«Scoperto Kepler 186f: è un gemello della Terra fuori dal sistema solare». È la notizia di ieri? No, è la notizia che laRepubblica (clicca qui) dava più di un anno fa, esattamente il 17 aprile 2014. La notizia che la Repubblica (clicca qui) dava il 23 luglio 2015 è però identica: «Scoperta Terra con un proprio sole in una zona “abitabile” dell’Universo». È Kepler 425b. Stesso titolo, pianeta diverso, consueto clamore per il rinvenimento di un pianeta “unico”… come tanti altri. Nel febbraio 2014 erano infatti già 715, orbitanti attorno a 305 stelle (clicca qui), gli esopianeti (quelli cioè non appartenenti al nostro sistema solare) individuati dal telescopio spaziale della Missione Kepler, lanciata della Nasa il 7 marzo 2009 per cercare pianeti simili alla Terra attratti da stelle diverse dal Sole.
Del resto, per la Nasa, tra l’1,4% e il 2,7% delle stelle analoghe al Sole avrebbe pianeti “abitabili” simili alla Terra, il che porta a 2 miliardi il numero dei pianeti paraterrestri della Via Lattea. E dato che nell’universo osservabile esistono almeno 50 miliardi di galassie, il numero complessivo dei pianeti “abitabili” salirebbe a 100 miliardi (clicca qui). Insomma, come dice Seth Shostak, astronomo del Seti Institute (il programma che a Mountain View, in California, si dedica alla ricerca della vita intelligente extraterrestre), «piovono pianeti» (clicca qui). Per questo la notizia della scoperta di un “gemello” della Terra si ripete sempre uguale a se stessa. Una non-notizia, cioè, se non fosse per il sensazionalismo artefatto che l’accompagna. Si dice, per esempio, pianeta “abitabile”, ma è ambiguo. L’aggettivo significa solo che un dato pianeta, per esempio oggi Kepler 425b, orbita attorno a una stella a una distanza tale da rendere teoricamente possibile il mantenersi dell’acqua allo stato liquido sulla superficie. Non significa che vi sia acqua e nemmeno che qualcuno lo abiti.
L’acqua è infatti necessaria alla vita, ma non è sufficiente. Non è detto che se su un pianeta vi fosse acqua, automaticamente vi sarebbe vita; per innescare il meccanismo della vita serve altro; e che cosa serva a generare la vita è ancora un mistero fitto per la scienza, la quale può al massimo elencare altre condizioni necessarie alla vita, ma nessuna di loro sufficiente. Del resto, la possibilità che un pianeta abbia acqua in superficie è solo una stima teorica, non l’osservazione diretta di un fatto né l’esito di un rinvenimento empirico. Prendiamo Marte. Si dice e si ripete che il quarto pianeta del nostro sistema solare avrebbe acqua, ma non è vero. La Missione Mars Exploration Rover, lanciata dalla Nasa nel 2003, ha trovato sulla superficie marziana dell’ematite, il minerale del ferro che sulla Terra si forma in presenza di acqua, più alcune strutture sedimentarie determinate dall’azione di un liquido, quindi eventualmente compatibili anche con la presenza di acqua. Tutto qui. L’acqua su Marte non l’ha raccolta nessuno e nessuno ha documentato la vita.
Torniamo a Kepler 425b. Alla sua scoperta si adattano perfettamente le considerazioni svolte un anno fa, a fronte della scoperta di Kepler 186f, dal periodico Query (clicca qui), la rivista ufficiale del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, famoso per il positivismo razionalista di cui fanno regolarmente le spese i miracoli, le apparizioni, le fedi religiose. A maggior ragione Query non può essere tacciato di scetticismo antiscientifico magari in favore di una qualche ipotesi metafisica. Oltre all’acqua (presunta), Query ricorda che per l’“abitabilità” di un pianeta conta anche il suo stato. Kepler-186f è roccioso (e così anche Kepler 425b), e la cosa è utile alla causa. Ma «di pianeti rocciosi di dimensioni simili alla Terra se ne erano già scoperti diversi […]. Kepler-186f è il primo che abbia entrambe queste caratteristiche. Questa è la sua importanza, che alla fine da un punto di vista scientifico è abbastanza limitata: nessuno aveva dubbi che esistessero pianeti così […]». E però Kepler 186f come Kepler 425b «può essere pieno di metalli pesanti e avere una gravità insostenibile, o esserne privo, come la Luna, e non avere abbastanza gravità per trattenere un’atmosfera. L’atmosfera può essere troppo ricca di gas serra e il pianeta può essere una fornace come Venere, o essere troppo rarefatta e l’acqua può evaporare al primo raggio di sole».
Cosa sappiamo insomma di Kepler-186f o di Kepler 425b? Nulla. Kepler 425b lo ha “visto” solo un telescopio orbitante a poco meno di 150mila chilometri dalla Terra, mentre esso dista circa 1400 anni-luce, cioè 9461 miliardi di chilometri (un anno-luce) moltiplicato 1400 volte, pari, per intendersi, a 63.241 volte la distanza tra Terra e Sole (un anno-luce) moltiplicata sempre per 1400. Se pensiamo che il pianeta Plutone dista dalla Terra, a seconda del suo posizionamento rispetto a noi e al Sole, tra i 4200 e i 7500 milioni chilometri circa, e che solo quando la sonda spaziale New Horizons è arrivata, il 14 luglio 2015, a 12.472 chilometri dalla sua superficie (per intendersi l’atmosfera terrestre propriamente detta finisce a un centinaio di chilometri dal suolo) gli scienziati si sono accorti che sul suo aspetto si erano ingannati, capiamo che dei pianeti “abitabili” scoperti da Kepler non sappiamo proprio alcunché.
Fa dunque un po’ sorridere Ellen Stofan, capo ricercatore della Nasa, quando dice che gli scienziati sanno dove cercare gli alieni nello spazio e che tra 20 anni l’incontreremo… (clicca qui). A meno che ciò non serva per giustificare i budget faraonici delle missioni spaziali (la sola Missione Kepler è costata 550 milioni di dollari) che cercano quel che vogliono trovare e che così prima o poi lo “scoprono” anche se non c’è. È un vecchio vizio sofistico, e in cosmologia si chiama “principio antropico” (o è una sua “eresia”): la constatazione di condizioni fisiche compatibili con la vita diventa causa stessa della vita. Ma è solo idealismo hegeliano riciclato: ciò che la mente pensa esiste anche nella realtà, con la causa e l’effetto che si scambiano di posto. In attesa di una notizia vera, vale allora la pena di rispolverare The Privileged Planet: How Our Place in the Cosmos is Designed for Discovery (Regnery, Washington 2004) di Gulliermo Gonzales e Jay Richards, nonché il dvd omonimo (clicca qui), del 2010, la cui voce narrante è quella dall’attore John Rhys-Davies, il nano Gimli de Il Signore degli Anellicinematografico, dove l’irriducibilità della vita al calcolo statistico spalanca gli occhi e il cuore al vero mistero dell’universo.
25-07-2015
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-un-pianeta-gemello-si-come-gli-altri-100-miliardi-13351.htm
La creazione, nuovi pianeti e l'uomo diventato "satellite"
di Camillo Langone | 25 Luglio 2015 ore 06:18
Papa Benedetto scrisse che “nel mondo antico i corpi celesti erano guardati come potenze divine che decidevano del destino degli uomini”. Anche nel mondo moderno, siccome la storia sta chiudendo il suo cerchio. Ci sono quelli che leggono gli oroscopi e quelli, spesso gli stessi, che credono agli annunci della Nasa, non molto più scientifici. Ovviamente penso alla fantasia della Terra gemella: un pianeta che il telescopio non ha visto (quindi tutte le fotografie pubblicate dappertutto sono false), dove forse c'è acqua oppure no, dove la temperatura è gradevole o invece è un forno o una ghiacciaia, dove una qualche forma di vita (amebe? Giraffe? Omini verdi?) forse si è sviluppata, forse si svilupperà, forse si è estinta, forse non è mai nata. Il tutto a 1.400 anni luce di distanza, quindi perfino un conduttore radiofonico, se prima di parlare per una volta ragionasse, capirebbe che l'intera faccenda ha meno importanza di uno starnuto del vicino di casa. Sempre Papa Benedetto, sempre nel libro succitato, definì la demitizzazione del cosmo operata dal cristianesimo “una svolta antropologica”. Eccoci invece al rattrappimento antropologico: l'uomo che era il centro della Creazione è diventato un satellite della sua stessa tecnica. Gente così piccola da non riuscire più a seguire Cristo può benissimo seguire Samantha Cristoforetti.
La domanda se siamo soli nell’universo continua ad affascinare l’opinione pubblica e gli scienziati. Perfino Papa Francesco, parlando dello Spirito santo che spinge sempre la Chiesa oltre i limiti, si poneva il 12 maggio 2014 questo interrogativo nell’omelia della messa a Santa Marta: «Se domani venisse una spedizione di marziani, per esempio, e alcuni di loro venissero da noi, ecco... marziani, no? Verdi, con quel naso lungo e le orecchie grandi, come vengono dipinti dai bambini (...). E uno dicesse: “Ma, io voglio il battesimo!”. Cosa accadrebbe?».
La domanda sulla vita extraterrestre è una costante nella storia del pensiero filosofico e religioso. Nel secolo XIII Alberto Magno commentava: «Dal momento che una delle questioni più meravigliose e nobili in natura è se c’è un mondo o molti (...). Sembra opportuno indagare». Tra i filosofi greci il dibattito della pluralità dei mondi è stato più intenso tra gli epicurei (a favore della pluralità) e gli aristotelici (a favore di unicità).
Niccolò Cusano aveva sostenuto l’idea di altri mondi abitati, speculando sulla natura degli alieni. Giordano Bruno adottò l’eliocentrismo di Niccolò Copernico trasformandolo in una visione dell’universo infinito ed eterno con stelle, come il sole, con mondi circostanti e abitati. Bruno criticò Copernico perché si era fermato alla matematica, non affrontando i problemi filosofici della nuova visione del mondo. Così per Bruno, la terra è un pianeta simile ad altri che possono essere chiamate “altre terre”. Meno noto è il caso dell’astronomo gesuita Angelo Secchi, uno dei fondatori della moderna astrofisica, direttore dell’Osservatorio del Collegio romano. Secchi nelXIX secolo si occupò dell’esistenza di altri mondi abitati, di cui era convinto.
La nostra galassia contiene più di cento miliardi di stelle. Considerando il numero di pianeti extrasolari scoperti, sembra che la stragrande maggioranza delle stelle nella nostra galassia sia, almeno potenzialmente, in grado di avere dei pianeti in cui la vita si sarebbe potuta sviluppare. Anche se non sappiamo con certezza se il fenomeno “terra” sia raro o comune.
Come segnala Sara Seager, esperto mondiale nel campo dei pianeti extrasolari: «Quando e se troveremo che le altre terre sono comuni e vedremo che alcune di loro hanno segni di vita, avremo finalmente completato la rivoluzione copernicana, uno spostamento finale e concettuale della terra, e dell’umanità, lontano dal centro dell’universo. La rilevazione e la caratterizzazione di mondi abitabili sono la promessa e la speranza della ricerca dei pianeti extrasolari».
Poche settimane fa sono stato invitato dal Nasa Ames Research Center per tenere una conferenza sul futuro dell’universo. Durante la visita, ho avuto il privilegio di incontrare il team della missione Kepler. Mi sono sentito molto onorato da William Borucki, ricercatore principale del telescopio spaziale Kepler, che molto gentilmente mi ha fatto una presentazione della missione. Ho potuto apprendere di prima mano non solo l’importanza dei risultati scientifici, ma anche di tutto lo sforzo che un’impresa del genere comporta. Con questa scoperta, e con quelle immagini che sono arrivate dal lontano Plutone nei giorni scorsi, abbiamo avuto l’occasione di constatare che la scienza è portata avanti da un team e non da singoli.
Inoltre abbiamo potuto osservare che per arrivare a risultati scientifici importanti c’è bisogno di pazienza e tempo. Ci sono voluti quasi dieci anni per arrivare a Plutone e venti anni dalla scoperta del primo pianeta extrasolare per rilevare l’esistenza di un’altra terra. La collaborazione e la pazienza sono alcune delle virtù che possiamo imparare dagli scienziati e che possono ispirare le giovani generazioni.
La ricerca astrobiologica — con le domande e il fascino che suscita negli scienziati e nell’opinione pubblica — apre una strada di frontiera, verso le periferie, esistenziali e fisiche, più lontane e più profonde. Mentre tutto ciò che possiamo fare è aspettare con pazienza le sorprese di Dio: «Vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi, 1, 31). Sapendo che egli è la prima e l’ultima parola, quella definitiva.
L'Osservatore Romano, 26 luglio 2015
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