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lunedì 11 agosto 2014

Duc retrorsum?

Iraq, il Vaticano torna alla guerra umanitaria

Cristiani d'Oriente
La preoccupazione per il destino della comunità cristiana in Iraq messa in pericolo dall'avanzata dell'Isis ha indotto il Vaticano a compiere una svolta politica pesante
“L'azione militare in questo momento è necessaria”. Sono parole inequivocabili quelle pronunciate da monsignor Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra, in merito alla crisi irachena. “E’ evidente – ha detto ancora il diplomatico del Papa precisando la linea del Vaticano - che ci sia l’urgenza di difendere anche fisicamente i cristiani nel Nord dell’Iraq, provvedere all’aiuto umanitario – acqua, cibo – perché i bambini stanno morendo, i vecchi stanno morendo, per mancanza di aiuti alimentari. Bisogna intervenire adesso, prima che sia troppo tardi”. Dunque se la guerra resta sempre “un'inutile strage” come ha ripetuto il Papa nel corso dell'angelus dello scorso 27 luglio, a questa impostazione c'è ora un importante eccezione: dal vaticano è arrivato il semaforo verde all'intervento militare americano. 
Quel giorno il pontefice si riferiva, nel suo netto rifiuto di ogni forma di conflitto armato, “a tre aree di crisi: quella mediorientale, quella irachena e quella ucraina”; “tutto si perde con la guerra, nulla si perde con la pace”, riaffermò papa Francesco. Ma la fuga dei cristiani dalla piana di Ninive, in Iraq, le notizie di aggressioni e massacri contro la minoranza Yazidi, hanno indotto il Vaticano a una svolta politica estremamente pesante e densa di conseguenze: si tratta del ritorno alla dottrina dell'ingerenza umanitaria o della guerra giusta, dell'azione di polizia internazionale per salvare civili innocenti promossa da Giovanni Paolo II di fronte alle crisi umanitarie in Bosnia e Somalia, e poi di fatto abbandonata o messa da parte dalla Chiesa di Roma. 

Le parole di monsignor Tomasi rappresentano il rovesciamento ideologico di una posizione che pure Bergoglio avevo preso: quella del totale rifiuto della guerra come strumento cui fare ricorso in circostanze particolarmente drammatiche nel contesto internazionale. Solo nel settembre scorso, infatti, Francesco lanciò una giornata di digiuno contro l'ipotesi di un intervento americano in Siria in seguito alle diffusione delle notizie sull'uso di armi chimiche da parte del regime di Assad contro i ribelli. All'epoca la comunità internazionale non era compatta sulla questione e lo stesso Obama apparve fin dall'inizio assai riluttante. E' possibile che in questa circostanza venga invece approvata una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu tale da garantire una sorta di copertura morale all'operazione, ma resta il fatto che per la Santa Sede il Medio Oriente si stra trasformando in uno scenario che rischia di trasformarsi un pantano. 

Il pacifismo di papa Francesco è forse anche nutrito da una certa diffidenza 'sudamericana' rispetto alle azioni militari promosse dalla Casa Bianca nel mondo; eppure la ferita inferta alla presenza cristiana in Iraq dall'Isis, la milizia fondamentalista che sta disarticolando il sistema degli Stati arabi, ha indotto il Vaticano a compiere una scelta. Non va dimenticato in questo contesto che il patriarca di Baghdad, Louis Sako, uomo che crede nel dialogo e nella convivenza fra le diverse religioni, ha parlato di un rischio “genocidio”. La Santa Sede, dunque, ha dato il suo placet ai raid in base a una minaccia specifica, quella contro i cristiani; in tal modo, a fronte di violazioni gravissime, ha deciso di correre un rischio: vale a dire stabilire una sorta di gerarchia etnica o religiosa fra le vittime bisognose d'aiuto nei conflitti del Medio Oriente. 

Tuttavia a parlare di opportuno intervento militare è stato pure il nunzio a Baghdad, monsignor Giorgio Lingua, personalità che non ha mai guardato alla crisi mediorientale di questi anni con gli occhi di un qualche ideologismo cristiano. Il nunzio ha sollevato però anche altre due questioni: la prima è quella relativa alla provenienza delle armi di questi “gruppi considerati terroristici”. “Non sono produttori di armi – ha detto - quindi da qualche parte devono pur arrivare. Credo che, innanzitutto, sia un fallimento dell’intelligence - questo è il punto principale - bisogna fermare, o controllare meglio questo aspetto, altrimenti non si finirà mai”. L'altro tema è quello dell'urgenza di dare vita, in Iraq, “ad un governo inclusivo”, perché “la democrazia non è la dittatura della maggioranza ma deve tenere conto anche delle minoranze”. Il riferimento, trasparente, è all'attuale premier Al Maliki, espressione della componente sciita dell'Iraq, appoggiato da Teheran, che ha escluso i sunniti dal governo del Paese. Significativo è anche il pensiero di un altro diplomatico vaticano, il rappresentante del Papa a Damasco, in Siria – dove l'Isis ha fatto la sua apparizione nel conflitto in atto - monsignor Mario Zenari. Quest'ultimo colloca con precisione temporale la comparsa dei promotori del Califfato sulla scena: “Come altre volte ho ricordato – ha affermato di recente - durante il primo anno di questa rivolta (in Siria, ndr) non si vedevano particolari problemi. I problemi sono arrivati l’anno seguente ed il terzo anno, con la venuta di elementi estremisti ultraradicali provenienti da fuori”. Zenari ha precisato che i fautori dello Stato islamico non solo stanno perseguitando i cristiani ma stanno facendo saltare in aria anche “alcune moschee”. 

Francesco ha deciso ora di mandare a Baghdad un suo rappresentante, il cardinale Fernando Filoni – nunzio apostolico nella capitale irachena ai tempi della guerra del Golfo – e sta cercando di lanciare una nuova iniziativa diplomatica per il prossimo settembre. La realtà dei fatti sta mettendo nell'angolo la posizione del 'no' alla guerra per costringere la Chiesa ad assumere una lettura più concreta e forse meno profetica e più istituzionale, della crisi che si sta sviluppando in Medio Oriente. D'altro canto dopo la caduta del Muro di Berlino anche la definizione della guerra quale strumento “contrario alla ragione” (Giovanni XXIII) e il 'jamias plus la guerre' di Paolo VI, sembrano mostrare i loro limiti nel caos del nuovo disordine mondiale. E' stato Giovanni Paolo II a porre la questione in termini nuovi di fronte ai massacri cui erano sottoposti i bosniaci (in gran parte musulmani) nel conflitto balcanico dei primi anni '90 (l'intervento umanitario); la dottrina dell'uso della forza secondo il diritto internazionale venne poi inserita anche nel messaggio per la pace del primo gennaio 2000. Papa Francesco ancora non ha enunciato personalmente parole così esplicite ma le ha fatte dire ai suoi più alti rappresentanti. Domenica scorsa, però, ci è andato molto vicino quando all'angelus ha chiesto che si trovi una soluzione politica e diplomatica alla crisi per “fermare questi crimini e ristabilire il diritto”.

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