ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 21 maggio 2014

Gallo o faina nel pollaio?

Monsignori a braccia conserte

Perché non tutti i vescovi italiani hanno applaudito le parole del Papa

Non tutti, lunedì, al termine della lettura dellaprolusione papale, hanno applaudito. Più d’uno tra i vescovi presenti è rimasto perplesso per gli inviti a lasciar perdere “la pastorale di conservazione” e a evitare ripiegamenti “nelle forme del passato”. Basta chiacchiere e settarismi: la parola d’ordine del nuovo corso è unità. Una prolusione che chiude l’epoca inaugurata trent’anni fa da Giovanni Paolo II a Loreto, quando il Pontefice chiarì che la chiesa italiana doveva avere “un ruolo guida e un’efficacia trainante nel futuro della nazione”. E’ lì che furono poste le radici della stagione ruiniana, quella della battaglia per i valori non negoziabili e la difesa della laicità positiva aperta al senso pubblico del sacro. Quell’epoca è finita: di politica non si parla ed è consigliabile non ossessionare i fedeli con questioni etiche.
Ora la scena è del fidato mons. Galantino, segretario generale dai modi ruvidi e dall’eloquio facile. E il resto dei vescovi tace. Sono ancora sotto choc, dicono gli osservatori ben addentro alle faccende d’oltretevere. Non sanno che fare, non riescono a far proprie le esortazioni accorate a uscire missionari in periferia. Lo stesso cardinale presidente, Angelo Bagnasco, interviene in pubblico sempre più di rado – ieri, però, si è espresso contro le forme surrogate di famiglia –, messo in ombra da Galantino e dal suo vicepresidente Gualtiero Bassetti, da molti indicato come prossima guida della Cei. Sulla questione divisiva della famiglia, oggetto dei prossimi due Sinodi, solo il cardinale Caffarra, ormai vicino alla pensione, è uscito allo scoperto, avvertendo che su certi temi neanche il Papa può far valere la sua potestà. Gli altri hanno pubblicamente sposato entusiasti gli inviti a cambiare, salvo poi non riuscire a mettersi d’accordo neppure sul numero delle diocesi da ridurre.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/23421


Vescovi litigiosi alla prova Bergoglio


Inedita prolusione papale alla Cei, un po’ disunita e autocentrata

Mai prima di ieri era accaduto che il Papa, anziché il cardinale presidente, aprisse l’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Francesco aveva subito accettato l’invito rivoltogli da Angelo Bagnasco, benché dal Vaticano avessero sottolineato che il Pontefice nutriva “la medesima intenzione”. Invito o no, avrebbe tenuto ugualmente la prolusione, momento culminante di un anno in cui Bergoglio ha dato chiari segnali circa la volontà di riorientare la Cei verso le priorità inscritte nella sua agenda: più misericordia e periferia, meno lotta in difesa di quei valori non negoziabili di cui il Papa preso quasi alla fine del mondo rifiuta perfino la definizione – “I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra”, diceva nell’intervista concessa al Corriere della Sera – e che sono stati uno dei caposaldi del ventennio ruiniano. Concetti fatti propri, in modo meno sottile e più ruvido, dal nuovo segretario generale, mons. Nunzio Galantino da Cassano allo Ionio, sostituto di mons. Mariano Crociata, trasferito a Latina: “In passato ci siamo concentrati esclusivamente sul no all’aborto e all’eutanasia. Non può essere così. Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l’interruzione della gravidanza”. Davanti a un attento uditorio fatto di “vescovi intimoriti dalla durezza con cui Bergoglio li vuole estranei alle beghe politiche”, osservava qualche tempo fa lo storico Alberto Melloni, Francesco chiarisce di voler offrire in modo franco “alcune riflessioni con cui rivisitare il ministero dei vescovi”, venendo così “incontro a quanti si domandano quali siano le attese del vescovo di Roma sull’episcopato italiano”. Riecheggiano, nel testo, più d’una volta le parole usate dall’allora arcivescovo di Buenos Aires quand’era alla guida della Conferenza episcopale argentina.

Si richiama a Paolo VI quando invoca partecipazione e collegialità, quando esorta i vescovi – lasciando da parte il testo dattiloscritto – a discutere, a dire ciò che sentono, senza timori o paure. Da loro pretende unità, che come ricordava Montini è “questione vitale per la chiesa”. E’ lontana l’eco di un altro commissariamento, quello operato da Giovanni Paolo II a Loreto nel 1985. Allora, il Pontefice polacco rovesciò la direzione di marcia dicendo che la chiesa italiana doveva avere “un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino della nazione verso il suo futuro”. Il Papa gesuita, anziché ai piani pastorali che servono (ma senza dimenticare che “la nostra fiducia è riposta altrove”) pone l’accento sulla dimensione pastorale, punta a tornare “all’essenziale della fede”, ricorda che servire il Regno richiede di “essere decentrati rispetto a se stessi, protesi all’incontro”, ché questa è “la strada per ritrovare veramente ciò che siamo: annunciatori della verità di Cristo e della sua misericordia”.
Misericordia che mai deve essere disgiunta dalla Verità, come scrisse Benedetto XVI nella Caritas in Veritate. “Senza la Verità, l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria discrezione” e alla fine viene scambiato per “una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali”. E’ il pastore triste e fragile,  disorientato e il cruccio di Francesco. Guarda i vescovi e li richiama al dovere di rifuggire da quelle tentazioni che “diversamente ci sfigurano”, come le chiacchiere, le lamentele che tradiscono intime delusioni. E poi la durezza di chi giudica senza coinvolgersi e il rodersi della gelosia, l’accecamento indotto dall’invidia, l’ambizione che genera correnti, consorterie e settarismi”. Tutti aspetti che contribuiscono a “lacerare la tunica, a scandalizzare, a deturpare il volto del Signore e a dilaniare la sua chiesa”. Lo sguardo del Papa, ancora una volta, si posa sulle tante parrocchie rette da quei “preti tristi” sui quali mise in guardia nella messa crismale del 2013, quando da poche settimane era stato eletto al Soglio; preti “spesso provati dalle esigenze del ministero e anche scoraggiati dall’impressione dell’esiguità dei risultati”. Uomini che vanno educati, dice il Papa, “a non fermarsi a calcolare entrate e uscite”. Se non c’è allegria, se si narra Gesù “in maniera lagnosa”, si corre il rischio di cadere in quelle tentazioni che minacciano ogni pastore. Compresa “la fretta pastorale”, che al pari dell’accidia porta all’insofferenza, “quasi tutto fosse soltanto un peso”.


Guerre vaticane intorno al Papa   
Il Fatto Quotidiano
 
(Marco Politi) Basta ripercorrere alla moviola la lunga teoria di volti vescovili preoccupati, perplessi, tesi e a tratti irritati, che sono apparsi sugli schermi televisivi mentre il pontefice parlava alla Cei, per capire che il 19 maggio è stata una giornata fuori dall’ordinario nella storia dell’episcopato italiano. 
Chi ha seguito Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco nei loro viaggi in Italia e all’estero conosce bene il rombo di un applauso scrosciante. Lunedì non se ne coglieva traccia nell’aula del Sinodo. L’applauso finale in parecchi settori dell’emiciclo si è limitato al minimo sindacale. È un segnale d’allarme. Molti media, drogati dalla campagna elettorale, hanno piegato in chiave italiana l’appello papale a non cedere al “catastrofismo” quasi che Bergoglio volesse tirare la volata al giovane Renzi. Non è così. Papa Francesco si riferiva all’“emergenza storica” della miseria e del precariato crescenti in tutto il pianeta, sottolineando l’esigenza che i vescovi nella stagione attuale non si fermino al piano “pur nobile” delle idee, ma sappiano entrare nella realtà con gesti concreti per dare un contribuito a trovare vie d’uscita da una situazione – globale – che schiaccia sempre più la maggioranza degli esseri umani. Prima ancora dell’aspetto sociale, tuttavia, la “predica” del papa argentino si è indirizzata ai vescovi in carne e ossa, al loro modo di presentarsi, al loro modo di agire, alla loro attitudine o meno di creare comunità intorno a sé, valorizzando il ruolo dei laici e la presenza delle donne e dei giovani. 
È chiaro che il pontefice venuto “dalla fine del mondo” chiede alle gerarchie italiane una gigantesca operazione di riconversione, uno sforzo grandioso per abbandonare ogni tentazione di sentirsi “potentati” nella loro realtà sociale (piccoli, medi o grandi non importa) allo scopo di porsi di fronte all’umanità contemporanea semplicemente nella veste di discepoli di Cristo. “Il vostro annuncio sia cadenzato dall’eloquenza dei gesti”, ha esclamato. Ribadendo subito dopo: “Mi raccomando: l’eloquenza dei gesti”. Come dire che senza la testimonianza concreta di una diversità di vita e di azioni l’annuncio della Buona Novella non arriva. 
Evidentemente nell’anno trascorso Francesco non ha avvertito nell’episcopato una prontezza a seguirlo. Semmai ha colto una filiale inerzia nel dirgli pubblicamente sempre di sì, rimanendo fissi sulle proprie posizioni abitudinarie. Questo spiega l’irritazione del pontefice, tradottasi nella decisione senza precedenti di non limitarsi – come facevano i suoi predecessori – a indicare dietro le quinte la linea al presidente della Cei, suggerendogli gli accenti da far risuonare nella relazione introduttiva, ma di arrivare a prendere la parola subito all’inizio dell’assemblea dei vescovi per mostrare chiaramente l’orizzonte in cui muoversi. 
Non è stata un’operazione indolore. L’assenza di qualsiasi riconoscimento al lavoro svolto dalla conferenza episcopale, l’insistito elenco degli errori (le “tentazioni”) da cui i vescovi italiani sono chiamati ad emendarsi, sono fattori destinati a loro volta a suscitare irritazione negli ambienti prelatizi. E ad alimentare la sorda opposizione di quei settori vescovili e cardinalizi, che nutrono la guerriglia antipapale del “Foglio” e di una massa di siti web contrari al papato argentino, accusato di semplicismo, demagogia e scarsa profondità teologica. 
Una guerra sotterranea è in corso in Vaticano e nella Chiesa universale intorno al progetto di riforme di Francesco. La palese dissonanza prodottasi tra il papa e una parte della conferenza episcopale italiana rappresenta una novità nel panorama ecclesiale. Certamente non gradevole. Certamente in grado di rendere più ostacolato il processo di riforma. 
L’andamento del dibattito mostrerà quanti saranno in concreto i vescovi in seno alla Cei, pronti a spendersi per appoggiare e realizzare i cambiamenti profondi richiesti da Francesco. Rispetto a decadi precedenti il cardinale Bagnasco ha cercato senza dubbio di governare la Cei in maniera meno autoritaria, ma qui serve – Francesco lo esige – un soffio di libertà di dibattito e di proposte, tipico della stagione del concilio Vaticano II, che l’attuale struttura della Cei finora non ha consentito. Ieri ha preso la parola il cardinale-presidente Bagnasco. Non è sfuggito che a proposito della futura modalità di scelta del presidente egli abbia aperto uno spiraglio a correzioni o eventualmente a “forme nuove” rispetto alla chiusura dei mesi scorsi. La vecchia proposta prevedeva che il presidente, dopo un sondaggio fra tutti i vescovi, venga sempre scelto dal pontefice. L’assemblea avrà il coraggio di arrivare a una vera e propria elezione?

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