Il “riconoscere l’esistenza di Dio è un elemento distintivo dell’essere umano”, in quanto essere intelligente, capace di cogliere il senso della realtà, è infatti stoltezza il negare l’esistenza di Dio: sarebbe negare l’evidenza che ogni cosa creata rimanda necessariamente ad una causa.
Dice il Salmo 14: «Lo stolto ha detto nel suo cuore: non c’è Dio». Ma cosa s’intende per stolto? Colui che non ce la fa? Che non può capire? No. Qui s’intende colui che non vuol capire, che ottunde la propria intelligenza per non riconoscere ciò che è evidente. Lo stolto come insipiente. Si può cogliere un elemento interessante rileggendo le parole del Salmo: lo stolto deve affermare nel suo cuore che Dio non esiste, cioè in silenzio, sottovoce, di nascosto. Il significato è chiaro. È talmente insensata un’affermazione di questo tipo che, per non essere presi per pazzi, bisogna pronunciarla sottovoce. Dalle mie parti si direbbe: “Nella camicia”.
Queste considerazioni richiamano un grande filosofo, sant’Anselmo di Aosta e la sua famosa “prova apriori”, che dice così: dal momento che Dio è l’essere perfettissimo, Egli non manca di nulla, dunque non può mancare dell’esistenza e quindi esiste. Una prova che – diciamocelo francamente – non convince affatto. E infatti con questa sant’Anselmo non voleva convincere. Per convincere nel Proslogion utilizzò un’altra prova, quella classica, aposteriori, dagli effetti alle cause per giungere fino alla “causa prima”, cioè a Dio. Con la prova apriori sant’Anselmo non voleva dimostrare l’esistenza di Dio quanto un’altra cosa, il fatto che questa esistenza è connaturata al senso comune. Non spetta al credente l’onere della prova per dimostrare l’esistenza di Dio quanto al non-credente. È talmente innaturale non credere nel Dio creatore che è appunto il non-credente che è tenuto a dare una giustificazione della sua assurda convinzione. È un po’ come dire che non è chi afferma che un oggetto lasciato nel vuoto cade che è tenuto a dimostrare ciò che dice, quanto eventualmente chi per assurdo volesse affermare il contrario.
Dice il Libro della Sapienza (capitolo 13): «Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dèi, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’artefice». Dunque, “davvero stolti” perché incapaci di leggere il senso di un’evidenza, l’evidenza che nulla può esistere da sé, ma che tutto rimanda ad una causa. Canta il Salmo 18: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento. / Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. / Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. / Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola».
Possiamo dire che riconoscere l’esistenza di Dio è un elemento distintivo dell’essere uomo. E infatti solo l’uomo può paradossalmente essere ateo, perché solo l’uomo ha in sé il concetto di Dio; lo ha talmente in sé che può liberamente (ma stoltamente) negarlo. L’animale no, l’animale non può essere ateo perché, privo dell’intelligenza, non può cogliere il senso della realtà, la sua logica, e quindi l’origine consequenziale e ordinata di tutto. Cicerone scrive nel De Legibus: «Tra tante specie nessun animale, al di fuori dell’uomo, ha una notizia qualsiasi della divinità, e non c’è fra gli stessi uomini nessuna gente così selvaggia e feroce, che sebbene ignori come si debba concepire Dio, non si renda conto che bisogna ammetterne l’esistenza». Giustamente lo scrittore inglese Chesterton sentenzia: «Se non ci fosse Dio, non ci sarebbero gli atei!».
E sempre a proposito di quanto il riconoscimento di Dio sia una condizione necessaria della buona utilizzazione dell’intelligenza, sant’Agostino scrive nel De Civitate Dei: «Vero filosofo è l’amante di Dio!». Qui l’autore delle Confessioni va ben oltre e dice che per essere veri sapienti non basta il riconoscimento di Dio, bisogna andare oltre, bisogna sceglierlo, seguirlo, amarlo, capire che è il tutto della propria vita.
Queste considerazioni richiamano un grande filosofo, sant’Anselmo di Aosta e la sua famosa “prova apriori”, che dice così: dal momento che Dio è l’essere perfettissimo, Egli non manca di nulla, dunque non può mancare dell’esistenza e quindi esiste. Una prova che – diciamocelo francamente – non convince affatto. E infatti con questa sant’Anselmo non voleva convincere. Per convincere nel Proslogion utilizzò un’altra prova, quella classica, aposteriori, dagli effetti alle cause per giungere fino alla “causa prima”, cioè a Dio. Con la prova apriori sant’Anselmo non voleva dimostrare l’esistenza di Dio quanto un’altra cosa, il fatto che questa esistenza è connaturata al senso comune. Non spetta al credente l’onere della prova per dimostrare l’esistenza di Dio quanto al non-credente. È talmente innaturale non credere nel Dio creatore che è appunto il non-credente che è tenuto a dare una giustificazione della sua assurda convinzione. È un po’ come dire che non è chi afferma che un oggetto lasciato nel vuoto cade che è tenuto a dimostrare ciò che dice, quanto eventualmente chi per assurdo volesse affermare il contrario.
Dice il Libro della Sapienza (capitolo 13): «Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dèi, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’artefice». Dunque, “davvero stolti” perché incapaci di leggere il senso di un’evidenza, l’evidenza che nulla può esistere da sé, ma che tutto rimanda ad una causa. Canta il Salmo 18: «I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento. / Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. / Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. / Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola».
Possiamo dire che riconoscere l’esistenza di Dio è un elemento distintivo dell’essere uomo. E infatti solo l’uomo può paradossalmente essere ateo, perché solo l’uomo ha in sé il concetto di Dio; lo ha talmente in sé che può liberamente (ma stoltamente) negarlo. L’animale no, l’animale non può essere ateo perché, privo dell’intelligenza, non può cogliere il senso della realtà, la sua logica, e quindi l’origine consequenziale e ordinata di tutto. Cicerone scrive nel De Legibus: «Tra tante specie nessun animale, al di fuori dell’uomo, ha una notizia qualsiasi della divinità, e non c’è fra gli stessi uomini nessuna gente così selvaggia e feroce, che sebbene ignori come si debba concepire Dio, non si renda conto che bisogna ammetterne l’esistenza». Giustamente lo scrittore inglese Chesterton sentenzia: «Se non ci fosse Dio, non ci sarebbero gli atei!».
E sempre a proposito di quanto il riconoscimento di Dio sia una condizione necessaria della buona utilizzazione dell’intelligenza, sant’Agostino scrive nel De Civitate Dei: «Vero filosofo è l’amante di Dio!». Qui l’autore delle Confessioni va ben oltre e dice che per essere veri sapienti non basta il riconoscimento di Dio, bisogna andare oltre, bisogna sceglierlo, seguirlo, amarlo, capire che è il tutto della propria vita.
dal Numero 18 del 3 maggio 2015
di Corrado Gnerre
di Corrado Gnerre
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