ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 6 agosto 2014

Una resa incondizionata al mondo


INSTAURARE omnia in Christo


1. Precisazione terminologica preliminare. È opportuno, prima di entrate nel merito della questione, chiarire il significato delle parole, poiché – particolarmente nel notro tempo – esse non «dicono» quasi mai le medesime cose. Il termine «mondo» non è usato, nel titolo, con significato metafisico, vale a dire come ordine delle cose create, ma con significato morale, cioè come prodotto delle scelte dell’uomo suggerite dal Maligno. Si tratta di quel «mondo» che ha odiato Gesù Cristo e che continua, in mille modi, a odiare i suoi seguaci e al quale san Giacomo raccomanda di non conformarsi. Nessun pessimismo «teoretico», quindi. Nessun dualismo manicheo. Il «mondo» non è la creazione (che è buona, cioè positiva); non è la storia, tutta la storia. Esso è la zizzania che cresce, fino al tempo della mietitura, con il grano. Fa parte dell’esperienza umana, ma non è la verità dell’uomo e sull’uomo.

2. Premessa. La «resa incondizionata al mondo» non riguarda solamente gli aspetti strettamente morali, ma anche le opzioni intellettuali. I cedimenti, infatti, sono sempre e necessariamente primieramente «teorici»; solo successivamente «pratici». È quanto si può rilevare considerando il linguaggio oggi usato anche da parte di chi, per ragioni legate al suo ufficio, dovrebbe essere particolarmente attento al significato delle parole usate. Così, per esempio, non è corretto parlare di «secondo matrimonio» dei divorziati, di «donna risposata» in presenza del suo matrimonio valido (anche se non «riuscito»). Le cose hanno un «nome», cioè un’essenza e un significato. Le «donne risposate» sono adultere; il «secondo matrimonio dei divorziati» è un’unione adulterina, che non può essere chiamata «matrimonio». Sbagliano, per esempio, a questo proposito sia Papa Francesco (1) sia il cardinale Walter Kasper a usare questo linguaggio. Non si tratta di «lapsi linguae» ma di «scelte concettuali» che rivelano, attraverso il linguaggio, un «non-pensiero», vale a dire rivelano che siamo in presenza di un nominalismo puro, che solo impropriamente può essere definito «pensiero».
   Il fatto che oggi ci sia un’adesione generalizzata al cosiddetto «pensiero postideologico» (che pensiero non è!) evidenzia proprio questo. Si insiste, infatti, anche all’interno della Chiesa sulla opportunità di non «ribadire la dottrina» (Kasper) anche se poi, contraddittoriamente rispetto a questa premessa, la si invoca come «dottrina diveniente», storicistica. Parlando per metafore (come ama fare Kasper), la si identifica con il «torrente che scaturisce dalla fonte del Vangelo». 
3. La prima questione: Verità, Rivelazione, Storia. Per capire le tesi del cardinale Walter Kasper contenute nella sua Relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia del 20 febbraio 2014 è opportuno considerare quanto esso scrive nelle sue opere; in particolare nel suo interessante ma discutibilissimo lavoro Gesù, il Cristo, pubblicato in tedesco nel 1974, recentemente tradotto in italiano dalla Queriniana di Brescia.
   Per quel che riguarda la questione “Verità. Rivelazione, Storia” il libro offre pagine utilissime per comprendere quanto sinteticamente affermato nella citata Relazione, nella quale il cardinale Kasper afferma:
a) che la dottrina della Chiesa, in particolare quella su matrimonio e famiglia, non va ribadita, perché essa è un patrimonio costituito e che si costituisce storicamente: è «una tradizione viva che oggi […] è giunta a un punto critico e che, in vista dei “segni dei tempi”, esige di essere continuata e approfondita».
b) che in particolare la dottrina sull’indissolubilità del matrimonio «non può essere intesa come una sorta di ipostasi metafisica accanto o al di sopra dell’amore personale dei coniugi».
c) che non si deve partire – soprattrutto nella situazione attuale – da un elenco di insegnamenti e di comandamenti.
d) che i Comandamenti non sono da intendere come un onere e una limitazione della libertà. Essi «sono indicazioni sul cammino per una vita felice e realizzata. Non possono essere imposti a nessuno, ma possono essere proposti a tutti […] come cammino per la felicità».
   Per comprendere la genesi e il significato di queste singolari affermazioni del cardinale Kasper, è necessario innanzitutto prendere atto che per l’autore – lo si deduce soprattutto dal citato libro Gesù, il Cristo – ogni questione è e pone solamente un problema ermeneutico. Non si tratta, però, di «interpretare» la realtà; al contrario la realtà è costituita dall’interpretazione. Così, per esempio, il Vangelo non riferisce oggettivamente quanto insegnato da Gesù Cristo ma riporta il suo insegnamento come «letto» dalla primitiva comunità cristiana. Il Vangelo, pertanto, non è un documento storico. Esso può essere definito una testimonianza storica solamente perchè le comunità cristiane agiscono nella storia. Il Vangelo è solamente testimonianza della loro fede, la quale non è adesione a Cristo e al suo insegnamento ma alla figura del Cristo elaborata dall’interpretazione della comunità. È la comunità, quindi, che «crea» il contenuto del Vangelo, il quale cambia con il cambiamento dell’interpretazione ovvero delle elaborazioni: il Vangelo, insomma, è soggetto a un’evoluzione e soprattutto a un’elaborazione «dal basso».
     Ne consegue che la «verità» (il contenuto della «fede») è assolutamente storico; esso evolve con i cambiamenti (credenze e mode di pensiero e di azione) che si succedono nella storia. Per questo, per esempio, si è ritenuto opportuno recentemente rilevare con questionari il modo di pensare e di agire dei «fedeli» (che sono «fedeli» solamente a se stessi). Il Vangelo resta lo stesso (è sempre l’annuncio della buona novella) ma alla condizione che esso cambi continuamente e storicamente. Si comprendono, alla luce di questa Weltanschauung, le affermazioni di fedeli e di sacerdoti secondo le quali la Chiesa avrebbe una dottrina archeologica (quella del passato) e una dottrina attuale (quella che si è affermata e si mantiene tale nel tempo presente), le quali possono essere diverse e persino contraddittorie.
     Ne consegue, inoltre, l’assoluta democraticità della Chiesa. La Chiesa avrebbe anticipato la democrazia moderna che pretende di creare la verità, i criteri della moralità e la giustizia. La verità che nasce «dal basso» altro non può essere che il frutto delle «deliberazioni» del popolo (definito di Dio). Le Chiese particolari, erroneamente identificate con le comunità di base, elaborano il loro Credo, che non è necessariamente quello della Chiesa spregiativamente definita istituzionale. Il Credo è, pertanto, «creato» dalla comunità che si autodefinisce «chiesa locale» (2).
       Ne consegue, però, soprattutto che Storia e Rivelazione coincidono. La Storia sarebbe l’epifania di Dio; sarebbe una sola e tutta sacra. Nell’effettività bisognerebbe «leggere» la volontà di Dio.
   L’ipoteca del razionalismo, in particolare di quello hegeliano, è evidente: l’effettività è erroneamente considerata realtà e la realtà effettuale razionale. La Storia non va giudicata (sulla base di queste premesse non sarebbe, del resto, possibile farlo), perché essa si autogiustifica. Il misterium iniquitatis non sarebbe più tale, perché il male non esisterebbe. Se l’effettività storica è l’epifania di Dio, la rivelazione di questi va colta facendo attenzione a ciò che si afferma (progressismo): si impongono divorzio e aborto? Questi sarebbero voluti da Dio. Si impongono regimi totalitari? Questi sarebbero voluti da Dio. E si badi bene: non nel senso che Dio li permette e li tollera, ma nel senso che sono un bene da lui voluto. Letta così, la Storia diventa veramente giustificatrice. Dio e «mondo» (inteso come Storia) sarebbero una cosa sola. Si ha l’impressione, leggendo la citata Relazione del cardinale Kasper, che l’autore faccia propria questa Weltanschauung che la cosiddetta «cultura tedesca» ha diffuso e dalla quale «dipendono» anche gli «aggiornatori» della Chiesa contemporanea.
     È chiaro che la tradizione che pure Kasper richiama e invoca, non è la Tradizione della Chiesa né la tradizione nel senso filosofico, quella che «consegna» alle generazioni beni e valori. Essa è, piuttosto, la tradizione storicistica, quella che chiede di non interrompere lo «sviluppo», la continuità di un processo, il cui contenuto non è rilevante. La continuità e l’approfondimento invocati dal cardinale Kasper sono criteri di rottura rispetto alla vera tradizione, poiché trasformano il «deposito» ricevuto in patrimonio di volta in volta costruito.
4. Una seconda questione: il matrimonio. In realtà per quel che riguarda il matrimonio, la Relazione del cardinale Kasper pone più di una questione. Innanzitutto Kasper sostiene che non va ribadita la dottrina della Chiesa a questo proposito. Non ribadirla significa abbandonarla. In secondo luogo sostiene che l’indissolubilità del matrimonio non è una «ipostasi metafisica». Il che significa che l’indissolubilità non sarebbe intrinsecamente essenziale al matrimonio (ammesso – ma si può dubitare – che nel pensiero del cardinale Kasper si possa coerentemente parlare di natura del matrimonio). In terzo luogo l’autore pone la questione relativa al cosiddetto amore personale dei coniugi e sembra affermare il primato del sentimento sull’istituto matrimoniale con conseguenze di non poco conto a talune delle quali si accennerà brevemente.
     La questione è, poi, complicata dall’osservazione/affermazione secondo la quale la differenza dei sessi è ontologica: «l’essere uomo e l’essere donna – afferma giustamente Kasper – sono fondati ontologicamente nella creazione». Osservazione, questa, che sottrarrebbe la differenza all’ermeneutica cultural-storicistica, mettendo in difficoltà l’intera intelaiatura sulla quale poggia la Relazione Kasper.
     Andiamo per gradi. Innanzitutto si deve osservare che la Chiesa – lo riconosce anche Kasper – ha una dottrina non storicistica del matrimonio; dottrina che è di diritto naturale oltre che di ordine rivelato. Essa, quindi, è valida anche per il non battezzato. Il matrimonio (l’istituto del matrimonio), pertanto, non è nella discrezionalità di alcuno; esso non è «modificabile» per via ermeneutica, con interpretazioni cioè più o meno «clericali», come suggeriscono alcuni Cardinali per venire incontro al «mondo» sempre più lontano dalla Chiesa e dalla realtà ontologica della «cose».
     L’organizzazione del matrimonio (e della famiglia) è storica; non sono storiche la sua natura e le sue finalità. Se si nega la sua natura (e la possibilità di conoscerla), esso diventa istituto convenzionale. Sulla base delle convenzioni nessuno è legittimato ad imporre (nemmeno attraverso il diritto positivo) i suoi convincimenti, le sue preferenze, le sue opzioni. È per questo che nemmeno la Chiesa sarebbe legittimata a insegnare e a difendere la propria dottrina del matrimonio se questa fosse il prodotto di un processo «democratico» come quello cui si è accennato.
     Come, dunque, risolvere il problema che Kasper pone circa quello che viene erroneamente chiamato «matrimonio dei divorziati»? Certamente esso non può essere risolto adottando la metodologia proposta da Kasper che si appella alla cosiddetta «struttura sacramentale» della Chiesa. La Chiesa, in nome della pastorale, non può violare l’ordine della creazione né alterare il «deposito» affidatole da Gesù Cristo e che può essere oggetto di interpretazione ma non costituito da questa.
     Affermare che l’indissolubilità del matrimonio non è una ipostasi metafisica, significa ammettere che il matrimonio sia solubile come solubile è il fidanzamento. Il che è contro la natura del matrimonio il quale è donazione personale, totale, reciproca. Ora la donazione non può essere temporanea. In questo caso sarebbe un prestito, il quale, se utilizzato per il matrimonio, renderebbe la persona strumento (cosa) e non fine (soggetto).
     La terza questione posta dalla Relazione Kasper, quella che individua nel matrimonio un istituto «al di sopra dell’amore personale dei coniugi» e quindi un possibile ostacolo all’amore romantico, è posta, a nostro avviso, in modo erroneo. Essa rivela innnanzitutto una visione riduttiva dell’amore: viene omessa, infatti, ogni considerazione relativa all’amore oblativo che è amore più alto e più generoso di quello romantico.
     Se il matrimonio, poi, trovasse il proprio presupposto solo nell’amore romantico esso sarebbe un’unione subordinata alla «passione» e da questa continuamente dipendente. Esso sarebbe (e dovrebbe essere) certificazione di una amore «esistente» come sentimento di un’unità «superiore», ma resterebbe legato a quella che, per esempio, Hegel chiama la «vivezza naturale» che per il filosofo tedesco si esprime nella generazione e nel processo di essa e che diventa amore spirituale solamente in quanto autocoscienza della sua interna sessualità naturale (3). Avrebbero ragione, sulla base di una simile premessa, coloro che sostengono che al matrimonio andrebbe sostituita la coppia la quale è indissolubile fino a quando è tale, coppia … appunto. In realtà, dunque, per essere coerenti, bisognerebbe ammettere sia la dissoluzione del matrimonio sia la contraddizione del divorzio che sarebbe, come il matrimonio, un ostacolo (almeno) procedurale all’accertamento della fine del matrimonio, legata alla fine del sentimento «romantico» di coppia. Il cardinale Kasper sembra dipendere totalmente nelle sue affermazioni sul matrimonio dalla dottrina del personalismo contemporaneo che identifica, in ultima analisi, la persona con la sua volontà e che solo contraddittoriamente può ammettere l’istituzione, qualsiasi istituzione, anche quella del matrimonio. È un errore, questo, che deriva dalla cultura egemone che, nel nome della liberazione dell’uomo, rende l’uomo animale (non razionale).
 5. Struttura sacramentale della Chiesa e matrimonio. Il cardinale Kasper sembra avere coscienza che la dottrina del personalismo non può essere interamente accettata. Per quel che riguarda il matrimonio, infatti, afferma che «la decisione sulla sua validità non può essere lasciata interamente alla valutazione soggettiva della persona coinvolta». È vero che egli con questa affermazione si riferisce soprattutto agli aspetti giuridici. Egli, cioè, sembra preoccupato delle questioni rilevanti per il «carattere pubblico» del matrimonio, non della sostanza di questo. Gli aspetti formali della «pubblicità», però, possono essere salvaguardati anche con riferimento a (e, quindi, per) «concezioni» del matrimonio errate ed inaccettabili. Nella società civile contemporanea questo avviene da tempo in diversi Paesi. È questo un problema, ma non è il problema fondamentale. La Weltanschauungsulla quale poggia la Relazione Kasper investe la «natura» del matrimonio, non la sua «forma». Le tesi del Cardinale relatore sembrano, infatti, intaccare le radici del matrimonio, non le sue fronde.
     Giustamente Kasper osserva che il diritto della Chiesa ha connotazione pastorale. È strumento, cioè, della verità e criterio della pedagogia della Chiesa. Il cardinale Kasper sembra, però, ribaltare il rapporto verità/pastorale e subordinare la verità alla pastorale. L’operazione sembra dettata da una preoccupazione nobile: quella di «aiutare» i battezzati adulterini a ritrovare la via del «ritorno», abbandonando la vita disordinata e peccaminosa anche se «regolamentata» dalla società civile come «matrimonio». In realtà essa rivela la totale e inaccettabile subordinazione al «mondo».
     Non solo. Kasper sembra sostenere (e proporre) singolari opinioni circa la «struttura sacramentale della Chiesa». Sembra che a suo giudizio i sacramenti servano a cancellare i peccati, non a rimetterli: «Se escludiamo dai sacramenti i cristiani divorziati risposati che sono disposti ad accostarsi a essi […], non mettiamo forse in discussione – si chiede Kasper in polemica con Benedetto XVI – la struttura fondamentale sacramentale della Chiesa?». In altre parole per il cardinale Kasper la Chiesa e i suoi sacramenti sono strumenti per trasformare l’effettività (anche l’effettività del peccato) e renderla buona senza condizioni: per il «ritorno» non andrebbe richiesto nemmeno l’abbandono dello stato di peccato, poiché l’unica condizione da richiedere (meglio, di cui prendere atto) sarebbe la disposizione ad accostarsi ad essi (sacramenti).
     Nonostante la consapevolezza delle difficoltà e dei problemi sollevati dalla dotrtrina del personalismo contemporaneo, il cardinale Kasper insiste nel proporla come criterio per la soluzione delle questioni legate al matrimonio e al cosiddetto «matrimonio dei divorziati». Afferma, infatti, che la difesa della dottrina di sempre della Chiesa sul matrimonio rischia di portare a una strumentalizzazione della persona. A suo avviso, quindi, la verità delle «cose» (e la verità rivelata) potrebbe essere una condizione per fareiniuria alla persona. Di fronte, infatti, alle obiezioni di chi sostiene che non si devono ammettere al sacramento della comunione i cristiani divorziati «risposati» per affermare e sottolineare la sacralità del sacramento, il cardinale Kasper si domanda (e la domanda intende essere una risposta): «non è forse una strumentalizzazione della persona che soffre e chiede aiuto se ne facciamo un segno e un avvertimento per gli altri?». Non si tratta di fare della verità un «avvertimento». Si tratta, piuttosto, di affermarla come bene in sé «utile» innanzitutto per la persona che ha il dovere di rimanere fedele alla verità «data» dalla sua essenza e dall’essenza delle «cose» che, anche quando sono messe a disposizione dell’uomo, vanno usate secondo il loro intrinseco fine. Il matrimonio, pertanto, non va difeso in nome di una specie di «ragion di Stato» ma perché bene della creazione alla condizione che sia inteso e vissuto secondo il suo proprio ordine e non secondo l’ordine della volontà soggettiva che pretende di costituirlo secondo criteri arbitrari.
6. Su due strumentalizzazioni. A proposito del matrimonio si devono registrare almeno due strumentalizzazioni all’interno della Chiesa militante contemporanea: la prima riguarda una impropria invocazione della misericordia e della giustizia; la seconda il tentativo di offrire una lettura della storia della Chiesa e, in particolare, dei Concilî non rispettosa della verità e funzionale ai progetti che si vorrebbe realizzare. Le due strumentalizzazioni sono presenti anche nella Relazione del cardinale Kasper.
     Per quel che attiene alla prima, la Relazione Kasper riconosce che un «atteggiamento compiacente» verso i divorziati «risposati», ovvero verso gli adulteri, sarebbe uno sbaglio sia per la pastorale sia per la misericordia. La «misericordia [, infatti,] non esclude la giustizia e non va intesa come grazia a buon mercato e come una svendita». La misericordia non esclude la giustizia, sostiene giustamente il cardinale Kasper. Con metodologia, però, propria del modernismo e applicando la sua teoria secondo la quale è l’ermeneutica a dare contenuto alle cose, il cardinale Kasper «interpreta» in modo singolare sia la misericordia sia la giustizia.
     Per quanto riguarda la misericordia dice una cosa vera ma tira contemporaneamente una conclusione sbagliata. Afferma, infatti, che per il convertito il perdono è sempre possibile, per tutti i peccati. Il perdono non elimina il male fatto, lo … perdona appunto. Se è possibile perdonare un assassino, conclude Kasper, è possibile perdonare anche un/a adultero/a. Non c’è dubbio che l’affermazione sia vera. Quello che vero non è è il fatto che non si deve perdonare né l’assassino né l’adultero/a in assenza di «conversione», in mancanza del pentimento, che richiede il riconoscimento del male fatto e la ferma volontà di non ricadere. Kasper, a questo proposito, sostiene invece che si può perdonare anche chi persevera nel peccato; anche chi non si è «convertito» e intende continuare a peccare. Nelle cinque condizioni che pone, infatti, è previsto il pentimento per il matrimonio fallito (non si sa se come rammarico per il fallimento personale o se per il male rappresentato dal divorzio), il chiarimento circa gli obblighi derivanti da quello che Kasper continua a chiamare «primo» matrimonio (che è il solo vero matrimonio), la constatazione dell’impossibile (?) abbandono senza colpe degli impegni assunti con quello che Kasper chiama erroneamente «nuovo matrimonio civile» (anche a questo proposito non è chiaro se si tratta di obblighi derivanti dagli effetti dell’unione adulterina: per esempio verso i figli generati, oppurre se si tratta solamente di presunti obblighi assunti verso il/la convivente), lo sforzo «a vivere al meglio delle sue possibilità» quello che Kasper continua a chiamare «secondo matrimonio» (non si può, però, pensare per esempio di educare i figli offrendo loro il cattivo esempio), il «desiderio dei sacramenti quale punto di forza nella nuova situazione» (i sacramenti servirebbero a vivere meglio una obiettiva situazione di peccato!).
     La misericordia, intesa in questa maniera, è connivenza con il peccatore che vuole continuare a peccare; è sentimentalismo disordinato nei confronti di chi invoca aiuto per fare i propri comodi e realizzare i propri capricci credendo di potere tranquillizzare simultaneamente la propria coscienza. È, pertanto, una provocazione nei confronti di Dio. Quello che è certo è che questa non è una virtù. La misericordia è sentimento nobile (basterebbe pensare alla definizione datane da Aristotele e, soprattutto, al Vangelo, nonché alle confraternite della Misericordia), il quale si traduce in opere buone, non in azioni inique o in tentativi di giustificare il male.
     Per quanto riguarda la giustizia va osservato che il cardinale Kasper pone alcuni problemi che sorgono dalle esigenze di giustizia; altri che scaturiscono da erronei presupposti che rappresentano la sua negazione.
     La prima questione riguarda l’adempimento delle obbligazioni contratte con il matrimonio, quello vero (e unico), che il cardinale Kasper chiama «primo»; obbligazioni che richiedono, fra l’altro, la fedeltà dei coniugi, che l’adultero/a non rispetta. Le obbligazioni del matrimonio persistono anche in caso di separazione. Queste impongono di non accedere al divorzio, di mantenere la fedeltà anche nello stato di separazione, di concorrere ai bisogni della famiglia, al mantenimento e all’educazione dei figli, e via dicendo. Anche quando non si potesse «tornare indietro», tali obblighi non vengono meno.
     Può darsi il caso – la situazione sociale attuale, favorita dalla legislazione degli Stati, ne è prova – che uno o entrambi i coniugi siano infedeli e che abbiano intrapreso convivenze adulterine. Pure da queste derivano obblighi di giustizia (per esempio nei confronti di eventuali figli), ma essi non sono quelli che il cardinale Kasper lascia intendere. L’adultero/a ha l’obbligo morale e giuridico («giuridico» qui non significa necessariamente di «diritto» positivo) di abbandonare la convivenza, agendo con la dovuta prudenza. Le convivenze adulterine non sono idonee a creare «impegni» invocabili per continuare a convivere, considerandoli erroneamente (talvolta presentandoli come) doveri per adempiere ai quali si afferma essere necessaria la prosecuzione della convivenza adulterina medesima (Kasper – l’affermazione è sorprendente! – parla di «altre colpe» che in caso di abbandono di questa convivenza si aggiungerebbero alle altre, nel tentativo di giustificare la conservazione del cosiddetto «matrimonio dei divorziati»).
     Accanto alla strumentalizzazione della misericordia e della giustizia, oggi se ne deve registrare un’altra. Questa poggia su «letture» non obiettive della storia. Nel nostro tempo si è «costruita», infatti, un’interpretazione del Concilio di Nicea (325 d.C.), in particolare per quel che riguarda talune questioni del matrimonio, che non corrispondono al vero e alle quali fa un cenno anche la Relazione Kasper. Si sostiene, infatti, che ci fu un tempo in cui la Chiesa ammetteva i «divorziati risposati» alla comunione. In altre parole la «Chiesa primitiva», vale a dire delle origini (oggi invocata a proposito e a sproposito anche per altri temi), avrebbe ammesso – si dice per prassi consuetudinaria – ai sacramenti i «risposati», vivente il coniuge. Alcuni sostengono che la questione divise la Chiesa delle origini e che taluni autori fossero allora favorevoli a questa prassi sulla base del cosiddetto «male minore». Altri – fra questi anche il cardinale Kasper – arrivano all’affermazione secondo la quale questa pratica sarebbe stata confermata dal Concilio di Nicea. La prova? Il canone 8 di questo Concilio, rispondono. Con questo canone venne imposta ai Novaziani l’accettazione per iscritto di seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica, in particolare di entrare in comunione sia con coloro che erano passati a convivenze adulterine sia con coloro che avevano ceduto nella persecuzione.
     La prescrizione del Concilio di Nicea di «entrare in comunione» con i «risposati» adulterini era conseguenza delle (erronee) tesi dei Novaziani secondo le quali la Chiesa non aveva il potere di rimettere il peccato di adulterio. Il Concilio di Nicea non legittimò, dunque, le convivenze adulterine (come oggi si cerca di far credere con una pianificata e sottile campagna propagandistica). Al contrario le considerò peccati gravi che la Chiesa, comunque, aveva il potere di rimettere alla condizione che gli adulteri si «convertissero», abbandonando la situazione di peccato e accettando un lungo periodo di penitenza. La Chiesa primitiva, quindi, rivendicò il potere datole dal suo Fondatore di rimettere qualsiasi peccato ma affermò simultaneamente che il peccatore, per essere perdonato, avrebbe dovuto pentirsi ed essere deciso a iniziare una nuova vita secondo i dettami del Signore. La prescrizione del canone 8 del Concilio di Nicea stabilisce, dunque, solamente che gli adulteri, pentiti e perdonati, erano nello stato di grazia come gli altri battezzati e che ciò era possibile in virtù del potere della misericordia conferito direttamente ed esplicitamente alla Chiesa da Gesù Cristo. Falsa, pertanto, è la tesi secondo la quale questo Concilio avrebbe legittimato le cosiddette «seconde nozze» degli sposati senza che fosse venuto meno per la morte di uno dei coniugi o per nullità o per annullamento il matrimonio contratto.
7. Qualche breve appunto prima di concludere. Le strumentalizzazioni cui si è accennato rivelano che non c’è l’intenzione, considerando questi problemi, di ricercare la verità, né quella storica né quella filosofica né quella teologica. Al contrario esse rappresentano il tentativo (non riuscito) di trovare argomenti per giustificare scelte ideologiche (non filosofiche, quindi). Ci si appella a un metodo storico-critico che, combinato con la dottrina ermeneutica, consente le più diverse, contraddittorie e antistoriche «ricostruzioni».
     La prima questione da considerare è, dunque, quella del presupposto di ogni discorso: se l’ermeneutica è costitutiva della realtà, la realtà non esiste; esiste solamente il contingente risultato di una interpretazione del nulla, che tale resta anche se «condivisa» dai più e persino da tutti.
     La seconda questione da considerare, poi, è quella che viene presentata come necessario «adeguamento allo spirito del tempo». Segno, questo, di una acritica accettazione della discutibilissima Weltanshauung tedesca che induce la Chiesa a farsi discepola del tempo, ad assecondare la «realtà vissuta dalla gente» (per usare le parole del cardinale Lorenzo Baldisseri), a rinunciare al suo compito di madre e maestra.
     La terza questione da considerare, inoltre, è quella della natura della Chiesa, posta anche dalla Relazione Kasper: la Chiesa è una (e, perciò, universale) per sua natura o la sua unità ed unicità è il risultato di un processo di aggregazione e di condivisione di quelle che il cardinale Kasper chiama «Chiese locali»? (4).
     Dalla risposta alla terza questione dipende una quarta, cioè l’interpretazione dell’affermazione del cardinale Kasper circa i Comandamenti che egli ambiguamente definisce «indicazioni» per una vita felice e realizzata. Sono essi indicazioni della natura umana, dell’ordine morale che deriva dall’ordine della creazione, del disegno rivelato di Dio, oppure sono meri suggerimenti per chi ritiene opportuno condividerli e metterli in pratica? Anche l’affermazione secondo la quale essi non debbono essere imposti, non è condivisibile. Alcuni non debbono essere imposti con la forza; di altri è indispensabile imporne il rispetto: per esempio il divieto di uccidere l’innocente può essere lasciato alla assolutamente libera scelta personale (è, cioè, un’opzione individuale) oppure deve essere imposto a tutti dalla comunità politica? La dottrina del personalismo contemporaneo che il cardinale Kasper fa propria e applica alla morale come alla politica e al diritto, comporta la legittimazione in ultima analisi dell’anarchia, vale a dire del nichilismo. Ciò non è né «cattolico» né razionale.
8 Conclusione. La Relazione Kasper è la prova dello sbandamento dottrinale della cosiddetta cultura cattolica contemporanea. Questa sembra essere sempre più guidata dal «clericalismo», cioè dalla ricerca di non apparire in ritardo rispetto alle mode di pensiero e di vita che si sono imposte nella società. I cattolici, anche parte della gerarchia cattolica, temono di perdere il treno della storia. La storia, almeno quella profana, non ha però una destinazione obbligata come sostiene lo storicismo che, per essere coerente, deve farsi progressismo. Non esiste un orologio della storia; questa visione del tempo è propria della cultura gnostica tedesca che il cardinale Kasper (e, purtroppo, non solo lui!) ha assimilato rinunciando a vagliarla criticamente. La Relazione Kasper rappresenta una interpretazione ideologica della realtà (in particolare del matrimonio) e della Rivelazione. L’errore di fondo è dato dalla considerazione secondo la quale l’effettività sociologico-storica è il criterio della verità; teoria, questa, che ha portato, fra l’altro, alle tragedie del Novecento e che ora sembra rappresentare il punto di appoggio (illusorio) del relativismo dogmatico del nostro tempo, aperto a ogni soluzione e a ogni assurdità. È il risultato inevitabile di ogni resa incondizionata al «mondo», come dimostra una penetrante «lettura» della storia fatta con il criterio della verità.
                                                                       Danilo Castellano
 Da “INSTAURARE omnia in Christo”, anno XLIII, n. 1, Gennaio-Aprile 2014, pp. 1-16
1)       Cfr. Intervista a papa Francesco, in «La Civiltà Cattolica», 3918, 19 settembre 2013, p. 463. Gesù, infatti, considera peccato l’adulterio (Gv. 8, 11); alla Samaritana «sposata» cinque volte, Gesù disse che aveva detto la verità affermando di non avere marito: «hai avuto infatti cinque mariti e quello che hai adesso non è tuo marito» (Gv. 4,18). Per questo sbaglia anche il cardinale Kasper a parlare – con reiterata insistenza – di «matrimonio di persone divorziate», di «matrimonio civile» che segue al matrimonio, di «divorziati risposati» (cfr. W. KASPER, Relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia del 20 febbraio 2014).
2)       Un esempio è offerto dalla «formula» del Credo che viene recitato da tempo nelle Messe in una parrocchia dell’Arcidiocesi di Udine e che si può leggere nel sito «biel lant a Messe a…». Ne riportiamo il testo perché ognuno possa constatare come questo Credosia «lontano» e «alternativo» rispetto a quello della Chiesa: «Credo – dice la formula elaborata da questa “comunità” – in Dio, Padre e Madre, cuore e creatore di una terra che ci fu tolta; credo nel Dio della Vita, della Pace, dell’Amore e della Giustizia, che si fece in Gesù, uomo sofferente, appassionato, coinvolto, morto e risuscitato; gloria e speranza dei poveri. Credo in Gesù, Fratello e Figlio, che si è fatto storia del popolo e segna oggi i passi del nostro camminare. Credo nello Spirito Santo di Dio, vento nuovo che unifica le speranze dei popoli, che crea e ricrea, che vivifica, che dà creatività per vivere. Credo in Maria, madre che dà alla luce la Vita con dolore e speranza perché ci sia vita nuova e piena per tutti. Credo nei popoli crocifissi, nei poveri come corpo torturato di Gesù. Credo nel popolo, che ha nome e cognome, che vive e celebra la sua fede, nei volti sofferenti e luminosi, nella sua organizzazione e nel suo spirito comunitario, nelle sue lotte, semi di libertà. Credo nella Fraternità dell’indio, del contadino, dell’emarginato del rifugiato, del nero, del giovane, dell’uomo, della donna … di tutti i poveri della Terra. Credo nella solidarietà dei popoli, espressione della forza e della tenerezza di Dio. Credo nella risurrezione dei nostri popoli e nell’unico popolo che saremo quando celebreremo insieme la vittoria finale, nel Regno di Dio per i secoli dei secoli. Amen.». Su questoCredo, elaborato «dal basso» nessuno ha avuto (almeno fino ad ora, per quel che si sa) nulla da dire. Gli Arcivescovi, succedutisi a Udine, hanno finto di ignorare la novità. Speriamo, almeno, che non ne condividano il contenuto!
3)       Cfr. G.W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Parte III, Sez. I (La famiglia), §§ 158 e 161. Si veda anche dello stesso autore Enciclopedia delle scienze filosofiche, §§ 167 ss. e 288 ss.
4)       Le «Chiese locali» – com’è noto – non sono le «Chiese particolari». Le «Chiese locali» che il cardinale Kasper tende (coerentemente) a identificare con le comunità ecclesiali di base, sono propriamente «associazioni», dalle quali deriva ogni potere: quello, per esempio, di stabilire autonomamente regole (canoni), quello di eleggere i Vescovi e di conferire loro le competenze, le quali non deriverebbero da Gesù Cristo ma dal «popolo», e via dicendo. È stato sottolineato che le tesi del cardinale Kasper, a questo proposito, sono tanto innovative da diventare «sovversive», poiché portano al ribaltamento della dottrina ecclesiologica tradizionale: la Chiesa non sarebbe una «fondazione», il cui fine, stabilito dal suo Fondatore, è per essa vincolante ed immodificabile; non sarebbe «cattolica», cioè universale, perché «una» ed unica; non godrebbe, pertanto, del primato sulle «Chiese particolari» e tanto meno su quelle «locali». Dal ribaltamento kasperiano derivano diverse altre conseguenze, rilevanti anche per quel che attiene alle questioni morali e, in particolare, a quelle legate al matrimonio.

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