ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 12 marzo 2015

La coppia acre

SULLA REITERATA, DEL TUTTO INFONDATA POLEMICA DEL “BINOMIO DI PATMOS” CONTRO MARIA GUARINI, COLPEVOLE DI DIFENDERE L’ ORTODOSSIA DELLA FSSPX E DI CRITICARE CERTI BEN NOTI ARTICOLI DEL DISCUSSO VATICANO II.


(di  Paolo  Pasqualucci – Prima parte su http://chiesaepostconcilio.blogspot.it) In un tono che vorrebbe addirittura esser quello dell’ammonimento solenne per la salvezza della sua anima, Don Ariel Levi di Gualdo e Padre Giovanni Cavalcoli OP, in un recente articolo sul loro sito, esortano Maria Guarini a “convertirsi” indirizzandole la frase  pronunziata dai sacerdoti all’imposizione delle Ceneri sulle teste dei fedeli:  “convertiti e credi al Vangelo”.  “Convertiti”, cioè “smetti di lottare contro la Chiesa, la sua dottrina e il suo magistero in nome della tua idea soggettiva di Chiesa”[1].  Tanto sconquasso la suddetta lo provocherebbe tramite il suo noto e frequentato blog “Chiesa e postconcilio”, libera palestra di discussione sulla grave crisi che attanaglia la Chiesa e i fedeli tutti da circa cinquant’anni.  A chi nega a priori l’esistenza della crisi o si ostina ad attribuirla unicamente alle degenerazioni del post-concilio, ogni critica all’andazzo dominante che fatalmente coinvolga in qualche modo il Concilio è vista come un attentato di lesa maestà conciliare e manifestazione di una concezione “soggettiva” della Chiesa, quasi fossero i critici – in realtà cattolici smarriti in cerca di un ubi consistam – tanti piccoli Lutero.
1. Il singolare Diktat del vescovo di Albano contro la FSSPX. La giusta critica di Maria Guarini.  

Il motivo principale dell’acre ostilità dei due Autori al blog di Guarini sembra consistere nel fatto che vi si mostra spesso stima e rispetto per la FSSPX, la cui tenace resistenza alle “riforme” deuterovaticane ha conservato a tutti i cattolici la S. Messa dell’OV, quella sicuramente cattolica, e il Seminario di formazione tradizionale, i due pilastri sui quali si spera di poter ricostruire un domani la Chiesa, quando Dio lo vorrà. Recentemente Maria Guarini, possiamo dire a coronamento di cospicui suoi interventi precedenti, ha criticato la singolare “Notificazione ai parroci” avversa alla FSSPX presente nella sua diocesi, emanata da mons. Marcello Semeraro, attuale vescovo di Albano, nell’ottobre del 2014. Questo documento, che, essa nota, ”viene citato [dai suddetti Autori] come se fosse verità rivelata”, proibisce ai fedeli di “partecipare alla Messa, richiedere o/e ricevere sacramenti dalla o nella Fraternità”. Chi lo fa, “rompe la comunione con la Chiesa cattolica”, non essendo la suddetta Fraternità “istituzione della Chiesa cattolica”[sic].  Ragion per cui, il fedele che ne frequenti le funzioni, per esser “riammesso nella Chiesa cattolica” dovrà preventivamente “compiere un adeguato percorso personale di riconciliazione”![2]
Nel suo intervento Maria Guarini fa giustamente notare come appaia “priva di fondamento canonico” la sanzione imposta nell’occasione ai fedeli: un percorso di “riconciliazione” per la loro “riammissione” nella comunione con la Chiesa, come se ne fossero usciti per il fatto stesso di esser andati alla S. Messa la domenica al Priorato di Albano!  Ciò significa, evidentemente, ritenere “fuori della Chiesa” e quindi “scismatica” od “eretica” o tutte e due le cose insieme la Fraternità San Pio X.
Poiché la FSSPX non è in alcun modo fuori della Chiesa, non è e non è mai stata scismatica e meno che mai eretica (tesi erronee, riprese in questo e altri loro articoli da Don Levi e Padre Cavalcoli), la mancanza di fondamento canonico della “Notificazione” vescovile appare del tutto evidente. Oltretutto, postilla a ragione Guarini, si chiede ai fedeli un processo di “riammissione” alla Chiesa che non si chiede oggi nemmeno più agli (scarsi) protestanti od ortodossi che vogliano farsi cattolici; non lo si richiede, peraltro, sul falso presupposto di una loro (supposta) incorporazione alla Chiesa mediante il battesimo, ancorché rimasta allo stato di unione implicita o imperfetta o non piena che dir si voglia.  Questo errato presupposto, come ricorda l’Autrice, fu individuato tra i primi da Romano Amerio in Iota Unum.  Pertanto si arriva all’assurdo di richiedere a cattolici praticanti, che non hanno violato alcun dogma né sono tantomeno “usciti” dalla Chiesa, di effettuare un “reditus”, un “ritorno” alla vera Chiesa, che viene invece oggi (erroneamente) escluso per i cosiddetti “fratelli separati”: “inopinatamente il vescovo Semeraro tira fuori un improprio, infondato e insostenibile “reditus” per la FSSPX e i fedeli che la frequentano”[3].   La replica di Don Levi e Padre Cavalcoli sul punto si basa su di un argomento del tutto insostenibile alla luce della vera dottrina cattolica, e cioè che il “ritorno” dei “fratelli separati” all’ovile, non debba appunto ritenersi un “ritorno” ma un semplice “entrare” per la prima volta.  Questo è un punto chiave del moderno “ecumenismo”, e richiede un’analisi specifica, anche perché attorno ad esso sembra esserci molta confusione di idee.  Prima di effettuarla, occorre ricordare l’articolata risposta ufficiale del Distretto d’Italia della FSSPX alla “Notificazione” suddetta, con una dichiarazione intitolata:  A proposito della notificazione di Mons. Semeraro, del 29 ottobre 2014.

2. La FSSPX replica alle assurdità contenute nella “Notificazione” con ineccepibili argomenti di fatto e di diritto.  
Nel suddetto documento, si ricorda a S.E. mons. Semeraro che: 1. la Fraternità è stata eretta con tutti i crismi del diritto canonico nel 1970, in Isvizzera;  2. ha ricevuto il decreto di lode della S. Sede nel 1971;  3. la Casa della Fraternità ad Albano “con il suo Oratorio semipubblico per amministrarvi i sacramenti, è stata eretta canonicamente con decreto del suo Predecessore Mons. Raffaele Macario il 22 febbraio 1974 (prot. 140/74)”;  4. la Santa Sede, tramite la Commissione Ecclesia Dei, il 18 gennaio 2003 dichiarava che “è possibile soddisfare il precetto della Messa domenicale “assistendo ad una messa celebrata da un prete della FSSPX””.  Per concludere, infine, che:  5. “Lo stato di grave necessità generale, dovuto alla capillare diffusione di errori contro la fede da parte della gerarchia ecclesiastica, fonda canonicamente il diritto e il dovere di ogni sacerdote fedele di dare i sacramenti e un’autentica istruzione cattolica a chiunque lo richieda.  La FSSPX, sull’esempio del suo fondatore, continuerà a trasmettere integralmente il deposito della fede e della morale cattolica romana etc.”[4].
Di questi gravi “errori contro la fede” sono evidente esempio (annoto) la veglia di preghiera ecumenica con pastora protestante e pope ortodosso (grecoscismatico) effettuata da mons. Semeraro (18 gennaio 2014) e il “primo forum dei cristiani omosessuali”, che egli ha permesso si effettuasse nella sua diocesi, nella Casa dei Padri Somaschi (26-28 marzo 2014), eventi citati nel documento della Fraternità, unitamente al fatto di aver egli donato agli “ortodossi” scismatici l’uso di una chiesa cattolica.  
Affermare che la Fraternità “non è un’istituzione della Chiesa cattolica” è del tutto infondato.  Se fosse vero, la Commissione Ecclesia Dei  non avrebbe stabilito (ben 12 anni fa) esser cosa legittima frequentare le sue chiese e cappelle per il precetto domenicale. Ma per Don Levi, ciò costituirebbe addirittura peccato mortale, il fedele che va a Messa dai “lefebvriani” sarebbe “un’anima in stato di peccato mortale”. Non esita ad affermarlo in un precedente articolo[5].  I fedeli non si devono spaventare.  Non occorre esser laureati in teologia per capire che un’affermazione del genere è destituita di qualsiasi fondamento, sia teologico che canonistico.  Basta studiarsi le carte, come si suol dire, con la dovuta acribia filologica.  Ma vediamo prima la questione del “ritorno” dei non-cattolici che non si dovrebbe più intendere come “ritorno all’ovile” ma come semplice “entrare” nella Chiesa cattolica.
3. Secondo la sana dottrina, il “ritorno” di scismatici ed eretiti alla Chiesa può concepirsi solo come “ritorno all’ovile degli sviati pentiti” (reditus aberrantium).

La questione, come ognun può vedere, coinvolge profondamente le verità di fede. La tesi di Don Levi e Padre Cavalcoli contro Guarini è la seguente: “il decreto conciliare Unitatis redintegratio, 4, afferma che i non-cattolici devono essere “pienamente incorporati nella Chiesa cattolica”. Il che è diverso.  Esiste infatti una differenza di espressioni [non si usa il termine del “ritorno”] motivata dal fatto che, mentre i lefebvriani erano cattolici, che hanno abbandonato la comunione ecclesiale, i non-cattolici dei quali parla questo documento sull’ecumenismo, sono nati non-cattolici, per cui non devono tornare ma entrare nella Chiesa Romana”[6].  I due Autori presentano il fatto di “esser nati non-cattolici” come se si trattasse di una cosa del tutto neutra nei confronti della Chiesa cattolica, ragion per cui chi si trova per nascita al di fuori di essa, se vuole entrarvi, non può per ciò stesso esser visto come uno che voglia “ritornarvi”.  Ma questo può valere per gli appartenenti alle altre religioni o a nessuna, non certo per i non-cattolici rappresentati da protestanti ed “ortodossi”. E non sembra nemmeno conciliarsi con la teoria di Bea dellaparziale incorporazione dei “fratelli separati” alla Chiesa per merito del battesimo ricevuto nelle loro sette.  Ma poiché questa teoria non è compatibile con la sentenza comune, approfondita e spiegata per l’ultima volta da Pio XII nella Mystici Corporis, procederò oltre. 
Non senza aver prima sottolineato l’errore di fatto nel quale sono incorsi i nostri due Autori, nel dichiarare che “i lefebvriani erano cattolici che hanno abbandonato la comunione ecclesiale”.  Chi legge, ignorando i fatti, ha l’impressione che mons. Lefebvre e i suoi “seguaci” se ne siano andati dalla Chiesa sbattendo la porta, per costruirsi la loro “setta”, “lefebvriani” infami che non sono altro, alla maniera di un Fozio o di un Lutero!  Ma questo è semplicemente falso:  Giovanni Paolo II comminò immediatamente la scomunica  latae sententiae a mons. Lefebvre e ai quattro vescovi da lui consacrati nell’estate del 1988, per aver mons. Lefebvre disatteso l’ordine di soprassedere ancora alla nomina di uno o più suoi successori. Dunque li scomunicò per disobbedienza, realizzata da una consacrazione episcopale effettuata senza mandato pontificio, come previsto dal diritto canonico; non per scisma, eresia o altro, anche se disse che si trattava di un “atto scismatico” ossia di un atto dal significato scismatico. Fu una misura disciplinare, anche se alle spalle c’era il noto conflitto dottrinale sul Concilio e la riforma liturgica.  
Ciò chiarito, torniamo ai non-cattolici. Chi nasce protestante od “ortodosso” non nasce in una comunità neutra ed indifferente alla Chiesa cattolica.  A causa delle colpe dei suoi padri, nasce in una comunità di cristiani, eretici e scismatici, ostili al cattolicesimo, i cui individui, se vi permangono condividendone gli errori in campo religioso e morale (pensiamo alle loro eresie,  al divorzio), non si salvano, se non nel caso ottengano (individualmente) dallo Spirito Santo la grazia del Battesimo di desiderio, esplicito o implicito (dottrina confermata da Pio XII nella condanna dell’errore “rigorista” di P. Leonard Feeney, che considerava a priori dannati tutti i non-cattolici e non-cristiani e che fu alla fine scomunicato per la sua perseveranza in quest’errore)[7].  Ciò significa che gli uomini e le donne veramente pii e giusti, quale che sia la loro religione, si salvano, sempre che abbiano e mantengano la fede in Dio con “voto di perfetta carità” nei confronti di Dio, vivano rettamente, non muoiano in peccato mortale.  I concetti sono questi:  1. se avessero conosciuto il vero cattolicesimo sarebbero stati cattolici (battesimo di desiderio implicito);  2. l’hanno conosciuto ed erano sulla via dell’aperta conversione ma sono morti prima di riuscirci (battesimo di desiderio esplicito). Il fondamento primo di questa fondamentale dottrina, che dimostra la vera misericordia della Chiesa, superiore a quella di tutte le altre religioni, si trova nella Lettera ai Romani 2, 13-16.
Ora, che i “separati” siano come tali già incorporati (anche non pienamente) alla Chiesa grazie al battesimo non è vero:  essi si trovano nella posizione di chi è “ordinato in voto” alla Chiesa a causa dell’impronta spirituale indelebile impressa nell’anima dal battesimo. Ma ciò non è sufficiente per la loro salvezza,  non può considerarsi “incorporazione” e quindi un far parte della Chiesa, anche in modo solo implicito.  Ciò risulta con chiarezza dalla Mystici Corporis, come si è detto.  Nella grande enciclica dedicata alla Chiesa “corpo mistico di Cristo”, Pio XII scrive:  
“Bramiamo altresì fortemente che le comuni preghiere abbraccino nella stessa ardente carità sia coloro che non ancora illuminati dalla verità evangelica,  non sono al sicuro nell’ovile della Chiesa; sia coloro che, a causa di una miserevole scissione dell’unità della fede, si sono separati da Noi che, pur immeritevoli, rappresentiamo in terra la persona di Gesù Cristo[…] Anche questi che non appartengono al visibile organismo della Chiesa, come voi ben sapete, Venerabili Fratelli, fin dal principio del Nostro Pontificato, li affidammo alla celeste tutela ed alla celeste direzione, protestando solennemente che, dietro l’esempio del buon Pastore, nulla ci stava più a cuore che essi abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza […] con animo straripante di amore invitiamo tutti e singoli ad assecondare spontaneamente gli interni impulsi della divina grazia e a far di tutto per sottrarsi al loro stato in cui non possono sentirsi sicuri della propria salvezza [si citano Pio IX, Iam vos omnes, 13 settembre 1868 e gli Atti del Concilio Vaticano I], perché sebbene da un certo inconsapevole desiderio e anelito siano ordinati al mistico Corpo del Redentore, tuttavia sono privi di quei tanti doni ed aiuti celesti che solo nella Chiesa Cattolica è dato di godere [ab eo statu se eripere studeant, in quo de sempiterna cuiusque propria salute securi esse non possunt; quandoquidem, etiamsi inscio quodam desiderio ac voto ad mysticum Redemptoris Corpus ordinentur, tot tamen tantisque caelestibus muneribus adiumentisque carent, quibus in Catholica solummodo Ecclesia frui licet.  Ingrediantur igitur catholicam unitatem, etc.].  Rientrino perciò nella cattolica unità e tutti uniti a Noi nell’unica compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella società di un gloriosissimo amore [Papa Gelasio, 1 Lettera, XIV][…] Però, mentre desideriamo che una tale preghiera salga ininterrotta a Dio da parte di tutto il Corpo mistico affinché tutti gli sviati entrino al più presto nell’unico ovile di Gesù Cristo [ut aberrantes omnes in unum Iesu Christi ovile quam primum ingrediantur, profitemur tamen, etc.], dichiariamo che è assolutamente necessario che ciò sia fatto di libera e spontanea volontà, non potendo credere se non chi lo vuole [S. Agostino, Trattato sul Vangelo di Giovanni, XXVI, 2]”8.
Si vede chiaramente, da questo testo capitale, con il quale Pio XII volle sicuramente controbattere le concezioni erronee che già circolavano, che:  1. Gli eretici e scismatici non appartengono affatto alla Chiesa cattolica con il battesimo, nemmeno in parte o in modo imperfetto.  2. Si considerano “ordinati in voto” ad essa, da un “inconscio desiderio o  anelito”, provocato dal carattere battesimale che si è impresso indelebilmente nell’anima, che fa operare “l’interno impulso della grazia” come tendenza o “desiderio” verso la Chiesa;  3.  Tale “anelito” col tempo viene sommerso dall’influsso dell’ambiente non cattolico ed anzi ostile al cattolicesimo, soprattutto se l’individuo vi aderisce coscientemente: bisogna dunque uscirne con il ritorno alla vera Chiesa;  4.  Questo “rientrare”, che traduce correttamente lo “ingrediantur”, deve essere libero, ovviamente, ma deve sempre intendersi come un ritorno degli “sviati”, in latino “aberrantes”: di coloro che si sono sviati sulla strada dell’errore, nel quale si trovano oggettivamente immersi i “separati”.  Appunto, come da secolare sentenza comune: ritorno all’ovile degli erranti, pentiti dei loro errori e dopo averli abiurati.

Sarebbe un errore ritenere vago ed inconsistente il concetto di “ordinazione in voto”.  Esso si ricava dall’esistenza del “segno spirituale ed indelebile” che viene “impresso come carattere nell’anima” dal battesimo in quanto tale, cosa che non lo rende “reiterabile”, se è stato correttamente somministrato. L’esistenza di questo “carattere battesimale” nell’anima del battezzato è stata definita come dogma di fede dal Concilio di Trento[9].  Questo perché il battesimo è appunto il sacramento che ci rigenera spiritualmente; conferisce: “la prima grazia santificante e le virtù soprannaturali, togliendo il peccato originale e gli attuali, se vi sono, con ogni debito di pena per essi dovuta; imprime il carattere di cristiano e rende capace di ricevere gli altri sacramenti”[10]. Il battesimo, continua il Catechismo di S. Pio X, “ci fa cristiani cioè seguaci di Gesù Cristo, figli di Dio e membri della Chiesa”.  Però se ne deduce che quest’ultimo carattere non vale per gli eretici e scismatici, trovandosi essi fuori della Chiesa:  “È fuori della comunione dei santi chi è fuori della Chiesa, ossia i dannati, gl’infedeli, gli ebrei, gli eretici, gli apostati, gli scismatici e gli scomunicati”[11].
In quest’idea dell’appartenenza alla Chiesa cattolica dell’eretico grazie al battesimo, come infiltrata nei testi del Concilio, c’e’ anche un altro aspetto da tener presente, estremamente negativo per i “separati” stessi, messo invano  in rilievo da mons. Lefebvre, in uno dei suoi interventi in Concilio, contrario al decreto sull’ecumenismo.
“Così, nel dire ai protestanti: ‘Voi siete discepoli di Cristo, rigenerati dal battesimo’ li si inganna, poiché ben spesso il loro battesimo ‘è invalido sia per vizio di forma, sia di materia, sia di intenzione’ ed è spessissimo infruttuoso poiché, presso quelli che hanno l’età della ragione, l’assenza della fede divina e cattolica costituisce un ostacolo alla grazia”[12].
In effetti, il Concilio di Trento, ribadendo come dogma di fede la validità del battesimo impartito dagli eretici, stabilì precise condizioni, e cioè che dovesse esserlo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e con l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa[13].  Stabilì, in sostanza, che dovesse sempre aver luogo con i requisiti di forma, materia, intenzione indispensabili alla sua validità.  Come si può sapere che questi requisiti sono sempre rispettati dal “ministro” protestante?  Insomma, negli articoli 3 e 4 di UR si presenta il battesimo degli eretici come un istituto intrinsecamente valido senza sfumature, dotato della sua forza di sacramento che ex opere operato incorporerebbe l’eretico (il “separato”) alla Chiesa di Cristo.  Come se non ci fosse nessuna circostanza, sociale e personale, capace di renderne del tutto problematica l’efficacia.  Anche alla luce di questi rilievi, la “nuova dottrina” teorizzata da Bea ed introdottasi nel Concilio, appare superficiale, irrealistica, priva di ogni solido fondamento.
La Mystici Corporis mantiene sempre fermo il concetto tradizionale, intorbidatosi dopo il Vaticano II, secondo il quale la separazione è colpa di coloro che se ne sono voluti andare, per la malvagità loro, non della Chiesa.  Come recita la famosa frase di S. Cipriano, che mi sembra caduta in disuso:  “Non enim nos ab illis, sed illi a nobis recesserunt”:  “Infatti non fummo noi a separarci da loro, ma loro da noi”.  Il concetto tradizionale del ritorno (reditus) dell’errante pentito, lo troviamo in modo ancor più netto netto già nell’EnciclicaMortalium animos di Pio XI, del 6 gennaio 1928, nel quale il Papa ribadì la vera dottrina sull’unità della Chiesa, condannando il “pancristismo” ossia l’antesignano dell’ecumenismo attuale, che si stava già diffondendo tra il clero del tempo e sarebbe poi riemerso dalla semiclandestinità con Angelo Roncalli.  Voglio segnalare che della Mortalium animos, testo che rappresenta l’oggettiva condanna anticipata ed esplicita di diverse posizioni riconducibili al Vaticano II, nell’ultima edizione del Denzinger-Schönmetzer, che giunge sino a documenti del 1964 ed è del 1975, non si trova traccia.  È praticamente assente.  Se ne riporta solo un brano non collegato con il tema principale, intitolato:  “De munere et ambitu magisterii ecclesiastici”[14].
 In quella capitale Enciclica, Pio XI, dopo aver spiegato perché era sbagliata l’idea di unità come unione paritaria delle religioni grazie agli incontri interconfessionali, proposta da eretici e non-cristiani di ogni tipo, che promuovevano appunto l’idea di una futura unione di tutte le Chiese in una religione universale, magari con il Papa come “presidente”; idea aberrante perché non si può avere unità tra chi crede in cose non solo diverse ma persino opposte; che l’unità del cristianesimo già era stata mantenuta dalla Chiesa cattolica con la continuità e la purezza del suo Magistero; dopo aver chiarito questi ed altri punti, il Papa concludeva:
“Cosicché, Venerabili Fratelli, sarà ora chiaro perché la Sede Apostolica mai abbia permesso ai suoi fedeli d’intervenire ai congressi degli acattolici:  la riunione dei cristiani non si può favorire in altro modo che favorendo il ritorno dei dissidenti all’unica vera Chiesa di Cristo, dalla quale, precisamente, un giorno ebbero l’infelice idea di staccarsi [christianorum enim coniunctionem haud aliter foveri licet, quam fovendo dissidentium ad unam veram Christi Ecclesiam reditu, quandoquidem olim ab ea infeliciter descivere] :  a quell’unica vera Chiesa di Cristo, diciamo, che è visibile a tutti, e che tale, per volontà del suo Fondatore, resterà, quale egli stesso la fondò per la salvezza di tutti […] Partirono, ahimé, i figli dalla casa paterna [recesserunt heu filii a paterna domo], ma questa non cadde, sorretta com’era dal perpetuo sostegno del suo Dio; tornino dunque al comun Padre [ad communem igitur Patrem revertantur], il quale, dimenticando le ingiurie lanciate alla Sede Apostolica, li accoglierà con amorevolezza grande […] Tornino dunque i figli dissidenti [dissidentes accedant filii]  alla Sede Apostolica […] ma tornino non coll’idea che “la Chiesa del Dio vivo, colonna e baluardo della verità”(1 Tm 3,15) abbandoni l’integrità della fede e tolleri i loro errori; ma piuttosto per darsi al suo magistero e governo”[15].
I concetti espressi in queste encicliche si applicano a tutti gli “aberrantes”.  Non conta il fatto che siano nati senza loro colpa in una setta scismatica.  Se ricevono il battesimo in modo corretto, si trovano ordinati in voto alla vera Chiesa di Cristo, che è solo quella  cattolica.  Ciò dipende dagli effetti santificanti del battesimo, ex opere operato.  Ma poi, crescendo nell’ambiente pervaso dagli errori dei settari tale “ordinatio” resta puramente platonica, “l’interno impulso della grazia” (tranne nei casi a noi ignoti di battesimo di desiderio implicito e quelli noti di chi si vuole convertire) viene sepolto nel profondo del loro animo e costoro si ritrovano a vivere tra gli esclusi dalla comunione dei santi.
 Lo studio della retta dottrina della Chiesa dimostra l’insostenibilità della critica di Don Levi e Padre Cavalcoli a Maria Guarini, non solo perché “i lefebvriani” non sono eretici che si sono allontanati dalla comunione con la Chiesa e quindi non ha senso parlare per loro, e di chi va alla S. Messa da loro, di un “reditus” di pentiti; ma anche perché eliminare il concetto del “reditus” nei confronti dei veri scismatici ed eretici, sulla scorta di Unitatis redintegratio 3 e 4 che insufflano nei testi del Concilio l’ambiguo e non cattolico concetto di “incorporazione piena-non piena” ex baptismo degli eretici nella Chiesa, sulla scorta pertanto dell’eteroclito ecumenismo attuale; ciò dimostra soltanto che ci si ostina a criticare chi difende la vera dottrina della Chiesa con i sofismi dei quali rigurgita il pastorale e contestatissimo Vaticano II.

4.  La FSSPX non è eretica e non è mai stata accusata di eresia. Mons. Livi demolisce l’accusa cavalcoliana di eresia alla Fraternità e mette impietosamente in luce le carenze teologico-filosofiche di Don Levi.
La base “teologica” dell’insistita polemica di don Levi e di Padre Cavalcoli contro Maria Guarini sembra costituita dall’accusa di e r e s i a  alla FSSPX.  Essi scrivono che:  “la nota di eresia alle critiche fatte dal Vescovo Marcel Lefebvre alle dottrine del Concilio Vaticano II si evince facilmente dalle dichiarazioni fatte dal Beato Pontefice Paolo VI, dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II e dal Sommo Pontefice Benedetto XVI, tutte riportate di recente in un articolo firmato da Ariel S. Levi di Gualdo etc.”[16].  Ho sottolineato la frase “si evince facilmente”.  Si “evince facilmente” da parte di chi? In nessuna delle dichiarazioni di quei pontefici mons. Lefebvre è mai stato accusato di eresia.  Né tale accusa è stata mai fatta in altri documenti della Santa Sede concernenti la Fraternità. Con quale autorità, Don Levi e Padre Cavalcoli la diffondono come se fosse cosa ovvia?  In quei documenti, si parlava, peraltro impropriamente, di “scomunica per scisma”, non per eresia.  Come ho già detto, Mons. Lefebvre  incorse nella scomunica latae sententiae per disobbedienza, non per eresia. E nemmeno per scisma.  Giovanni Paolo II disse che la disobbedienza consisteva in un “atto scismatico” riferendosi evidentemente al significato dell’atto, che poteva esser interpretato (dall’esterno) come atto intenzionato a porre in essere uno scisma:  ma l’atto che provocò la sanzione fu la disobbedienza come tale non il supposto suo significato. Ormai anziano, estenuato da mesi di lunghe e inconcludenti trattative con Roma per la nomina di un vescovo suo successore che desse la garanzia di mantenere alla Fraternità l’impostazione originale, di fedeltà alla Tradizione della Chiesa; invocando lo stato di necessità, decise alla fine di consacrare (nell’estate del 1988) quattro vescovi senza aspettare oltre e quindi senza l’autorizzazione papale prescritta dal diritto canonico.  La scomunica fu dunquecomminata per ragioni disciplinari, non per le critiche di mons. Lefebvre al Vaticano II, come qualcuno potrebbe forse arguire dall’articolo di Don Levi e Padre Cavalcoli. È vero che sullo sfondo c’era il rifiuto della riforma liturgica e la critica al Concilio, ma non per questi motivi fu scomunicato mons. Lefebvre.  Unicamente per disubbidienza al Papa che gli intimava di aspettare ancora. Ugualmente per motivi disciplinari furono scomunicati i quattro vescovi da lui consacrati.
Sulla supposta “eresia” della Fraternità, ha insistito il P. Cavalcoli in particolare ma il suo (in questo caso) errato uso del concetto di “eresia” gli è stato rimproverato da un pensatore e teologo cattolico autorevole e stimato come mons. Antonio Livi, ed è stata una delle ragioni che ha spinto quest’ultimo a lasciare il sito “isoladipatmos”, che aveva fondato con i due sunnominati.  Nella “lettera aperta” di nove pagine, del 21 febbraio 2015, apparsa sul sito ed intitolata:  Perché mi accomiato dall’Isola, mons. Livi scrive:
 “Faccio riferimento, infine, anche all’articolo di padre Cavalcoli.  In esso il mio stimato confratello e amico sostiene la causa nobilissima della “pace nella Chiesa”, ma per fare ciò stabilisce una suggestiva (dal punto di vista retorico) simmetria tra gli errori dei modernisti e quelli dei “lefebvriani”.  Tale pretesa simmetria […] non serve affatto a dare rigore scientifico, in senso propriamente teologico, all’argomentazione pastorale.  Infatti, i “lefebvriani” non costituiscono, teologicamente parlando, una categoria comparabile a quella dei modernisti. Ossia, mentre il modernismo è – formalmente come dottrina – un’eresia (anzi, il “coacervo di tutte le eresie” ebbe a dire san Pio X), che la Chiesa ha individuato all’inizio del Novecento e, dopo averle dato questo specificio nome, ha condannato con un documento dottrinale avente valore dogmatico (l’enciclica Pascendi dominici gregis), nulla di tutto ciò è avvenuto con la Fraternità di San Pio X, il suo fondatore e i suoi seguaci.  La Chiesa, ai tempi di papa Paolo VI, ha comminato delle gravissime pene canoniche alla persona di mons. Marcel Lefebvre, colpevole di aver consacrato dei vescovi senza l’autorizzazione della Santa Sede e di aver dato luogo, così, a un vero e proprio scisma.  Ma né il papa dell’epoca né quelli che gli sono succeduti, fino a Benedetto XVI che ha tentato in vari modi di far “rientrare” lo scisma, hanno promulgato dei documenti nei quali si individua una dottrina eretica cui si debba dare il nome di “lefebvrismo”[17].
Concetti chiarissimi, direi, che dimostrano l’assoluta inconsistenza della tesi di Don Levi e P. Cavalcoli.  Continua poi mons. Livi:
“Certo, un teologo può rinvenire nei discorsi e nelle iniziative ecclesiastiche di mons. Marcel Lefebvre una dottrina incompatibile con il dogma dell’infallibilità del magistero, sia quando formula dei dogmi che quando si esprime con un magistero solenne e universale, come è stato per il Vaticano II, che mons. Lefebvre (il quale pure aveva partecipato ai lavori del Concilio e ne aveva firmato i documenti finali) aveva in alcuni punti ritenuto in contraddizione con la Tradizione, ossia con l’insegnamento del magistero precedente.  Ma questa legittima considerazione teologica non autorizza porre l’ipotetico contenuto ereticale dell’ideologia di questi tradizionalisti sullo stesso piano delle eresie formalmente condannate dalla Chiesa, perché ciò genera inevitabilmente una gravissima confusione dottrinale.  Tra le eresie o dottrine erronee formalmente condannate dalla Chiesa […] non mi risulta esserci il “lefebvrismo” o qualcosa di analogo.  Padre Cavalcoli (come chiunque altro, me compreso) ha tutto il diritto e il dovere pastorale di mettere in guardia i fedeli dal dare credito  a posizioni dottrinali che sembrano negare la validità delle “riforme nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”:  ma finché tali posizioni non si configurano, non come mera mancanza di rispetto e di obbedienza ma come una vera e propria dottrina, e finché tale dottrina non è formalmente dichiarata eretica dalla Chiesa, non la si può equiparare – per esigenze di simmetria retorica – al modernismo”[18].
Mi dispiace sinceramente non esser qui d’accordo con mons. Livi su questo punto:  che nelle azioni e nei discorsi di mons. Lefebvre vi possa essere una “dottrina” incompatibile con “l’infallibilità del magistero”.  Non ritengo fondata un’affermazione del genere.  Mons. Lefebvre soleva dire:  “Non capisco. Continuo a dire e a fare quello che dicevo e facevo quando era vivo Pio XII e mi ritrovo messo al bando”.  In quali segni scorge mons. Livi il carattere “solenne e universale” e quindi dogmatico del magistero del Vaticano II?  Forse nel fatto che la Lumen Gentium e la Dei Verbum si fregiano del titolo di “costituzioni dogmatiche”? Eppure nei loro testi non viene proclamato alcun dogma.  La cosa resta un enigma. Forse va attribuita al clima di confusione e colpi di mano nel quale si è svolto il Vaticano II.  Credo sia la prima volta, nella storia della Chiesa, che un Concilio ecumenico etichetta come “dogmatiche” sue proprie costituzioni, che nel loro contenuto mostrano chiaramente di non esserlo.  Il fine “prevalentemente pastorale” o “pastorale” tout court del Concilio, è stato dichiarato da Giovanni XXIII nella Allocutio di apertura (lo voleva solo “pastorale” perché non voleva vi si condannasse errore alcuno) e dalla Nota explicativa previa in calce alla Lumen Gentium.  Nella Epistola Cum Iam del 21 settembre 1966 indirizzata da Paolo VI al cardinale Pizzardo, organizzatore del primo convegno internazionale “sulla teologia del Concilio”, mai quel Pontefice si riferì al Vaticano II come ad un’Assise dogmatica.  Anzi, ne riaffermò il carattere pastorale.  “Il fatto che il Concilio Ecumenico Vaticano II – scrisse – si era proposto fini eminentemente pastorali, non fa venir meno o diminuire il compito dei teologi [Quod autem Concilium Oecumenicum Vaticanum II fines praesertim pastorales assequi sibi proposuerat, id nullo modo partes extenuat vel minuit, quae ad theologos spectant].  Anzi, che i teologi (oltre ai vescovi) dovessero impegnarsi a spiegare e diffondere l’insegnamento del Concilio per proteggere i fedeli dagli errori circolanti, “lo richiedeva la ratio stessa del compito pastorale [ipsa pastoralis muneris ratio postulat]”[19]. Si intende, del “compito pastorale” prefissosi dal Concilio.
Tornando a bomba, anche volendo ammettere in via di pura ipotesi l’esistenza di una  eterodossa “dottrina” nella “ideologia” della Fraternità per ciò che riguarda il “magistero infallibile” di un Concilio, ciò non autorizza  comunque nessuno a considerarla eretica, conclude giustamente mons. Livi.  Insistere su questo punto, come se le supposte “eresie” dei “lefebvriani”  fossero un fatto ovvio ed accertato dall’autorità, crea solo “una gravissima confusione dottrinale”. Non solo, mi permetto di aggiungere, crea anche una “gravissima confusione” nelle anime dei fedeli, produce pessime conseguenze sul piano pastorale.
Ma quali sarebbero le “eresie” della Fraternità?  Si entra mai nel merito? Mai.  E si capisce perché: come rileva giustamente mons. Livi, non esiste un “lefebvrismo”, una “dottrina” di mons. Lefebvre, con dei “seguaci”.  Proclamare “eretica” la Fraternità significa proclamare “eretica” tutta la Chiesa pre-conciliare. Non è nemmeno esatto, a ben vedere, denominare “seguaci” (anche in senso puramente descrittivo) coloro che attendono alla Messa o partecipano agli Esercizi Spirituali ignaziani, secondo il metodo tradizionale, organizzati dalla Fraternità.  Costoro sono solo cattolici che cercano una Messa sicuramente cattolica, senza contaminazioni “ecumeniche” ed invenzioni liturgiche prone ad ogni sorta di aberrazione, ed esercizi spirituali non “aggiornati” alle supposte esigenze del mondo (e quindi:  di cinque giorni, con uomini  e donne sempre separati, con la regola del silenzio).  Dire “seguaci” fa pensare ai seguaci di una setta e questo non è certamente il caso.
L’immaginaria eresia di mons. Lefebvre e della Fraternità  è nella realtà la seguente:  aver osato criticare il Vaticano II ed essersi rifiutati di accettarlo nei punti nei quali appare in manifesto contrasto con la Tradizione della Chiesa.  Ma critica e rifiuto non possono costituire alcuna eresia poiché il Vaticano II è stato un Concilio solo pastorale, come ho già ricordato. Un concilio ecumenico sui generis non tanto  perché non ha proclamato dogma alcuno quanto perché ha introdotto espressamente delle novità dottrinali di notevole portata (vedi Dichiaraz. Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, 1).  Il fatto assolutamente eccezionale di aver introdotto queste novità e in documenti dalla nota teologica solo pastorale, autorizza il semplice fedele ad indagare con il proprio intelletto se queste novità siano o meno in armonia con il Magistero precedente.  Pertanto, chi rifiuta in modo motivato queste novità (tutte o alcune) non cade certo nel peccato di eresia. Potrà esser considerato “disobbediente” dall’autorità costituita ma di certo non “eretico”. L’eretico, infatti, è il battezzato colpevole di “ostinata negazione di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica” cioè come dogma, o “del dubbio ostinato su di essa” (CIC c. 750).  Quei pochi vescovi che non volevano accettare il dogma dell’infallibilità del Papa quando definisce ex cathedra come dogmi verità di fede o della morale, cadevano nel peccato di eresia perché rifiutavano un dogma, definito espressamente come tale nel magistero straordinario di un Concilio ecumenico, il dogmatico Vaticano primo. Non si vede come possa esser messo sullo stesso piano chi non accetta novità dottrinali, che, in quanto tali, non possono nemmeno ricadere nell’infallibilità del magistero ordinario, introdotte in documenti espressamente pastorali e con lo scopo dichiarato di “aggiornare” la Chiesa alle “necessità dei tempi presenti”[20].
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1. Giovanni Cavalcoli OP, Ariel S. Levi di Gualdo, Risposta ad un articolo di Maria Guarini: “Convertiti e credi al Vangelo”, su “isoladipatmos.com”, 4 marzo 2015.
2. Testo della Notificazione nell’articolo Risposta ad articolo etc., cit. Per l’articolo di Guarini: M. Guarini, Pertinaci chiusure che sembrano andare contro corrente, [qui] in “Chiesa e post concilio”, 27 febbraio 2015. 3. M. Guarini, Tenaci chiusure etc., cit., con il riferimento ai passi di Amerio. Si tratta del cap. XXXV di Iota Unum (§§ 245-259). Nel § 246 Amerio rimarcò che protagonista del mutamento di dottrina fu il cardinale Agostino Bea S.I., a partire da un articolo sull’Osservatore Romano del 27 aprile 1962. Il Concilio, come nota Amerio, respinse il principio tradizionale del “ritorno” dei Protestanti pentiti (UR 3 e 4). Annoto che il Decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, affermando all’art. 3 il principio del tutto nuovo secondo il quale i “fratelli separati, giustificati nel battesimo della fede, sono incorporati a Cristo” e quindi si possono considerare “in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”, vuol darsi un fondamento dottrinale rinviando in nota (la n. 17 del testo) al Concilio di Firenze del 1439. Il lettore sarebbe quindi portato a credere che in quel Concilio Ecumenico si sia già formulato il principio della suddetta incorporazione dei “fratelli separati”. Ebbene, il riferimento è, a mio avviso, incongruo. Nella Bolla di Unione con gli Armeni del 22 novembre 1439, il Concilio si limitò semplicemente ad esporre agli Armeni che volevano ritornare all’unione con Roma “in breve compendio, la verità della fede ortodossa, che su questi argomenti professa la Chiesa di Roma” a cominciare dai sette Sacramenti. Spiegando il Battesimo, il Papa Eugenio IV, parlando con il Noi, a nome quindi dei vescovi e di tutti i cattolici, affermò che “con esso diventiamo membra di Cristo e parte del corpo della Chiesa”: lo diventiamo noi cattolici perché egli si riferiva sempre a ciò che affermava la Chiesa riguardo ai suoi membri e quindi ai cattolici, non certo riguardo agli eretici. Sul punto, per i testi: DS, 696/1314; G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, pp. 484-496; p. 488.
4. Testo in Chiesa e postconcilio del 29 ottobre 2014 [qui].
5. P. Ariel S. Levi di Gualdo, L’eresia lefebvriana e lo stato di peccato mortale, in “isoladipatmos.com”, 26 febbraio 2015.
6. Risposta ad un articolo di Maria Guarini etc., cit. Parentesi quadre mie, qui come altrove. I passi essenziali sono nell’art. 3 di UR, già ricordato. Nel penultimo paragrafo dell’art. 4 si dice addirittura che: “Tuttavia le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa realizzi la pienezza della cattolicità a lei propria in quei figli che le sono certo uniti col battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione”.
7. Ep. S. Officii ad archiep. Bostoniensem, 8. Aug. 1949, DS, 3866-3873.
8. PIO XII, Enciclica “Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, Vita e pensiero, Milano-Roma, 1959, versione italiana “tolta da l’Osservatore Romano del 4 luglio 1943”. Per il testo in latino: Denzinger-Schönmetzer, 3821-3822.
9. DS, 852/1609.
10. Catechismo della dottrina cristiana pubblicato per ordine di S.S. Papa Pio X, S.E.I., Torino, 1938, n. 290.
11. Op. cit., n. 293, sugli effetti del battesimo e n. 124, su chi è fuori della comunione dei santi.
12. B. Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, Clovis, Paris, 2002, p. 344.
13. DS, 860/1617.
14. DS, 3683. Bisognerebbe confrontare quest’edizione, che è la 36a “emendata”, con le due precedenti, per vedere se la Mortalium animos fosse riportata o meno. Mi sembra impossibile che non ce ne fosse traccia.
15. PIO XI, Lettera Enciclica “Mortalium animos” sulla vera unità religiosa, estratto anonimo, senza data dalla traduzione apparsa sull’Osservatore Romano del tempo. Il testo l’ho confrontato con l’originale latino sugli Acta Apostolicae Sedis reperibili in rete, AAS XX (1928) pp. 1-16.
16. Risposta ad un articolo di Maria Guarini, cit.
17. Antonio Livi, Perché mi accomiato dall’Isola. Lettera aperta di mons. Antonio Livi, di pp. 1-9, in “isoladipatmos” cit., 21 febbraio 2015; pp. 5-6
18. Op. cit., pp. 6-7. Circa la “firma” apposta da mons. Lefebvre a tutti i documenti finali del Concilio, è d’uopo precisare quanto segue: 1. Paolo VI volle che tutti i vescovi alla fine firmassero ogni documento conciliare da lui promulgato. Si trattava di una sorta di certificazione episcopale alla promulgazione del documento, che non aveva nulla a che vedere con l’approvazione (già avvenuta) dello stesso, ossia con la sua pregressa votazione in aula. 2. Firmarono quindi anche quei pochi che avevano espresso voti contrari. Mons. Lefebvre ha sempre sostenuto di aver votato contro tutti i capitoli dellaGaudium et Spes e della dichiarazione sulla libertà religiosa, la Dignitatis Humanae3. Ha anche detto che, negli ultimi e sempre esagitati tempi del Concilio, la pressione del Papa, basata non su minacce o blandizie, ma sul senso di disciplina e filiale devozione dei vescovi, per un voto favorevole, era diventata praticamente insostenibile. 4. Non si voleva dispiacere al Papa e c’era comunque la speranza di poter poi resistere sulle parti ancora cattoliche dei documenti (per tutti i dettagli riportati: B. Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, cit., pp. 332-334).
19. PAULUS PP. VI, Epistula, Cum Iam [qui], 21 settembre 1966, www.internetica.it/Paolo VI-Cumlam.htm; pp. 1-3; p. 1.
20. Paolo VI, Epistola, Cum Iam, cit., pp. 2.
12 marzo 2015

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