Quando Francesco ha piantato l'ulivo insieme a Shimon Peres nel giardino della presidenza dello Stato d'Israele, in molti tra gli ebrei – laici soprattutto, ma anche religiosi - hanno visto nel gesto una volontà profonda del papa argentino di impegnare tutta la sua autorevolezza (in crescita esponenziale ogni giorno che passa). Un gesto che arrivava a poche ore dall'annuncio dell'incontro di preghiera di Roma, evento formalmente religioso ma immerso per intero dentro una concreta prospettiva politica di pace che per il Medio Oriente, e in particolare nello spicchio compreso tra il Sinai, il Giordano e il Mediterraneo, appare e scompare ormai da oltre un secolo. Ma dentro il mondo ebraico le posizioni sull'evento sono davvero molto diverse le une dalle altre.

Come ha raccontato Pagine Ebraiche – mensile dell'Ucei appena uscito – nel rabbinato italiano varie sono le sensibilità. Per Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, c'è stata confusione nel viaggio del Papa in Terra santa tra politica e religione. «Il Vaticano è parte in causa in questo conflitto e non può ergersi come mediatore super partes» ha detto il rabbino, che oggi non sarà in Vaticano per precedenti impegni. Inoltre rileva come possa essere considerato un incontro religioso quello di oggi che vede la presenza di Peres «che non mi sembra un assiduo frequentatore di luoghi di preghiera e che mi sorprenderebbe iniziasse ad esserlo a causa del papa. È un'impostazione alla quale quadro non soltanto con perplessità ma che trovo anche pericolosa».
Più ottimista il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Momigliano, che ha riconosciuto a Bergoglio uno sforzo positivo di equidistanza tra le parti in conflitto e ha dato atto dell'importanza dei gesti del pontefice al memoriale di Yad Vashem quando ha baciato le mani ai sei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Decisamente molto positivo il rabbino capo di Firenze, Joseph Levi – che sarà presente all'incontro e che conosce bene da anni il rabbino argentino Skorka, lo storico amico del Papa - che vede nell'iniziativa un legame storico con il sogno di Giorgio La Pira, «che rivoluzionò il concetto di dialogo».
Un plauso all'evento è espresso dal rabbino David Rosen, responsabile del dialogo interreligioso per l'American Jewish Committee – anche lui presente a Roma - che però sottolinea, intervistato da Avvenire: «Rimango abbastanza scettico. Non lo nego: se Papa Francesco avesse invitato il primo ministro Benjamin Netanyahu l'evento avrebbe avuto molto più impatto». E qui si torna alla politica: il premier israeliano è decisamente contrariato dalla partecipazione di Peres, che tra pochi giorni lascerà l'incarico di presidente (anche se ci sono problemi politici per l'elezione del successore), e non a caso secondo gli osservatori giusto tre giorni fa ha annunciato nuove costruzioni di case negli insediamenti a Gerusalemme est, congelate da mesi.
L'incontro di Roma vede un papa eletto da poco incontrare due presidenti senza poteri e quindi non in grado di prendere anche solo degli impegni. Ma l'importanza dei gesti è tutta in questa fase, tema questo sottolineato da Renzo Gattegna, presidente dell'Ucei, anche lui oggi presente in Vaticano. Dice Gattegna: «Ricordo che il Papa Bergoglio ha già pronunciato e scritto parole molto molto chiare per esprimere le sue intenzioni e i suoi sentimenti verso gli ebrei. Tutto ciò è stato esplicitato nella Evangelii Gaudium».
Per Riccardo Pacifici, presidente della Comuntà ebraica di Roma, «questo momento di preghiera che ci apprestiamo a compiere ci ricorda come alla base di ogni trattativa politica debbano esserci i valori condivisi e il rispetto nei confronti del prossimo. L'iniziativa di Papa Francesco dovrà però essere solo il primo tassello di un lungo percorso».
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-06-08/entusiasmi-e-perplessita-mondo-ebraico-140222.shtml?uuid=
(a cura Redazione "Il sismografo")
(Luis Badilla) Nulla sappiamo di ufficiale anche perché forse pensiamo a cose ancora inesistenti. Le nostre sono solo ipotesi senza riscontro. Sappiamo sì che Papa Francesco "no da puntadas sin hilo" (proverbio latinoamericano), e cioè "non passa mai l'ago senza il filo". Perché? Semplicemente perché è chiaro che con la sua proposta di offrire la "sua casa" per stare insieme e pregare invocando la pace in Medio Oriente, il Papa ha individuato una strada nuova, drammaticamente urgente e necessaria, per costruire questa desiderata pace. I molti decenni alle spalle dimostrano che la sola politica si è rivelata insufficiente per raggiungere la pace. Forse in molti, e per troppo tempo, hanno dimenticato o sottovalutato il fatto che si tratta di un conflitto in Terra Santa. Forse una più attenta considerazione del profondo significato di questa realtà, Terra Santa, avrebbe dato alla soluzione una grande spinta aggiuntiva e più solida. Non è mai troppo tardi.
Questa strada di Papa Francesco passa prima attraverso la fiducia reciproca; fiducia che rassicura le parti, i popoli protagonisti, sul fatto che si rispettano e che sono certi e garantiti a vicenda che nessuno vuole distruggere l'altro. Oggi tutto sarà come previsto e anticipato. Domani però, seppure impercettibilmente, comincerà a germogliare un nuovo clima, lentamente, gradualmente, tra alti e bassi, e non solo tra i responsabili politici. Molte cose cominceranno a cambiare nelle componenti della società israeliana e palestinese e non resterà senza conseguenze il fatto che nelle Delegazioni dei due Paesi vi siano folte rappresentanze di rabbini e dignitari musulmani, gran parte dei quali non avrebbe mai varcato la porta vaticana per nessun altro motivo. E su ciò che hanno visto e ascoltato nella "casa del Papa" parleranno ai loro popoli.
Certamente l'Invocazione per la pace di oggi non resterà un'iniziativa isolata anche se straordinaria. E' sicuro che dopo le maturazioni cronologiche necessarie seguiranno altre iniziative e il Papa avrà l'autorevolezza per proporle e farle accettare. Non saranno iniziative politiche. Nel cuore del Papa non esiste nessun progetto politico che, lui lo sa bene, spetta ai responsabili eletti democraticamente dai rispettivi popoli con l'adeguato sostegno della comunità internazionale. 
Quello che resta all'orizzonte è sempre l'assioma all'origine della proposta che si realizza oggi: creare fiducia reciproca per togliere al conflitto, che resta intatto nelle sue caratteristiche complesse e delicate, ogni rivalità estrema, incancrenita, ragion per cui chi deve negoziare e dialogare, in partenza, ritiene l’altro non un interlocutore ma un "nemico" da abbattere o sopprimere. Oggi occorre di più, molto di più: sentirsi e parlarsi come fratelli anche nel disaccordo e nella controversia. Essere convinti a vicenda che se si vuole vivere insieme nel rispetto delle differenze, la pace e la collaborazione vere sono le uniche vie autentiche e durature.
http://ilsismografo.blogspot.it/2014/06/vaticano-invocazione-per-la-pace-primo.html

“Invocazione per la pace” dai Giardini Vaticani

Pubblicato dal “Corriere della Sera” dell’8 giugno 2014

La “Invocazione per la pace” che si tiene stasera nei Giardini Vaticani è un fatto senza precedenti: somiglia alle “Giornate interreligiose di Assisi” (1986, 1993, 2002, 2011) ma è diversa per il luogo, il fine, i protagonisti e soprattutto per la partecipazione attiva dei presidenti di Israele e della Palestina. Con questa iniziativa Francesco si pone a erede creativo dello “spirito di Assisi” e fa compiere un passo avanti all’impresa di coinvolgere le fedi nella costruzione della pace che fu avviata da Papa Wojtyla e che Papa Ratzinger aveva già fatto sua.
Vi saranno tre “preghiere per la pace in Terra Santa” proposte dal Papa, da Shimon Peres e da Mahmoud Abbas che conosceremo quando verranno pronunciate, cioè verso le 19,30; ma già conosciamo i testi base dell’invocazione delle tre “delegazioni” religiose – composte di ebrei, cristiani e musulmani – pubblicati ieri dalla Sala Stampa Vaticana. Tra essi fa spicco l’audacia del testo cristiano: vi è una marcata richiesta di perdono per le guerre promosse dai cristiani e vi è affermato un forte impegno per la costruzione della pace.
“Siamo convenuti in questo luogo, Israeliani e Palestinesi, Ebrei, Cristiani e Musulmani, per offrire la nostra preghiera di pace per la Terra Santa e per tutti i suoi abitanti”: questa sarà la “monizione” iniziale, cioè l’annuncio dato da un conduttore del rito. Saranno presenti una sessantina di persone, in una zona dei Giardini che si trova tra la Casina di Pio IV e l’ala lunga dei Musei. In un ruolo di co-protagonista accanto a Francesco, Peres e Abbas ci sarà il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo.
L’incontro Papa Bergoglio lo voleva fare nei giorni della visita alla Terra Santa (24-26 maggio) dov’era andato a ricordare, con Bartolomeo, l’abbraccio che laggiù si erano scambiati Paolo VI e Atenagora nel 1964, cioè mezzo secolo fa. Ma non è stato possibile trovare un accordo sul luogo e allora il Papa ha invitato i due presidenti a venire a Roma per questa preghiera a tre: “Offro la mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro”, aveva detto prima a Betlemme e poi a Tel Aviv.
“Non è un incontro interreligioso”, è stato spiegato dagli organizzatori, tra i quali ha avuto un ruolo guida il francescano Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa: “E’ un incontro di preghiera dei due popoli, israeliano e palestinese, all’interno dei quali sono presenti ebrei, cristiani e musulmani”. I due popoli sono impersonati dai due presidenti, che sono credenti, uno ebreo e l’altro musulmano, mentre la componente cristiana è impersonata dal Papa e da Bartolomeo (i cristiani di Terra Santa, infatti, sono sia “latini” sia “orientali”).
I presidenti arrivano per l’incontro e ripartono subito dopo. Saranno ricevuti dal Papa al Santa Marta, dov’è la sua residenza abituale, ovvero la sua “casa”, a partire dalle 18,15. Per l’atto di preghiera sono stati scelti i Giardini come il luogo, in Vaticano, più sgombro di simboli religiosi.
Le tre delegazioni pregheranno nell’ordine in cui le fedi abramiche (cioè di quanti si richiamano alla figura del Patriarca Abramo) sono apparse nella storia: prima gli ebrei, poi i cristiani, infine i musulmani. Ognuna delle preghiere avrà un momento di lode a Dio, una richiesta di perdono, una domanda di pace. Nella richiesta di perdono il testo cristiano è il più impegnativo dei tre: utilizza passaggi della “confessione di peccato” per le colpe storiche dei credenti in Cristo compiuta da Giovanni Paolo II in San Pietro il 12 marzo 2000 e vi aggiunge un accenno alle specifiche responsabilità dei cristiani nelle vicende storiche della Terra Santa: “Abbiamo intrapreso guerre, compiuto violenza, insegnato il disprezzo per i nostri fratelli e sorelle”.
Gli ebrei e i musulmani fanno richieste di perdono molto più generali, senza indicazione di fatti concreti. Del resto questa maggiore disponibilità dei cristiani a riconoscere i propri torti è già nota e forse durerà ancora nel tempo, almeno fino a che il conflitto israelo-palestinese impedirà a ebrei e musulmani di abbassare la guardia. Ma è già un buon segno che l’incontro di stasera, al quale Francesco teneva appassionatamente, si sia potuto fare. Esso – ha detto il padre Pizzaballa ai giornalisti – “non è un atto politico: è un gesto forte, posto da uomini credenti, rivolto a Dio ma finalizzato anche a riportare nella discussione politica e diplomatica quel respiro ampio, di visione dall’alto e verso l’altro, che spesso manca”.
Luigi Accattoli
www.luigiaccattoli.it
Preghiera israelo-palestinese in Vaticano: un gesto religioso, un fine politico
di Antonio Livi08-06-2014Bandiere israeliana e palestinese
Il 25 maggio scorso papa Francesco rivolse ai presidenti dell’Autorità Palestinese (Mahmoud Abbas) e dello Stato di Israele (Shimon Peres) l’invito a riunirsi con lui in Vaticano per «elevare insieme un’intensa preghiera invocando da Dio il dono della pace». La riunione, alla quale si è unito anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli (Bartolomeo I), si svolge oggi, solennità della Pentecoste, e costituisce un evento eccezionale per tanti motivi.

Il primo di questi motivi è propriamente religioso, ed è legato alla persona di papa Francesco, alla sua grandissima popolarità, sia dentro che fuori dei confini della Chiesa cattolica; è appunto questa popolarità che ha fatto sì che la recente visita del Santo Padre alla Terra Santa sia stata oggetto di attenzione da parte di tutti i media e abbia provocato sentimenti di speranza in ogni parte del mondo. La prossima riunione di preghiera in Vaticano si colloca in immediata continuità con quel viaggio apostolico.

Un secondo motivo è invece storico-politico, ed è la delusione che per decenni l’opinione pubblica mondiale ha sofferto di fronte ai vari tentativi della diplomazia internazionale e dei principali protagonisti della politica mondiale (i segretari dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, i presidenti degli Stati Uniti d‘America) per mettere fine al conflitto tra lo Stato di Israele e i palestinesi, sostenuti in diverso grado dai Paesi arabi vicini (Giordania, Libano, Siria, Egitto). 
Entrambi questi motivi finiscono per focalizzare l’attenzione sull’impegno della Santa Sede – e in prima persona del Papa stesso – per la promozione della pace in quella regione del Medio Oriente e più in generale nel mondo intero. Ora però, considerando in questa specifica prospettiva l’evento vaticano della Pentecoste di quest’anno, esso non risulta così straordinario, anzi si inscrive in una prassi  secolare.

Già i papi dell’età moderna, ad esempio Alessandro VI, presero delle iniziative pubbliche (arbitrati internazionali) per impedire che gli opposti interessi coloniali nelle Americhe provocassero un conflitto tra i regni cattolici di Spagna e di Portogallo. Analogamente, Pio IX, pur vedendo con favore il Risorgimento italiano, cercò in tutti i modi di evitare il conflitto armato tra il regno di Piemonte, appoggiato dall'impero di Francia, e l’impero Austriaco. Successivamente, sono noti gli sforzi di Benedetto XV per evitare la tragedia della Prima Guerra Mondiale (da lui denominata nel 1917 «inutile strage»), come anche quelli del venerabile Pio XII per scongiurare i conflitti europei che provocarono poi la Seconda Guerra Mondiale. Si tratta insomma di una tradizione di interventi dottrinali e anche diplomatici che Giovanni XXIII compendiò nella celebre enciclica Pacem in terris (1963); e che il suo successore, Paolo VI, commentò in uno storico discorso all’assemblea dell’ONU (4 ottobre 1965), mentre il grattacielo che ospita l’Organizzazione delle Nazioni Unite riportava, con un suggestivo gioco di finestre spente e illuminate, le parole “pacem in terris”.
Alcuni commentatori, ricordando gli incontri inter-religiosi di Assisi voluti da Giovanni Paolo II e continuati poi da Benedetto XVI, hanno voluto inserire l’evento di Pentecoste – che papa Francesco ha organizzato come “incontro di preghiera” - nella linea di queste iniziative di dialogo inter-religioso. Ma questa è una forzatura, perché il dialogo inter-religioso non ha finalità politiche (di pace tra i popoli e gli Stati) e nemmeno si serve di strumenti politici, come sono i colloqui di pace con le eventuali “road maps” e il coinvolgimento diretto delle autorità civili.

Quando la Chiesa cattolica promuove iniziative di  dialogo  “ecumenico” (che riguardano i rapporti con le altre confessioni cristiane, a cominciare con l’Ortodossia), esse sono esplicitamente finalizzate a ricostituire l’unità dell’unica Chiesa di Cristo, con il superamento di differenze dogmatiche e disciplinari. Quando poi la Chiesa cattolica promuove iniziative di dialogo “inter-religioso” (che riguardano i rapporti con le altre religioni del mondo, a cominciare con l’ebraismo), esse sono esplicitamente finalizzate a valorizzare ciò che le unisce (il riconoscimento di Dio come creatore e Padre di tutti) e a tentare di ottenere un reciproco riconoscimento dei rispettivi valori spirituali positivi e una più sincera ricerca della vera religione. Di per sé, insomma, il dialogo inter-religioso non ha – come ho appena detto - finalità propriamente politiche, come quando si tratta di operare a favore della pace tra i popoli e tra gli Stati, mettendo fine, come in questo caso concreto, al conflitto arabo-israeliano o israelo-palestinese. Nemmeno – come pure ho detto - si serve di strumenti politici, come sono gli accordi internazionali firmati dalle autorità civili in rappresentanza dei Paesi interessati. 
L’evento della domenica di Pentecoste del 2014 va visto pertanto come quello che effettivamente è: non un momento dell’azione ecumenica o inter-religiosa della Santa Sede ma una inedita riunione di preghiera che papa Francesco ha voluto organizzare nella “sua casa”, cioè in Vaticano, per facilitare il dialogo di pace tra le due parti in conflitto. Il capo della Chiesa cattolica inviterà i suoi ospiti, rispettivamente di religione ebraica e islamica, per ottenere da Dio la conversione dei cuori, la reciproca tolleranza, la rinuncia alla vendetta, l’interruzione della tragica spirale della violenza che ha fatto sì che agli atti terroristici di una parte si reagisse con rappresaglie sanguinose, a volte anche sproporzionate. La finalità è dunque politica (di altissima politica, di concreto e indiscutibile servizio al bene comune temporale) e non propriamente religiosa, anche se il mezzo principale adoperato – la preghiera – è squisitamente religioso e di fronte all’opinione pubblica mondiale dà testimonianza della fede in Dio creatore e provvidente, adorato come tale da tutte e tre le religioni lì rappresentate: il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.  
Nel giorno in cui la Chiesa invoca unitariamente lo Spirito Santo, che Gesù chiama «lo Spirito di verità» e «il Consolatore», noi credenti ci uniamo, con la nostra partecipazione alla solennità liturgica e con la nostra preghiera personale, alla persona e alle intenzioni del Papa. Mentre gran parte dei media vede nell’evento di domenica soltanto la dimensione politico-diplomatica, interpretando superficialmente la preghiera che il Papa farà con i rappresentanti dell’islam e di Israele come un gesto meramente retorico, noi la interpreteremo per quello che effettivamente è: un gesto religioso, ispirato dalla fede, che fa comprendere come la pace tra Israele e Palestina stia a cuore al capo della Chiesa cattolica, non per contingenti motivi geopolitici, ma perché Cristo, che è «il Principe della pace», vuole che la pace regni dappertutto, a cominciare dalla Terra Santa, dove è nato e vissuto, dove è morto e risuscitato, dove ha istruito i discepoli, prima della sua Ascensione al Cielo, inviandoli a evangelizzare tutto il mondo. Insomma, invece di interpretare la fede religiosa, quella di noi cristiani, come “instrumentum regni”, ossia come rivestimento retorico di mire meramente temporali, interpretiamo gli scopi temporali contingenti come espressione coerente di una fede che impegna alla carità operosa verso tutti e in ogni situazione storica.
Quanto al dialogo ecumenico e inter-religioso, vedremo presto come papa Francesco, sulle orme dei suoi predecessori – da Paolo VI a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI – continuerà a promuovere sempre più convintamente l’unità dei cristiani, espressamente voluta da Cristo stesso, attraverso il lavoro delle commissioni teologiche che da tempo studiano i punti dottrinali che ancora separano  la Chiesa cattolica dalle Chiese d’Oriente, e attraverso le riunioni interconfessionali del clero e del laicato destinate a favorire, con lo spirito di fraternità e con la preghiera, un difficile ma sempre possibile riavvicinamento delle comunità ecclesiali riformate alla Chiesa di Roma.

Continuerà papa Francesco il dialogo religioso con gli ebrei e con l’islam, portato avanti già nei diversi incontri che ha voluto avere con i rappresentanti di queste religioni in occasione del recente viaggio in Giordania e in Israele. E anche in occasione di tali future iniziative ecumeniche del Papa – come anche di quelle di carattere inter-religioso - noi saremo, come oggi, vicini al Papa. Pregheremo assieme a lui e per lui, e da lui impareremo come ci si deve impegnare, con sacrificio e perseveranza, interpretando rettamente i «segni dei tempi» e realizzando così la missione evangelizzatrice che, dopo la Pentecoste, è affidata da Dio a Pietro, al collegio apostolico e a ogni membro della Chiesa: perché sappiamo che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità».