ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 25 settembre 2014

Bisturi e ceppi?

L’ex prete e vescovo Józef Wesolowski, sulla cui testa a giugno era già caduta la mannaia del prefetto Gerhard Ludwig Müller, che dal Sant’Uffizio l’aveva ridotto allo stato laicale in attesa del processo penale e dell’appello di quello canonico, può consolarsi: dopotutto, il Papa non l’ha spedito nelle segrete di Castel Sant’Angelo, come due secoli e mezzo fa fece il francescano Clemente XIV con Lorenzo Ricci, preposito generale della Compagnia di Gesù messo ai ceppi non appena la bolla di scioglimento della Societas Iesu fu firmata e divulgata urbi et orbi. Ricci fu umiliato e maltrattato, neppure dire messa gli fu più consentito.

 Aveva le guardie davanti alla cella, che lo controllavano e segnalavano ogni suo movimento sospetto, compresi i tentativi di celebrare i sacri misteri. Sarebbe morto di stenti poco dopo, nel 1775, protestando fino all’ultimo respiro contro la soppressione della Compagnia e ribadendo che “non v’era alcuna ragione perché io venissi rinchiuso in prigione”. Wesolowski, invece, primo vescovo in epoca moderna a essere preso in consegna dai gendarmi pontifici, è da martedì pomeriggio – per ordine del Sommo Pontefice – nel Collegio dei penitenzieri, dentro il palazzo del Tribunale. Soprattutto, come viene fatto notare oltretevere, è confinato “all’interno delle Mura leonine”. Fosse mai che scappi, ci sarebbe poi un’estradizione da richiedere e altre mille complicazioni, con i dominicani che ne reclamano lo scalpo – violente contro di lui sono le dichiarazioni del cardinale di Santo Domingo, il battagliero López Rodríguez, che per primo ha segnalato a Roma la condotta non propriamente morale del presule – e pure i polacchi che vorrebbero processare in patria il connazionale che reca così tanto disonore alla terra che ha dato i natali a Karol Wojtyla. E poi, la lista di stati desiderosi di prendere in consegna Józef Wesolowski potrebbe allungarsi già nei prossimi giorni: Costa Rica, Giappone, Svizzera, India, Danimarca, Bolivia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan e – più genericamente, qualche paese dell’Africa meridionale. Ovunque abbia prestato servizio nella sua piuttosto lunga carriera nel servizio diplomatico della Santa Sede. L’arresto, ha detto padre Federico Lombardi, è dovuto proprio per “evitare la possibilità che l’imputato si allontani, nonché l’inquinamento delle prove”. Per il processo penale c’è tempo, inizierà “negli ultimi mesi di quest’anno” o “nei primi del prossimo”, le indagini complesse non sono affatto completate e il promotore di giustizia vaticano potrà procedere a nuovi e approfonditi interrogatori, compreso quello “dell’imputato”. Naturalmente, “assistito dal suo avvocato”. Ma non è finita qui, perché solo al termine dell’istruttoria potrà essere formulata la richiesta di rinvio a giudizio e, se accettata, finalmente si aprirà il processo. Rischia fino a sette anni di galera, eventuali aggravanti escluse. Già a ottobre, invece, arriverà la sentenza d’Appello del procedimento canonico che in primo grado gli ha inflitto il massimo della pena, la riduzione allo stato laicale. D’altronde, è il presidente della Repubblica dominicana che aveva promesso il massimo della pena, dopo un’udienza con il Papa avvenuta nel Palazzo apostolico, lo scorso 26 giugno. Si dice che Francesco sia rimasto scioccato da quanto ha letto nel dossier Wesolowski, dalle sue gite sulle spiagge caraibiche alla ricerca di ragazzini agli appostamenti notturni fuori dai locali per saggiare il campo. Per questo il Pontefice ha deciso di rompere gli indugi e di fare ciò che nella storia recente della chiesa non s’era mai visto: sollecitare i gendarmi a sbattere in galera un prelato di rango, ordinato prete da un vescovo fatto beato e poi santo a tempo di record quasi per volontà popolare. Viste le premesse e i paragoni con le messe nere, c’è da dubitare che andrà a trovarlo, come fece Benedetto XVI con il maggiordomo infedele, che tra una pausa caffè e l’altra fotocopiava e diffondeva fuori dal Palazzo apostolico la corrispondenza privata del Papa. Il Sir, il Servizio d’informazione religiosa che fa capo alla Cei, ha pubblicato ieri un editoriale in cui si legge che “il Papa della misericordia non vuole che la malattia devasti tutto il corpo. Ha usato il bisturi, perché gli abusi sono un culto sacrilego che lascia cicatrici per tutta la vita, una terribile oscurità”. Ora, prosegue la nota, “la chiesa ha tutti gli strumenti per vigilare, prevenire e pure colpire, senza se e senza ma”. Il perdono cristiano, afferma ancora il commento dai toni savonaroleschi, “parte dall’accusa del male, dal riconoscimento del peccato commesso. Esige il pentimento e la riparazione. Comprende anche la condanna eterna, che spetta alla giustizia divina. A noi uomini tocca di esercitare la giustizia terrena. Impegno di giustizia e di denuncia da cui non va esente la chiesa, nessuna diocesi, nessun credente e nessun uomo che sia a conoscenza di abusi”. E “ora l’avvertimento è chiaro. La giustizia della Santa Sede interverrà senza sconti a chicchessia”.
“Il Foglio”
(Matteo Matzuzzi) 

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