso, l’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe, energico organizzatore del Giubileo, a dispetto della propria fede partenopea scelse di battezzare l’Anno Santo nel nome di San Francesco Totti e con la sponsorizzazione di Franco Sensi: era il 2 gennaio 2000, prima domenica e alba del millennio, celebrata in Piazza San Pietro da migliaia di bambini, con Wojtyla e la Roma al gran completo, allora guidata da Fabio Capello.
Insomma il cardinale Vallini, l’uomo che Ratzinger ha chiamato al suo fianco e Bergoglio confermato come vice sulla “panchina” dell’Urbe, vanta un tragitto tutto napoletano, che salvo una parentesi lateranense si distende per mezzo secolo all’orizzonte del Golfo: seminarista, rettore, vescovo ausiliare. Mentre il collega Sepe, che a poche ore dalla finale di Coppa Italia ha sollevato l’ampolla con il sangue di San Gennaro e all’inizio del 2014 ha benedetto con De Laurentiis il torneo delle parrocchie, ostenta un cursus honorum tipicamente romano, avendo speso tre decadi della sua esistenza nei sacri palazzi, dalla Segreteria di Stato a Propaganda Fide.
Solo l’anagrafe li radica entrambi nelle regioni d’origine, che lasciarono da giovani per farvi ritorno al culmine della carriera, dopo una vita in trasferta, ormai eminenze e non senza resistenze ad accettare l’incarico. Li accomunano, peraltro, i natali in tempo di guerra e in piccoli borghi: Vallini a Poli, paesino dei Monti Prenestini, dove il padre maresciallo dei carabinieri prestò servizio fino al trasferimento in Campania. Sepe a Carinaro, frazione di Aversa, dove trascorse l’adolescenza per raggiungere Roma in età universitaria e accedere ai ranghi della diplomazia pontificia.
Sarà pertanto una coincidenza del destino o un tiro mancino della provvidenza, ma le loro biografie offrono una prova incrociata, visualizzata e personalizzata, dei vincoli naturali che uniscono da sempre le due città. Più forti e profondi delle rivalità artificiali, violente e vindici, che le dividono. Nel sangue “misto” dei due porporati scorre l’antidoto al male oscuro che cronicamente infetta settori delle tifoserie più avvolgenti e spettacolari d’Italia. Una febbre che all’improvviso si accende, divampa, uccide.
Per questo le strade dei due cardinali dovrebbero convergere e spingerli, oggi, verso la più protagonista e antagonista, schedata eppure indecifrabile delle periferie: la “curva”. Frontiera emblematica di una missione metropolitana in cui la Chiesa, nel verbo di Francesco, “è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile”, a “vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide”.
Bisognerebbe interpretare alla lettera, “sine glossa”, i paragrafi più crudi della esortazione Evangelii Gaudium e seguirne la segnaletica come uno stradario, per capire fino a che punto voglia inoltrarsi Bergoglio, quando esplora il mistero delle città contemporanee: “enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso”. Dove “svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza”. Dove “sono moltissimi i non cittadini, i cittadini a metà o gli avanzi urbani”, prodotti dalla cultura dello scarto. E dove a maggior ragione “il senso unitario e completo della vita che il Vangelo propone è il miglior rimedio ai mali della città”.
La vicinanza temporale stridente, di appena ventiquattrore, fra l’auspicio formulato nell’udienza con Fiorentina e Napoli, “che domani sera sia una bella festa sportiva”, e la follia del giorno dopo, perpetrata sotto gli occhi del mondo, ha mostrato una impotenza e misurato una distanza. Una divaricazione insopportabile e paradossale, nel frangente in cui è salito al soglio il Pontefice che, più di qualunque altro, ha calcato gli spalti di uno stadio.
Tale attenzione personale del Papa e pastorale della Chiesa verso un nervo scoperto, e snodo nevralgico, dell’immaginario urbano, non si può limitare, e sublimare, nell’incontro a palazzo con le squadre di passaggio e il corredo di nomenclature aggregate per la foto di gruppo.
Sarebbe pertanto profetico se i due alti prelati cominciassero il prossimo campionato con un gesto “da pazzo” - alla stregua di quelli compiuti da Pietro e ricordati recentemente da Francesco - andandosi a sedere in curva Sud e in curva A, dell’Olimpico e del San Paolo. Senza prediche di sorta e preti di scorta, ma con il diario aperto delle loro storie trasversali, opponendo alle dimostrazioni di forza la forza della testimonianza.
Entrambi ne posseggono istintivamente lo slancio, in ragione delle proprie ascendenze popolari e propensioni al rischio, coltivate o rinverdite nei quartieri di Barra e Scampia, dove Vallini e Sepe hanno, rispettivamente, abitato a lungo e fatto l’ingresso in diocesi. Anche se l’ascesa gerarchica nel frattempo ha operato in loro un restyling curiale e li ha dotati di robusti freni inibitori, facendone un diplomatico e un giurista. Uomo di protocollo l’uno, di procedura l’altro.
Tuttavia nel prototipo di Chiesa concepito dal Pontefice argentino, sul telaio della Evangelii Gaudium e con gli aggiustamenti quotidiani dell’officina di Santa Marta, per il momento non si vedono e forse nemmeno prevedono freni a mano, ma semmai un motore predisposto ad “andare oltre”. Anche fra gli ultrà.
Se dunque la Chiesa riconosce la centralità problematica, e il simbolismo drammatico, dello stadio nei paesaggi del ventunesimo secolo, quale luogo in cui si affrontano le culture dell’incontro e dello scontro, non può guardare la partita dalle tribune ma deve scendere in campo, dando corpo alla speranza nelle curve impazzite della vita, dove la disperazione fa scempio dei corpi e manda le anime fuori strada.
Piero Schiavazzi,