LA DIPLOMAZIA DEI GESTI DI PAPA FRANCESCO: A ISTANBUL S’INCHINA PROFONDAMENTE DINANZI AL PATRIARCA DI COSTANTINOPOLI E CHIEDE UNA BENEDIZIONE PER SÉ E “PER LA CHIESA DI ROMA” – LA VISITA ALLA MOSCHEA BLU PER UNA “ADORAZIONE SILENZIOSA”
In moschea, Bergoglio si toglie le scarpe, resta ammirato di fronte alla bellezza dei mosaici e si raccoglie a capo chino. Ovviamente evita di parlare di “preghiera” per non creare polemiche. Oggi ancora funzioni con gli ortodossi, il cui scisma ruota proprio attorno al primato del vescovo di Roma…
Gian Guido Vecchi per “Il Corriere della Sera”
È quando Francesco, d’improvviso, s’inchina profondamente davanti a Bartolomeo I, fino a sfiorargli la barba bianca con lo zucchetto, che si capisce come la forza dei gesti possa magari riuscire dove i teologi d’Oriente e d’Occidente si sono incartati per quasi mille anni, dallo scisma del 1054. Il Papa mormora «vi chiedo di benedire me e la Chiesa di Roma» e il Patriarca ortodosso di Costantinopoli posa una mano sulla testa di Bergoglio e gli bacia il capo. Il successore di Pietro e il successore del fratello Andrea, «primo tra pari» delle chiese ortodosse, hanno appena concluso la «preghiera ecumenica» nella chiesa del Patriarcato.
Sono i gesti, prima delle parole, a segnare la seconda giornata in Turchia del Papa. Al mattino sorvola il Bosforo e atterra ad Istanbul, passa dall’Asia all’Europa e riprende subito il filo di quel «dialogo interreligioso e interculturale» con l’Islam invocato ad Ankara per «bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo». Francesco chiedeva «coraggio e creatività». Così per prima cosa va alla «Moschea blu» — un anticipo sul programma, per rispettare l’ora della preghiera musulmana — si toglie le scarpe, alza lo sguardo ammirato alla meraviglia architettonica e infine sosta davanti al mihrab che indica la direzione della Mecca e riporta un versetto del Corano su Maria: scalzo, il capo chino, gli occhi chiusi, le mani intrecciate sotto la Croce pastorale, il pontefice resta raccolto per tre lunghissimi minuti, come già fece Benedetto XVI nel 2006, accanto al Gran Mufti che prega con i palmi levati.
Non una preghiera comune, naturalmente. Del resto padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, evita di parlare di «preghiera» del Papa — il gesto di Ratzinger fu seguito da discussioni e polemiche — e la definisce a scanso di «incomprensioni» una «adorazione silenziosa». Ma certo è un segno che «il dialogo va avanti», per due volte Francesco ha detto al Gran Mufti: «Dobbiamo adorare Dio. Non solo bisogna lodarlo e glorificarlo, ma dobbiamo adorarlo». Il religioso musulmano gli parla di un versetto del Corano che definisce Dio «amore e giustizia», sorridendo a Francesco: «Su questo siamo d’accordo». E il Papa, di rimando: «Certamente siamo d’accordo».
Quando visita Santa Sofia — costruita da Giustiniano nel VI secolo, divenuta moschea dopo la caduta di Costantinopoli del 1453 e infine trasformata in museo da Atatürk —, Francesco scrive in greco sul libro d’oro dei visitatori «Santa Sapienza di Dio»: il nome della basilica.
Oggi il Papa assisterà alla «divina liturgia» ortodossa per la festa di sant’Andrea. È significativo che Bartolomeo gli abbia ripetuto la stessa espressione che Bergoglio disse appena eletto: la Chiesa di Roma «presiede nella carità» tutte le chiese. Lo scisma sarà ricomposto solo da un accordo sul modo di intendere il «primato» del vescovo di Roma. «In tempi difficili per l’umanità e il mondo», dice il Patriarca, si tratta di «fare la volontà di Dio». E Francesco, nella messa con i cattolici: «Dobbiamo compiere l’unità tra i credenti, abbandonare uno stile difensivo per lasciarci condurre dallo Spirito».
Gian Guido Vecchi per “Il Corriere della Sera”
È quando Francesco, d’improvviso, s’inchina profondamente davanti a Bartolomeo I, fino a sfiorargli la barba bianca con lo zucchetto, che si capisce come la forza dei gesti possa magari riuscire dove i teologi d’Oriente e d’Occidente si sono incartati per quasi mille anni, dallo scisma del 1054. Il Papa mormora «vi chiedo di benedire me e la Chiesa di Roma» e il Patriarca ortodosso di Costantinopoli posa una mano sulla testa di Bergoglio e gli bacia il capo. Il successore di Pietro e il successore del fratello Andrea, «primo tra pari» delle chiese ortodosse, hanno appena concluso la «preghiera ecumenica» nella chiesa del Patriarcato.
Sono i gesti, prima delle parole, a segnare la seconda giornata in Turchia del Papa. Al mattino sorvola il Bosforo e atterra ad Istanbul, passa dall’Asia all’Europa e riprende subito il filo di quel «dialogo interreligioso e interculturale» con l’Islam invocato ad Ankara per «bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo». Francesco chiedeva «coraggio e creatività». Così per prima cosa va alla «Moschea blu» — un anticipo sul programma, per rispettare l’ora della preghiera musulmana — si toglie le scarpe, alza lo sguardo ammirato alla meraviglia architettonica e infine sosta davanti al mihrab che indica la direzione della Mecca e riporta un versetto del Corano su Maria: scalzo, il capo chino, gli occhi chiusi, le mani intrecciate sotto la Croce pastorale, il pontefice resta raccolto per tre lunghissimi minuti, come già fece Benedetto XVI nel 2006, accanto al Gran Mufti che prega con i palmi levati.
Non una preghiera comune, naturalmente. Del resto padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, evita di parlare di «preghiera» del Papa — il gesto di Ratzinger fu seguito da discussioni e polemiche — e la definisce a scanso di «incomprensioni» una «adorazione silenziosa». Ma certo è un segno che «il dialogo va avanti», per due volte Francesco ha detto al Gran Mufti: «Dobbiamo adorare Dio. Non solo bisogna lodarlo e glorificarlo, ma dobbiamo adorarlo». Il religioso musulmano gli parla di un versetto del Corano che definisce Dio «amore e giustizia», sorridendo a Francesco: «Su questo siamo d’accordo». E il Papa, di rimando: «Certamente siamo d’accordo».
Quando visita Santa Sofia — costruita da Giustiniano nel VI secolo, divenuta moschea dopo la caduta di Costantinopoli del 1453 e infine trasformata in museo da Atatürk —, Francesco scrive in greco sul libro d’oro dei visitatori «Santa Sapienza di Dio»: il nome della basilica.
Oggi il Papa assisterà alla «divina liturgia» ortodossa per la festa di sant’Andrea. È significativo che Bartolomeo gli abbia ripetuto la stessa espressione che Bergoglio disse appena eletto: la Chiesa di Roma «presiede nella carità» tutte le chiese. Lo scisma sarà ricomposto solo da un accordo sul modo di intendere il «primato» del vescovo di Roma. «In tempi difficili per l’umanità e il mondo», dice il Patriarca, si tratta di «fare la volontà di Dio». E Francesco, nella messa con i cattolici: «Dobbiamo compiere l’unità tra i credenti, abbandonare uno stile difensivo per lasciarci condurre dallo Spirito».
Il Papa si china davanti a Bartolomeo e si fa benedire da lui
Francesco alla preghiera ecumenica nella chiesa del Fanar, sede del patriarcato di Costantinopoli: «La nostra gioia è nel comune affidamento alla fedeltà di Dio». Il Patriarca: «Chiediamo l'intercessione dei Padri della Chiesa perché ritroviamo l'unità come nel primo millennio»
ANDREA TORNIELLIINVIATO A ISTANBUL
Alla fine del suo discorso Papa Francesco ha chiesto la benedizione del Patriarca Bartolomeo e si è chinato davanti a lui per ricevere la benedizione. Il Patriarca lo ha baciato sul capo. È un gesto fortemente simbolico quello che conclude la giornata. È ormai calata la sera a Istanbul, e nella vigilia della festa di Sant'Andrea, patrono del patriarcato ortodosso, Francesco varca la soglia della chiesa insieme al fratello Bartolomeo. La preghiera è un incontro breve, un anticipo di quanto accadrà domani, quando il Pontefice assisterà alla Divina Liturgia ortodossa celebrata dal Patriarca ecumenico. All'ingresso, il Papa ha venerato una grande icona ricoperta d'argento.
Nel suo saluto di benvenuto, Bartolomeo definisce Francesco «latore di amore del Protocorifeo (cioè l'apostolo Pietro, ndr) verso il proprio fratello, il Primo chiamato (cioè l'apostolo Andrea)». Il Patriarca ricorda le «analoghe visite dei vostri venerabilissimi predecessori», citando Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E parla della «volontà» di Papa Bergoglio e della «santissima Chiesa di Roma di proseguire il fraterno e costante cammino con la nostra Chiesa ortodossa, per il ristabilimento della completa comunione». La venuta del Papa, per Bartolomeo «è un fatto storico e ricco di buoni auspici per il futuro».
Il Patriarca, ringraziando i cattolici per la per la restituzione delle reliquie di santa Eufemia, cita san Basilio e san Giovanni Crisostomo. E aggiunge: «Questi santi Padri, sul cui insegnamento si è fondata la nostra comune fede durante il primo millennio, siano intercessori presso il Signore, affinché possiamo ritrovare la piena comunione tra le nostre chiese, compiendo così la sua santa volontà».
«Mentre le esprimo il mio sentito grazie per la sua fraterna accoglienza - gli risponde nel suo saluto Francesco - sento che la nostra gioia è più grande perché la sorgente è oltre, non è in noi, non è nel nostro impegno e nei nostri sforzi, che pure doverosamente ci sono, ma è nel comune affidamento alla fedeltà di Dio».
Parlando della pace e della gioia «che il mondo non può dare, ma che il Signore Gesù ha promesso ai suoi discepoli, e ha donato loro da risorto», Bergoglio ha aggiunto: «Andrea e Pietro hanno ascoltato questa promessa, hanno ricevuto questo dono. Erano fratelli di sangue, ma l'incontro con Cristo li ha trasformati in fratelli nella fede e nella carità. E in questa sera gioiosa, in questa preghiera vigiliare vorrei dire soprattutto: fratelli nella speranza».
Alle 11.20, Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo, da un balcone del Patriarcato hanno impartito la Benedizione Ecumenica. Prima il Papa in latino e poi Bartolomeo in greco.
Turchia
Voci che ci interpellano: "La prima di queste voci è quella dei poveri - Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo - Una terza voce che ci interpella è quella dei giovani".
- Il segno (...) indica frasi aggiunte dal Santo Padre e pronunciate a braccio.Testo italiano versione ufficiale.
Molte volte, come arcivescovo di Buenos Aires, ho partecipato alla Divina Liturgia delle comunità ortodosse presenti in quella città, ma trovarmi oggi in questa Chiesa Patriarcale di San Giorgio per la celebrazione del santo Apostolo Andrea, primo dei chiamati e fratello di san Pietro, patrono del Patriarcato Ecumenico, è davvero una grazia singolare che il Signore mi dona.
Incontrarci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione alla quale tendiamo. Tutto ciò precede e accompagna costantemente quell’altra dimensione essenziale di tale cammino che è il dialogo teologico. Un autentico dialogo è sempre un incontro tra persone con un nome, un volto, una storia, e non soltanto un confronto di idee.
Questo vale soprattutto per noi cristiani, perché per noi la verità è la persona di Gesù Cristo. L’esempio di sant’Andrea, il quale insieme con un altro discepolo accolse l’invito del Divino Maestro: «Venite e vedrete», e «quel giorno rimasero con lui» (Gv 1,39), ci mostra con chiarezza che la vita cristiana è un’esperienza personale, un incontro trasformante con Colui che ci ama e ci vuole salvare. Anche l’annuncio cristiano si diffonde grazie a persone che, innamorate di Cristo, non possono non trasmettere la gioia di essere amate e salvate. Ancora una volta l’esempio dell’apostolo Andrea è illuminante. Egli, dopo avere seguito Gesù là dove abitava ed essersi intrattenuto con Lui, «incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia” - che si traduce Cristo - e lo condusse da Gesù» (Gv 1,40-42). È chiaro, pertanto, che neanche il dialogo tra cristiani può sottrarsi a questa logica dell’incontro personale.
Non è un caso, dunque, che il cammino di riconciliazione e di pace tra cattolici ed ortodossi sia stato, in qualche modo, inaugurato da un incontro, da un abbraccio tra i nostri venerati predecessori, il Patriarca Ecumenico Atenagora e Papa Paolo VI, cinquant’anni fa, a Gerusalemme, evento che Vostra Santità ed io abbiamo voluto recentemente commemorare incontrandoci di nuovo nella città dove il Signore Gesù Cristo è morto ed è risorto.
Per una felice coincidenza, questa mia visita avviene qualche giorno dopo la celebrazione del cinquantesimo anniversario della promulgazione del Decreto del Concilio Vaticano II sulla ricerca dell’unità tra tutti i cristiani, Unitatis redintegratio. Si tratta di un documento fondamentale con il quale è stata aperta una nuova strada per l’incontro tra i cattolici e i fratelli di altre Chiese e Comunità ecclesiali.
In particolare, con quel Decreto la Chiesa cattolica riconosce che le Chiese ortodosse «hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli» (n. 15). Conseguentemente, si afferma che per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani d’oriente e d’occidente è di somma importanza conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio delle Chiese d’Oriente, non solo per quello che riguarda le tradizioni liturgiche e spirituali, ma anche le discipline canoniche, sancite dai santi padri e dai concili, che regolano la vita di tali Chiese (cfr nn. 15-16).
Ritengo importante ribadire il rispetto di questo principio come condizione essenziale e reciproca per il ristabilimento della piena comunione, che non significa né sottomissione l’uno dell’altro, né assorbimento, ma piuttosto accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno per manifestare al mondo intero il grande mistero della salvezza realizzato da Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo. Voglio assicurare a ciascuno di voi che, per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune, e che siamo pronti a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze: l’unica cosa che la Chiesa cattolica desidera e che io ricerco come Vescovo di Roma, “la Chiesa che presiede nella carità”, è la comunione con le Chiese ortodosse. Tale comunione sarà sempre frutto dell’amore «che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5), amore fraterno che dà espressione al legame spirituale e trascendente che ci unisce in quanto discepoli del Signore.
Nel mondo di oggi si levano con forza voci che non possiamo non sentire e che domandano alle nostre Chiese di vivere fino in fondo l’essere discepoli del Signore Gesù Cristo.
La prima di queste voci è quella dei poveri. Nel mondo, ci sono troppe donne e troppi uomini che soffrono per grave malnutrizione, per la crescente disoccupazione, per l’alta percentuale di giovani senza lavoro e per l’aumento dell’esclusione sociale, che può indurre ad attività criminali e perfino al reclutamento di terroristi. Non possiamo rimanere indifferenti di fronte alle voci di questi fratelli e sorelle. Essi ci chiedono non solo di dare loro un aiuto materiale, necessario in tante circostanze, ma soprattutto che li aiutiamo a difendere la loro dignità di persone umane, in modo che possano ritrovare le energie spirituali per risollevarsi e tornare ad essere protagonisti delle loro storie. Ci chiedono inoltre di lottare, alla luce del Vangelo, contro le cause strutturali della povertà: la disuguaglianza, la mancanza di un lavoro degno, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. Come cristiani siamo chiamati a sconfiggere insieme quella globalizzazione dell’indifferenza che oggi sembra avere la supremazia e a costruire una nuova civiltà dell’amore e della solidarietà.
Una seconda voce che grida forte è quella delle vittime dei conflitti in tante parti del mondo. Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana. Turbare la pace di un popolo, commettere o consentire ogni genere di violenza, specialmente su persone deboli e indifese, è un peccato gravissimo contro Dio, perché significa non rispettare l’immagine di Dio che è nell’uomo. (... Il Papa ricorda le vittime delle bombe contro moschee a Kano, in Nigeria) La voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra cattolici ed ortodossi. Del resto, come possiamo annunciare credibilmente il messaggio di pace che viene dal Cristo, se tra noi continuano ad esistere rivalità e contese? (cfr Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 77).
Una terza voce che ci interpella è quella dei giovani. Oggi purtroppo sono tanti i giovani che vivono senza speranza, vinti dalla sfiducia e dalla rassegnazione. Molti giovani, poi, influenzati dalla cultura dominante, cercano la gioia soltanto nel possedere beni materiali e nel soddisfare le emozioni del momento. Le nuove generazioni non potranno mai acquisire la vera saggezza e mantenere viva la speranza se noi non saremo capaci di valorizzare e trasmettere l’autentico umanesimo, che sgorga dal Vangelo e dall’esperienza millenaria della Chiesa. Sono proprio i giovani – penso ad esempio alle moltitudini di giovani ortodossi, cattolici e protestanti che si incontrano nei raduni internazionali organizzati dalla comunità di Taizé – che oggi ci sollecitano a fare passi in avanti verso la piena comunione. E ciò non perché essi ignorino il significato delle differenze che ancora ci separano, ma perché sanno vedere oltre, sono capaci di cogliere l’essenziale che già ci unisce. Ed è tanto Santià!
Santità, carissimo fratello, siamo già in cammino verso la piena comunione e già possiamo vivere segni eloquenti di un’unità reale, anche se ancora parziale. Questo ci conforta e ci sostiene nel proseguire questo cammino. Siamo sicuri che lungo questa strada siamo sorretti dall’intercessione dell’Apostolo Andrea e di suo fratello Pietro, considerati dalla tradizione i fondatori delle Chiese di Costantinopoli e di Roma. Invochiamo da Dio il grande dono della piena unità e la capacità di accoglierlo nelle nostre vite. E non dimentichiamoci mai di pregare gli uni per gli altri.
http://ilsismografo.blogspot.it/2014/11/turchia-divina-liturgia-nella-chiesa.html#more
Ecumenismo, la svolta del Fanar
La Chiesa cattolica «non intende imporre alcuna esigenza» per arrivare alla piena comunione coi cristiani ortodossi. Papa Francesco: prospettiva del primo millennio. Riecheggia la «formula Ratzinger»
GIANNI VALENTEISTANBUL
Per giungere alla meta della piena unità coi cristiani ortodossi la Chiesa cattolica «non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune». Lo ha detto Papa Francesco, Vescovo di Roma e capo della Chiesa cattolica, nel discorso pronunciato oggi al Fanar davanti al Patriarca Bartolomeo, nella suggestiva cornice della divina Liturgia celebrata per la festa di Sant’Andrea. Poche parole mirate, che suggeriscono un passo inedito e carico di conseguenze per il futuro dei rapporti tra la Chiesa di Roma e le Chiese d’Oriente.
Le formule usate da Papa Francesco suggeriscono che per l’attuale successore di Pietro il ripristino della piena comunione tra cristiani cattolici e ortodossi sarebbe possibile già ora, senza porre ai fratelli ortodossi pre-condizioni di carattere teologico o giurisdizionale. E questo soprattutto perché le Chiese ortodosse «hanno veri sacramenti e soprattutto, in virtù della successione apostolica, il sacerdozio e l’eucaristia», come ha ripetuto il Papa, citando il Concilio Vaticano II. Per lui, per tornare alla piena comunione, sarebbe sufficiente riconoscere che si condivide e si confessa insieme la medesima fede degli Apostoli.
Con parole pronunciate al Fanar, dopo decenni di nobili propositi e dichiarazioni di principio, Papa Francesco offre ai capi delle Chiese ortodosse l’occasione propizia per uscire dal clima ovattato e talvolta gelatinoso delle buone maniere ecumeniche. E muovere insieme i primi passi concreti per essere liberati dagli effetti più gravi della divisione consumatasi nel secondo millennio.
Nel suggerire la strada da riprendere insieme, Papa Francesco indica anche le bussole da seguire per sciogliere i nodi storici e dottrinali aggrovigliatisi lungo i secoli di divisione: «Siamo pronti» ha detto Papa Francesco «a cercare insieme, alla luce dell’insegnamento della Scrittura e dell’esperienza del primo millennio, le modalità con le quali garantire la necessaria unità della Chiesa nelle attuali circostanze».
Il riferimento al primo millennio – richiamato anche dal Patriarca Bartolomeo nella sua recente intervista ad Avvenire – non esprime l’illusione nostalgica di riavvolgere il filo del tempo e azzerare il secondo millennio cristiano. Piuttosto, suggerisce l’immagine di una Chiesa che non si concepiva come soggetto storico auto-fondante, preoccupata di affermare da se stessa la propria rilevanza nella storia. Una Chiesa che riconosceva di crescere e fiorire come riflesso della presenza e della grazia di Cristo. Non in forza delle supremazie esercitate dai capi delle Chiese, in base all’ordine di precedenza stabilito nelle cinghie di trasmissione del potere ecclesiastico. Per questo i Padri della Chiesa non avevano sentito l’esigenza di elaborare alcuna ecclesiologia sistematica. Loro non avevano il problema di soffermarsi sulla Chiesa, il cuore dei loro interessi e delle loro premure non era l’istituzione ecclesiastica.
L’audacia evangelica delle parole pronunciate da Francesco si coglie bene nel confronto e nella continuità con le proposte e le formule con cui in passato si era espressa la sollecitudine cattolica per l’unità coi fratelli ortodossi. Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Ut unum sint, aveva riconosciuto la propria responsabilità davanti alla «domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova».
In quel passaggio, anche il Papa polacco aveva ricordato che «per un millennio i cristiani erano uniti dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina». Le sollecitazioni wojtyliane erano circoscritte alle modalità di esercizio del primato papale che nel secondo millennio ha assunto forme non accettabili dagli ortodossi. Ma poi non si sono registrati disposizioni e atti posti autonomamente dal Papa per dare contenuto concreto alla disponibilità espressa nell’enciclica.
Adesso, nelle espressioni calibrate di Papa Francesco sembra in parte risuonare la cosiddetta “formula Ratzinger”: quella riproposta ancora nel 1987 dal cardinale teologo poi salito al soglio di Pietro, secondo cui «rispetto alla dottrina del primato, Roma non deve richiedere dall’Oriente niente di più rispetto a quanto era stato formulato e vissuto nel primo millennio».
A far riscoprire come attuale e efficace sul terreno ecumenico la prospettiva evangelica ed essenziale sperimentata nei primi secoli del cristianesimo è innanzitutto lo sguardo realista rivolto da Papa Francesco alla condizione della fede e alla missione della Chiesa nel mondo, così com’è adesso. «Nel mondo di oggi» ha chiarito Papa Bergoglio nel suo discorso al Fanar «si levano con forza voci che non possiamo non sentire e che domandano alle nostre Chiese di vivere fino in fondo l’essere discepoli del Signore Gesù Cristo». Il Sovrano Pontefice argentino ha fatto riferimento in particolare ai poveri, alle vittime dei conflitti, ai giovani che purtroppo in tanti «vivono senza speranza» e in balia della «cultura dominante».
L’unità tra i cristiani – questo suggerisce Bergoglio - non è una fissazione per circoletti clericali in cerca di qualche successo d’immagine per giustificare la propria esistenza. Non è un "serrate le file" motivato da ragioni ideologiche o di egemonia mondana. Serve affinché la Chiesa possa compiere la sua missione a vantaggio di tutti gli omini e di tutte le donne del mondo. La passione di Papa Francesco per l’unità dei cristiani ha la sua sorgente nella sua sollecitudine di pastore. Questo garantisce lungimiranza e risolutezza alle sue mosse. Se c’è in gioco la salvezza delle anime, è inutile e dannoso continuare a perdere tempo nelle rivendicazioni sui diritti di preminenza.
Così, proprio mentre suggerisce a tutti l’urgenza che stringe la missione apostolica della Chiesa nell’ora presente, Papa Francesco esercita con efficacia e pienezza il ruolo proprio che Cristo ha affidato a Pietro e ai suoi Successori, secondo quanto ripete tutta la Tradizione della Chiesa: guidare i fratelli nella sequela di Cristo stesso, nelle circostanze date. Il Papa – come ha ripetuto tante volte anche Joseph Ratzinger – non è mai stato un “imperatore” spirituale. Il suo non è un “potere” configurato su quello delle monarchie mondane o delle superpotenze globali.
Per ora, la supplica di Papa Francesco per l’unità dei cristiani appare lontana anni luce dai piccoli rinfacci politici e psicologici tra circuiti clericali che sabotano incessantemente il cammino verso l’unità piena tra cattolici e ortodossi. Anche l’ultima sessione del dialogo teologico sul tema del primato, svoltasi ad Amman lo scorso settembre, ha segnato il passo, soprattutto per le diffidenze e i risentimenti tra i rappresentanti delle diverse Chiese ortodosse. Già in passato altre occasioni per compiere passi reali e decisivi verso l’unità tra cattolici e ortodossi sono andate perdute. Ma adesso Papa Francesco apre nuove porte. Senza nascondere che occorrerà esercitare ancora la virtù della pazienza, tante volte richiamata nelle sue omelie mattutine a Santa Marta. La stessa pazienza a cui esortava anche il Patriarca ecumenico Atenagora. «L’unione» diceva il predecessore di Bartolomeo «arriverà. Sarà un miracolo dentro la storia. Quando? No possiamo saperlo. Ma dobbiamo prepararci a questo. Perché un miracolo è come Dio: sempre imminente».
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