ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 25 agosto 2015

Semplici, anche se amare verità.

I MARTIRI DI LEPANTO
   
Certe anime belle del mondo cattolico devotamente “progressiste” a forza di ripetere le loro magnifiche formule sul pluralismo e sul dialogo interreligioso si sono dimenticate alcune semplici e amare verità di Francesco Lamendola

Ricordiamoci i martiri di Otranto


Davanti alle atrocità dei miliziani del Califfato islamico in Siria e in Iraq, alle decapitazioni di cristiani sulle coste della Libia, ai massacri di cristiani nella Nigeria settentrionale, molte anime belle sono rimaste non solo – come tutti – inorridite e indignate, ma anche – e questo è un po’ meno comprensibile – francamente meravigliate. E parliamo soprattutto di certe anime belle del mondo cattolico, di certi cattolici devotamente “progressisti” ed “ecumenici”, i quali, a forza di ripetere le loro magnifiche formule sul pluralismo e sul dialogo interreligioso, a forza di partecipare a marce e cerimonie in cui si stringono a braccetto con gli esponenti di altre fedi, si sono dimenticati alcune semplici, anche se amare verità.

Molto spesso, noi europei abbiamo commesso l’errore di lasciarci raccontare la nostra stessa storia dai nipotini di Voltaire, i quali ci hanno convinto, a forza di ripeterlo, che i cristiani sono sempre stati, o quasi sempre, gente aggressiva e senza scrupoli, gente abituata a molestare gli altri popoli e le altre religioni in casa loro, dalle Crociate al colonialismo. Secondo questo racconto, tutto il male veniva dall’Europa, e più precisamente dalla Chiesa cattolica; e, infatti, hanno cominciato ad andare un po’ meglio, almeno nell’Europa settentrionale, dopo l’avvento della Riforma protestante, che ha portato un po’ di civiltà in mezzo alle tenebre della superstizione clericale.
Oggi, però, le cose vanno ancor meglio, da quando i cristiani, e perfino i cattolici, hanno smesso di fare i rompiscatole su quisquilie come l’aborto e l’eutanasia, e sembrano disposti a chiude un occhio non solo sulle unioni di fatto, ma - se non oggi, domani -, anche sui cosiddetti matrimoni omosessuali. E poi, la loro buona volontà appare evidente dal fatto che hanno concesso l’uso di numerose chiese agli immigrati islamici, e approvato la costruzione di moschee; che hanno tolto i crocefissi da molte scuole, per non offendere la sensibilità religiosa di detti immigrati; che hanno rinunciato ai canti di Natale o agli auguri di Pasqua, per la stessa ragione; e così via.
Se si aggiunge che alcuni vescovi hanno proibito agli alpini di recitare, nel corso della Santa Messa, la loro preghiera tradizionale, in cui si chiede a Dio di aiutarli a difendere la millenaria civiltà cristiana, se necessario anche con le armi; e che alcuni preti hanno pensato bene di appendere, sulla porta delle loro chiese, il cartello con la scritta: «Vietato l’ingresso ai razzisti», intendendo, per razzisti, tutti quelli che esprimono anche solo la più piccola perplessità davanti al “dovere” di essere accoglienti di fronte alla quotidiana invasione del nostro Paese da parte di centinaia di migliaia di persone, in gran parte di fede islamica, le quali chiedono di essere salvate in mare e pretendono di essere trasportate a terra, ma non portano con sé documenti di identità, declinano generalità false, rifiutano di lasciarsi prendere le impronte digitali, evidentemente per nascondere la loro vera identità e la loro provenienza, nonché le loro reali intenzioni: allora il quadro sarà completo.
Resterebbe solo da aggiungere una cosa: che questi preti, questi vescovi e questi cattolici “progressisti” non si sono mai mostrati altrettanto zelanti nella difesa dei valori cristiani, a cominciare dal diritto alla vita fin dal suo concepimento, e non si sono mai mostrati così preoccupati, né altrettanto solleciti, per il dramma di una decina di milioni di cittadini italiani, che pagano le tasse, ma devono sopravvivere con pochi euro di pensione; che perdono il lavoro tutti i giorni, e precipitano nella povertà, insieme alle loro famiglie; che sono abbandonati dallo Stato e strangolati dagli usurai; che vivono in automobile e mangiano la minestra alle mense della Caritas (e non gettano il piatto nella spazzatura, come fanno tanti immigrati clandestini nei centri di accoglienza); che devono vivere nelle periferie degradate, in mezzo alla delinquenza e alla prostituzione, in buona parte connessa con la presenza di immigrati venuti per delinquere; che cadono nella disperazione e diventano “barboni”, o arrivano a togliersi la vita, o si lasciano morire letteralmente di fame, anche perché troppo dignitosi per andare a chiedere la carità.
Ebbene: a tutte le anime belle, le quali, davanti alle immagini dei cristiani copti fatti inginocchiare sulla riva del mare, in Libia, e poi decapitati dagli assassini del Califfato islamico, bisognerebbe ricordare che il “vizietto” di tagliare la testa ai cristiani, storicamente, gli islamici lo hanno sempre avuto: basti pensare, per fare un solo esempio fra mille, ai martiri di Otranto del 1480, la cui storia è, in questo senso, esemplare (ed è stata narrata da Maria Corti nel romanzo L’ora di tutti).
Il 28 luglio di quell’anno, una flotta turca salpata da Valona si presentò davanti ad Otranto e sbarcò un esercito di circa 16.000 uomini, sotto il comando di Geduk Ahmed Pascià, il quale iniziò subito l’assedio e il bombardamento della città, difesa da una piccola guarnigione aragonese di appena 400 uomini. L’11 agosto, dopo quindici giorni di assedio, i Turchi diedero l’assalto finale e riuscirono a penetrare in città, mentre gli abitanti e i difensori, che avevano rifiutato la resa in cambio della vita, si rifugiarono nella cittadella; ma anch’essa venne presa d’assalto e cadde. Il massacro che seguì fu inesorabile: tutti i maschi che avevano più di 15 anni vennero passati a fil di spada, le donne e i bambini fatti schiavi: in pratica, l’intera popolazione venne annientata. Gli ultimi difensori si erano asserragliati nella cattedrale, non sperando in una impossibile salvezza, ma per difendere fino all’estremo quel luogo santo, nel quale il clero continuava a celebrare la Santa Messa. Il sacerdote venne trucidato sull’altare; l’arcivescovo, Stefano Pendinelli, un vecchio di ottant’anni, fu decapitato sul suo seggio, dopo aver rifiutato seccamente l’intimazione di convertirsi alla fede maomettana. Il comandante turco, allora, per burla, si mise in testa la sua mitra, mentre le sue soldatesche saccheggiavano, stupravano e uccidevano senza alcun freno.
Ma non era ancora finita. Il 14 agosto, circa 800 prigionieri cristiani vennero condotti a forza sul Colle della Minerva e fu loro ordinato di accettare la conversione all’islamismo; rifiutarono tutti, e vennero decapitati sul posto, alla presenza dei loro parenti. Sono stati beatificati nel 1771 e poi canonizzati il 12 maggio 2013, nella cattedrale cittadina, come “i santi martiri di Otranto”, la cui commemorazione ricorre il 14 di agosto. Quest’ultimo eccidio, effettuato a freddo, e non già nel furore della battaglia, esprime perfettamente la mentalità dei Turchi Ottomani: mentalità che allora era considerata “normale”, mentre oggi, chi sa perché, vi sono dei cristiani che fanno le più grandi meraviglie quando sentono parlare di eccidi e decapitazioni che ricordano, fin nei particolari, quel che accadde a Otranto, più di cinque secoli fa.
Non si vuol dire, con questo, che tutti gli islamici nutrono, nei confronti dei cristiani, quel genere di sentimenti: ciò sarebbe ingiusto, oltre che assurdo; tuttavia, è un fatto che la convivenza fra le due fedi non può reggersi sulla buona volontà di una sola delle due parti. E, per capire cosa intendiamo con questa affermazione, basti pensare alle condizioni in cui sono costrette a vivere le minoranze cristiane nella grande maggioranza dei Paesi islamici, dal Pakistan all’Egitto, dalla Siria al Sudan, e al tipo di comportamento che si pretende dai cristiani, anche se turisti, anche se lavoratori temporanei, nei Paesi islamici, dall’uso degli alcolici all’abbigliamento femminile; e confrontarli con la libertà pressoché totale di cui godono, e talvolta abusano (ad esempio, predicando la “guerra santa” nelle moschee), gli islamici residenti in Europa o negli Stati Uniti. Oppure, per fare un altro esempio, si pensi che le chiavi della Basilica del Santo Sepolcro, che è il luogo santo del cristianesimo per eccellenza, sono tenute da un musulmano: una situazione simbolica, senza dubbio; ma i cristiani la trovano “normale”, quando non la ignorano addirittura, solo perché sono abituati ad essere remissivi a senso unico; forse che gli islamici accetterebbero, a parti rovesciate, una cosa del genere: per esempio, che l’accesso alla Kaaba fosse formalmente detenuto da un cristiano?
Crediamo che valga la pena di rievocare il martirio del popolo cristiano di Otranto, e del suo vescovo, attraverso il racconto di mons. Grazio Gianfreda, che fu parroco nella cattedrale di Otranto per ben mezzo secolo, dal 1956 al 2007, anno della sua morte; e che si avvale, a sua volta, della testimonianza di alcuni autori antichi (da: G. Gianfreda, «Otranto nella storia», Galatina, Editrice Salentina, 1980, pp. 270-272):

«Un’ultima fortezza da espugnare è la bella Cattedrale normanna, ove un gruppo di difensori si è barricato non certo con l’intenzione di cercarvi scampo, ma col generoso proposito di difendere fino all’ultimo sangue l’opus Dei. Intorno a quella estrema rocca, la lotta, acuendosi al massimo, assume tutto il suo significato profondo e ideale: dinanzi alla porta sbarrata, petti contusi e sanguinanti offrono un ultimo baluardo al furore urgente delle scimitarre, all’irrompere selvaggio delle torme infuocate dei nemici. Gli Otrantini spinsero le loro donne in Cattedrale e, con la forza della disperazione, opposero eroica resistenza “proibendo alli Turchi d’entrare e fu fatto un gran macello così di Cristiani come de’ Turchi, che dell’una e dell’altra parte ve ne morirono assai” (G. M. Laggetto, Historia della guerra di Otranto del 1480). Cosa avveniva nell’interno del tempio? L’Arcivescovo del tempo, Stefano Pendinelli, “uomo vecchio e di decrepita età di ottanta anni, di santissima vita” (Laggetto), distribuito, per l’ultima volta, il “Pane vivo disceso dal Cielo” a quel povero popolo, prostrato e tremante, ed ora sedeva lì, sul trono episcopale, pontefice e vittima sull’esempio di Cristo. Con lui, sacerdoti, vecchi, mamme, spose, fanciulli e vergini, riuniti tutti presso l’Altare della Regina del cielo, attendevano l’ora suprema dell’olocausto.
Dall’alto del pergamo, il domenicano fra Fruttuoso, levando alta la voce sull’indistinto mormorio di preghiere e di gemiti, andava schiudendo agli uomini la visione del trionfo celeste, tessendo gli elogi di quella fede che era giunta l’ora di testimoniare col sangue. Le sue parole furono interrotte da un terrificante boato: sotto la violenza dell’impeto esterno, la grande porta del tempio aveva ceduto, e si abbatteva in mezzo al popolo orante. Fu il segnale dell’ultimo eccidio. Travolgente come un vortice furibondo, l’esercito ottomano irrompe nella casa di Dio. La forza dell’odio e della vendetta penetra per le navate illustri e solenni, raggiunge gli altari, uccide i celebranti, profana, insozza, contamina… Il sacro oratore, tagliato in due, cade nel suo sangue. Qualcuno si spinge fino alla Cattedra dell’Arcivescovo, di cui, più barbaro di Attila, non subisce il fascino della imponente maestà. Gli domanda il suo nome: “Sono il pastore di questo popolo, gli risponde il presule, indegnamente preposto al gregge di Cristo”. Il “nome al di sopra di ogni altro nome”, ancora una volta segno di contraddizione, fa sussultare di odio il Turco. “Non nominare Cristo” interrompe. “Non più Cristo, ma il nostro Maometto qui regna”. “Il vostro Maometto, promulgatore di un’’empia legge, è stato giudicato dalla sentenza di Dio. E se voi, infelici!, non vi convertirete a Cristo, per sempre ne condividerete la sorte” (dal Galantino, Codice Vaticano, nel Commentario all’Apocalisse). L’ultima parola dell’Arcivescovo fu una parola d’amore, ma egli non aveva terminato di pronunziarla che un colpo di scimitarra gli troncò netto il capo. Insieme all’Arcivescovo vennero uccisi i canonici: Antonello delle Castelle, Pietro de Luca, Angelo de Pino, Demetrio Portararo, M. Nicola Mazzapinta, Angelo de Pasca e Antonello Marziano; i monaci di S. Nicola di Casole dell’ordine di S. Basilio.
Il “Turco dopo si pigliò la mitra di quello (Arcivescovo) et avendosela posta in testa andava camminando per la città per derisione. L’altri che si trovorno presenti furono tutti legati e fatti schiavi, senza essere ucciso nessun altro. Quel che seguì da quei quelli crudelissimi cani, ognuno da sé lo può considerare. La città tutta saccheggiata, fatte schiave le donne e le vergini e le sacre (suore) trattate tutte ugualmente e molte di esse uccise per non voler acconsentire nei loro desideri; le vedove quali cacciarono a forza dalla confessione e portarono sopra il palazzo arcivescovile et ivi fatte schiave e con grandissimi pianti e stracci di capelli e di volti, lagrime e spavento per vedersi in mano di quei crudelissimi cani, talché le figliole dalla di loro madre le tolsero, li figlioli dalla protezione dei loro padri e tutti tirannicamente distrutti e diversi in diverse parti; crudeltà mai vista o sentita, massime che non si trova specie di crudeltà che non avessero usata” (Laggetto).»

È bene rileggersi questa cronaca, non per rinfocolare un odio anacronistico, ma perché molti, troppi cristiani sembrano essersi dimenticati di due cose importanti.
Primo: essere cristiani significa essere disponibili al martirio, in qualunque momento: testimoniare la fede in Cristo è cosa che suscita un furore omicida nei nemici del Suo nome; lo disse il divino Maestro con parole esplicite: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv., 15, 20).
Secondo: sull’esempio dei santi martiri di Otranto, testimoniare Cristo non significa buttare via la propria vita: la difesa di sé e dei propri cari è legittima, anzi, sacrosanta: perché il mondo in cui viviamo non è la Città di Dio, ma la Città Terrena, piena di superbia, malizia e violenza. Essere pronti al martirio, perciò, non significa che si deve cercarlo, ma che non si deve fuggirlo, se arriva...
di Francesco Lamendola

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